Indagini tecniche: il principio di atipicità della prova e la tutela di diritti e libertà di rilievo costituzionale
31 Gennaio 2019
Abstract
Nel nostro ordinamento processuale penale vige il principio di atipicità della prova. Ciò tuttavia non significa che si possa far ricorso liberamente a strumenti di indagine tecnica o scientifica non disciplinati dalla legge, ancorché gli stessi incidano su diritti e libertà di rilievo costituzionale. Nel silenzio del legislatore si pone peraltro il problema di verificare se possano trarsi indicazioni utili dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, per individuare una disciplina uniforme applicabile alla molteplicità di casi e variabili che si possono presentare all'interprete.
Le indagini tecniche disciplinate dalla legge
L'impiego di indagini tecniche o scientifiche nel procedimento penale consente sempre più spesso di raggiungere risultati sorprendenti e a volte addirittura risolutivi per le indagini. Tuttavia non per questo esse possono essere automaticamente esperite in fase di indagini ed introdotte nelle aule giudiziarie, sol che presentino sufficienti garanzie di affidabilità e sol che sia assicurato il rispetto delle norme procedurali che ne disciplinano l'utilizzazione, a seconda della categoria giuridica di riferimento (accertamento tecnico o rilievo – ripetibile o irripetibile). Esse possono infatti determinare l'incisione di libertà e diritti riconosciuti nella nostra Costituzione, suscitando dunque l'interrogativo in ordine alla loro utilizzabilità nell'ambito del procedimento penale. Ed è ovvio che il problema si pone in modo tanto più pregnante quanto più le indagini in parola siano innovative, e non trovino quindi ancora disciplina alcuna nella legge, né siano state ancora sottoposte al vaglio della giurisprudenza di legittimità. È chiaro infatti che se gli strumenti di indagine tecnica o scientifica ad impiego forense hanno già trovato espressa disciplina normativa, non dovrebbero porsi particolari problemi per l'interprete: il legislatore ha già risolto, disciplinandolo, il possibile conflitto tra l'esperimento della tecnica di indagine ed il bene di rilievo costituzionale inciso dalla stessa. Si pensi ad esempio alla disciplina dettata in tema di intercettazioni telefoniche (artt. 266 e ss., c.p.p.), dove la previsione di limiti, garanzie, e cautele da adottare per poter procedere all'attività tecnica di intercettazione, risponde all'esigenza di tutelare il bene della segretezza delle comunicazioni che trova diretta tutela nell'art. 15 Cost., attraverso la previsione della doppia riserva, di legge e di giurisdizione. Oppure si pensi alla disciplina di cui agli artt. 224-bis e 359-bis c.p.p., introdotta nel 2009 per disciplinare il prelievo coattivo di materiale biologico utile per la determinazione del profilo del DNA o altri accertamenti medici: anche qui sono previsti limiti e presupposti, nel rispetto dei quali solo è possibile procedere, in assenza del consenso dell'interessato, ad attività di prelievo, che possono incidere sulla sfera della libertà personale, direttamente tutelata dall'art. 13 della Carta fondamentale. In alcuni casi peraltro la disciplina dettata dal legislatore può risultare incompleta o lacunosa, e quindi all'interprete si ripropone il problema della compatibilità dell'esperimento dell'indagine tecnica con il dettato costituzionale. Rimanendo nell'ambito della disciplina dei prelievi per finalità di indagini genetiche, si può osservare ad esempio come la normativa in parola, nel prevedere la possibilità di procedere al prelievo di peli, capelli o mucosa del cavo orale, non contempli espressamente da nessuna parte il prelievo ematico, legittimando l'interrogativo se lo stesso - risultando incisivo della libertà personale come e più delle altre tipologie di prelievo espressamente contemplate dalla norma - non sia consentito, per il divieto di compiere qualsivoglia “restrizione della libertà personale” se non nei soli (casi e) modi previsti dalla legge (art. 13 Cost.). Le indagini tecniche atipiche non disciplinate dalla legge
Nel caso invece in cui si intenda introdurre nel processo una tecnica di indagine non disciplinata dalla legge, l'interprete è chiamato preliminarmente a verificare che il ricorso a detto strumento di prova non risulti pregiudizievole di diritti di rilievo costituzionale. Fermo restando che talora può essere estremamente ardua l'individuazione del diritto inciso dalla tecnologia che si vuole impiegare, come pure l'apprezzamento del quantum della lesione, occorre distinguere i casi che – in termini generali – si possono verificare:
Mentre nell'ultimo caso l'interprete si deve confrontare con una questione di non facile soluzione, nei primi due non si pongono particolari problemi, ancorché per opposte ragioni. Vediamo perché. Nel primo caso ipotizzato nel precedente paragrafo – attività non lesiva di diritti di rilievo costituzionale – l'indagine tecnica è ammissibile e liberamente introducibile nel procedimento penale. Si dovranno peraltro osservare, specialmente nella fase dibattimentale, i limiti dettati dall'art. 189 c.p.p. (prove non disciplinate dalla legge), secondo il quale quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge (c.d. prova atipica), il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona; in tal caso il giudice, prima di provvedere all'ammissione, deve sentire le parti sulle modalità di assunzione della prova. Dal tenore letterale della norma citata si capisce che vi sono alcune peculiarità nel regime di ammissione della prova atipica (che lo distinguono da quello relativo alla prova tipica il quale, previsto dall'art. 190 c.p.p., risulta meno restrittivo):
In proposito si può citare l'esempio delle videoriprese eseguite dalla polizia giudiziaria in luogo pubblico o aperto al pubblico, per le quali non si pongono particolari problemi circa la loro utilizzabilità processuale. In tal caso, infatti, non è richiesta alcuna autorizzazione, neppure da parte del pubblico ministero procedente (anche se in realtà di regola l'autorizzazione del p.m. verrà sempre richiesta, non foss'altro che per giustificare l'accollo delle relative spese da parte del Ministero della Giustizia). L'assenza di limiti che restringano le possibilità applicative delle videoriprese in luogo pubblico o aperto al pubblico derivadalla natura del luogo in cui si svolge la condotta, la quale implica di fatto una implicita rinunzia alla riservatezza (ex alios, Cass. pen., Sez. VI, 15 giugno 2012, n. 33592; Cass. pen., Sez. IV, 24 giugno 2012, n. 10697). Oppure si può menzionare anche il pedinamento a mezzo apparato satellitare (G.P.S. – Global Positioning System), quale attività di indagine atipica o innominata, non lesiva di diritti costituzionali. Il pedinamento satellitare - sostanzialmente assimilabile all'attività di “osservazione, controllo e pedinamento” (i c.d. O.C.P.) pacificamente esperibile dagli operanti di polizia giudiziaria nel corso delle indagini - tende infatti a seguire i movimenti sul territorio di un determinato soggetto, a localizzarlo e, dunque, a controllare a distanza la sua presenza in un determinato luogo in un certo momento, nonché l'itinerario seguito (cosiddetta “intercettazione G.P.S.”); si tratta insomma di una modalità, tecnologicamente caratterizzata, di pedinamento (ex ceteris, Cass. pen., Sez. IV, 28 novembre 2007, n. 3017). Benché essa comporti un controllo non poco invasivo a carico del soggetto interessato, non richiede alcuna autorizzazione preventiva da parte del Gip (ex ceteris Cass. pen., Sez. IV, 27 novembre 2012, n. 48279; e Cass. pen., Sez. II, 13 febbraio 2013, n. 21644) e, a rigore, neppure del P.M. (la cui autorizzazione comunque verrà di regola richiesta dalla polizia giudiziaria). Il pedinamento satellitare infatti non è paragonabile ad alcuna forma di intercettazione, anche telematica, proprio perché non comporta la captazione o l'ascolto di alcuna comunicazione, e come tale non lede il diritto alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.), né, verosimilmente, alcun altro diritto costituzionale. Può accadere anche che l'attività di indagine tecnica o scientifica, non disciplinata dalla legge, risulti pregiudizievole di diritti costituzionali fondamentali, protetti da riserva di legge. In tale ipotesi - benché il tema della “prova incostituzionale” trovi posizioni fortemente discordi tra gli interpreti - riteniamo che l'indagine non possa essere neppure esperita o, in fase processuale, ammessa. La prova atipica infatti, ove comporti una significativa compromissione del nucleo essenziale del diritto costituzionale, deve essere ritenuta senz'altro inutilizzabile (ai sensi dell'art. 191 c.p.p.), perché acquisita in violazione di un divieto posto, non già dalla legge, bensì direttamente dalla Carta costituzionale. È ciò che è accaduto nel 1996 – quando ancora il legislatore non aveva disciplinato in alcun modo l'attività di prelievo di campioni biologici dalla persona per finalità connesse al procedimento penale – allorchè la Corte Costituzionale ha sostanzialmente affermato l'illegittimità del prelievo ematico eseguito coattivamente nell'ambito dell'espletamento di una perizia, perché lesivo del bene della libertà personale in violazione dell'art. 13 Cost. In particolare la Corte, chiamata a pronunciarsi su una norma, l'art. 224, comma. 2, c.p.p. che, autorizzando il giudice ad adottare «tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali», attribuiva indirettamente al giudice stesso un potere di coazione tale da ricomprendere in ipotesi anche provvedimenti restrittivi della libertà personale (nel caso di specie, appunto, prelievo ematico), con sentenza n. 238 del 27 giugno 1996, affermò l'illegittimità costituzionale dell'art. 224, co. 2, c.p.p. per violazione dell'art. 13, comma 2, Cost (con riguardo al parametro della riserva di legge). La Corte in particolare ha ritenuto illegittimo l'art. 224, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui consente che il giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale senza determinare la tipologia delle misure esperibili e senza precisare i casi ed i modi in cui esse possono essere adottate». Pur riconoscendo che il prelievo ematico costituisse una «pratica medica di ordinaria amministrazione» si affermò cionondimeno che «la disposizione censurata […] presenta assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione al positivo dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto può ritenersi che sia legittimo procedere alla esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l'adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale». Per tali ragioni il prelievo ematico, ancorché effettuato in sede peritale su disposizione del giudice, comporta «certamente una restrizione della libertà personale quando se ne renda necessaria l'esecuzione coattiva perché la persona sottoposta all'esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo». Pur chiamata a occuparsi di prelievi ematici coattivi, la Corte ha reso tuttavia una decisione chiaramente valevole per tutte le misure che, ancorché disposte da un giudice, comunque incidano sulla libertà personale. Insomma, a seguito della sentenza in commento sono state poste fuori legge tutte le pratiche investigative comportanti a qualsiasi titolo una violazione della sfera corporale della persona, ove non direttamente disciplinate dal legislatore mediante previsione esplicita dei casi e dei modi, e mediante attribuzione all'autorità giudiziaria del potere di disporle e del dovere di vigilare sulle concrete modalità esecutive. Il divieto implicato dalla sentenza della Corte, pur pronunciato in tema di perizia deve naturalmente estendersi alle attività tecniche effettuabili dal pubblico ministero che non può disporre di un potere più ampio di quello riconosciuto al giudice. Altro esempio emblematico di attività tecnica non disciplinata dalla legge, confliggente con un bene costituzionale protetto da riserva di legge, è rappresentato dall'attività di videoripresa eseguita dalla polizia giudiziaria in un luogo di privata dimora. Salva l'ipotesi di intercettazioni di videocomunicazioni (ma in tal caso non parliamo di videoriprese in senso proprio) è chiaro che quando le videoriprese mirano a intercettare comunicazioni, le stesse ricadono nel fuoco delle intercettazioni cd. ambientali o tra presenti, e come tali sono disciplinate dall'art. 266, comma 2, c.p.p.. Il problema si pone invece laddove le videoriprese abbiano ad oggetto comportamenti non comunicativi. La Corte costituzionale lo ha chiarito con la nota sentenza n. 135 dell'11 aprile 2002. La questione di costituzionalità era stata sollevata nel corso di un'udienza preliminare rispetto a riprese visive effettuate in base a un provvedimento del pubblico ministero. Il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 189 e 266-271 c.p.p. e, segnatamente, dell'art. 266, comma 2, c.p.p., nella parte in cui «non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p. alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi». La questione mirava perciò a ottenere una pronuncia additiva che allineasse la disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a quella delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti nei medesimi luoghi. La decisione della Corte è stata tuttavia di segno opposto rispetto a quanto auspicato dal giudice remittente. La Corte ha ritenuto in particolare che le riprese visive in ambienti domiciliari non siano precluse in modo assoluto dall'art. 14 Cost.(che tutela appunto la libertà di domicilio) e che il riferimento fatto dal legislatore costituente solo alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri «non è necessariamente espressivo dell'intento di "tipizzare" le limitazioni permesse, escludendo a contrario quelle non espressamente contemplate; poiché esso ben può trovare spiegazione nella circostanza che gli atti elencati esaurivano le forme di limitazione dell'inviolabilità del domicilio storicamente radicate e positivamente disciplinate all'epoca di redazione della Carta, non potendo evidentemente il Costituente tener conto di forme di intrusione divenute attuali solo per effetto dei progressi tecnici successivi». Esclusa pertanto l'esistenza nella Carta costituzionale di un divieto assoluto della forma di intrusione domiciliare in questione (potendo il legislatore emanare una norma che la preveda), la Corte ha affermato che la ripresa visiva allorché sia finalizzata alla captazione di «comportamenti a carattere comunicativo”, “ben può configurarsi, in concreto, come una forma di intercettazione di comunicazioni tra presenti”, alla quale “è applicabile, in via interpretativa, la disciplina legislativa della intercettazione ambientale in luoghi di privata dimora». Nel caso invece in cui si fuoriesca dalla videoripresa di comportamenti di tipo comunicativo non è possibile estendere alla captazione di immagini in luoghi tutelati dall'art. 14 Cost. la normativa dettata dagli artt. 266 e ss. c.p.p., «data la sostanziale eterogeneità delle situazioni: la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni, da un lato; l'invasione della sfera della libertà domiciliare in quanto tale, dall'altro». In via di estrema sintesi, secondo la Corte costituzionale, dunque, il problema di costituzionalità si pone ove, fuoriuscendo dalla videoregistrazione di comportamenti a carattere comunicativo, venga in rilievo la violazione di domicilio in quanto tale; al riguardo l'ipotesi della videoregistrazione che non abbia carattere comunicativo attende ancora una disciplina dal legislatore nel rispetto e nella cornice tracciata dall'articolo 14 Cost., «ferma restando, per l'importanza e la delicatezza degli interessi coinvolti, l'opportunità di un riesame complessivo della materia da parte del legislatore stesso». In conclusione quindi: non è consentita l'introduzione in un'abitazione (o luogo di privata dimora) di strumenti tecnici volti alla captazione di immagini (cd home watching); le captazioni ottenute illegittimamente sono inutilizzabili, per il generale divieto di violazione della libertà di domicilio posto dall'art. 14 Cost., presidiato dalla riserva di legge (e di giurisdizione) (principio ribadito dalla medesima Corte con sentenza n. 149 del 7 maggio 2008). Le Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 26795 del 28 marzo, Prisco) hanno successivamente riaffermato l'illegittimità ed inutilizzabilità assoluta delle videoriprese di comportamenti non comunicativi in ambito domiciliare, poiché acquisite in violazione dell'art. 14 Cost., precisando come le stesse non possano essere qualificate come prova atipica ex art. 189 c.p.p., «perché tale categoria presuppone comunque la formazione lecita della prova come necessaria condizione della sua ammissibilità». Vi sono infine altri casi in cui l'indagine tecnica o scientifica nuova (e quindi non disciplinata dalla legge) che si vuole introdurre nel procedimento risulta lesiva di beni e diritti sì di rilievo costituzionale, ma che trovano nella Carta fondamentale solo una tutela indiretta. In tali casi il problema della utilizzabilità dello strumento di indagine si pone in tutta la sua ampiezza. Viene infatti in rilievo il conflitto tra esigenze parimenti di rilievo costituzionale e meritevoli di tutela: da un lato l'esigenza dell'accertamento della verità sottesa al procedimento penale, tutelata dall'art. 112 Cost. (che affermando il principio dell'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, richiede lo svolgimento di tutte le indagini necessarie per l'accertamento dei fatti e per sostenere validamente l'accusa in giudizio), e dall'altro lato l'esigenza di tutela dei diritti e delle libertà individuali che trovano comunque riconoscimento nella Carta fondamentale, vuoi – in modo esplicito – allorché l'indagine tecnica non leda il nucleo essenziale del diritto, vuoi – in modo implicito – nell'art. 2 Cost. (che impone appunto la tutela dei “diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”); le contrapposte esigenze devono dunque trovare un bilanciamento, operazione che però, in assenza di indicazioni da parte del legislatore, pone seri interrogativi all'interprete in merito alle concrete modalità di soluzione. Il tentativo di trovare una risposta soddisfacente al problema ora posto, ci suggerisce l'opportunità di verificare quali soluzioni abbia adottato la giurisprudenza di legittimità, nei casi in cui sia stata chiamata a pronunciarsi in merito all'utilizzabilità di strumenti di indagine non disciplinati dalla legge lesivi di diritti costituzionali. Vogliamo cioè verificare se sia individuabile un “diritto vivente” in grado di offrire una soluzione uniforme al problema, applicabile anche agli ulteriori casi che possano presentarsi nelle aule giudiziarie. Dallo scrutinio dei casi affrontati dalla Suprema Corte, e dai ripetuti interventi della Corte costituzionale, sembra potersi evincere la delineazione di un modello di tutela – sia pur meno forte di quello approntato a garanzia dei diritti espressamente riconosciuti dalla Costituzione – consistente nella previsione di un “livello minimo di garanzie”, e segnatamente nella adozione di un provvedimento motivato da parte dell'autorità giudiziaria (pubblico ministero o giudice) che disponga l'esperimento dell'attività di indagine. L'intervento motivato dell'autorità giudiziaria consente infatti di verificare e vagliare i limiti e gli scopi dell'invasione nella sfera privata e controllare le modalità esecutive con cui essa viene posta in essere; in tal modo troverebbero tutela – nel contemperamento con l'esigenza di adeguato svolgimento delle indagini – sia il diritto di difesa dell'indagato (perché solo grazie alla motivazione si potrebbe verificare la correttezza dell'operato della polizia giudiziaria alla quale sia delegata l'esecuzione dell'indagine tecnica) sia il diritto in ipotesi inciso dall'impiego della nuova tecnica di indagine. Uno dei beni di rilievo costituzionale per i quali si è posta più frequentemente la problematica in parola è senza dubbio quello della riservatezza. Già nel 1993 la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p.p. in relazione all'art. 15 Cost., ha avuto modo di confrontarsi con la tematica dell'acquisizione, per finalità di indagini, dei tabulati relativi al traffico telefonico (cd data retention). All'epoca il legislatore non era ancora intervenuto a disciplinare tale attività, che è stata invece regolamentata nel 2003 dall'art. 132 del d.lgs. 196 del 30 giugno 2003 (c.d. codice della privacy), modificato poi dal d.lgs. 30 maggio 2008 n. 109 che, in attuazione della direttiva comunitaria 2006/24/Ce, ha introdotto limiti alla durata temporale della conservazione dei dati. In caso di acquisizione dei “tabulati telefonici” per finalità investigative non viene in rilievo il “nucleo essenziale” del diritto alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.) in quanto la data retention incide unicamente sui dati esterni al traffico telefonico e non comporta quindi captazione del relativo contenuto. I dati telefonici acquisiti possono riguardare infatti l'identificazione dell'utenza chiamante e di quella chiamata, la data e l'ora della comunicazione, il tipo della stessa (telefonica, telematica, sms), la sua durata, nonché la cella telefonica agganciata (per consentirne una localizzazione approssimativa). Secondo la Corte delle leggi la riservatezza relativa ai dati esterni del traffico telefonico - bene giuridico periferico rispetto al nucleo centrale costituito dalla segretezza delle conversazioni - può trovare incisione soltanto sulla base di un atto dell'autorità giudiziaria sorretto da un'adeguata e specifica motivazione (Corte cost., sentenza n. 81/1993). La Corte costituzionale, investita nuovamente della questione, in relazione alla legittimità costituzionale dell'art. 267, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevede l'adozione di un provvedimento autorizzativo del giudice per l'acquisizione dei tabulati telefonici, ha ribadito (sentenza n. 281/1998) con maggior vigore la diversa forza invasiva dei due mezzi di ricerca della prova - intercettazione di comunicazioni da un lato e acquisizione dei dati esterni delle comunicazioni dall'altro - ed ha evidenziato la ragionevolezza dei diversi livelli di garanzia di tutela, poiché le intercettazioni si rivelano ben più intrusive della sfera di segretezza delle comunicazioni; e da qui la necessità dell'autorizzazione del giudice, mentre l'acquisizione dei tabulati, per l'evidente minore incisività nella sfera privata, ai fini della salvaguardia della guarentigia costituzionale richiede soltanto il provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, ossia anche del solo pubblico ministero. Ha quindi concluso che la disciplina applicabile va ricercata nell'art. 256 c.p.p., alle cui regole sono peraltro sottese le irrinunciabili garanzie di cui al secondo comma dell'art. 15 Cost.; sicchè la limitazione della privacy causata da quest'ultima forma d'intrusione può avvenire “con atto dell'autorità giudiziaria sorretto da adeguata e specifica motivazione”. Le Sezioni Unite, intervenute successivamente nel 2000 (Cass. pen., Sez. unite, sentenza n. 6/2000, D'Amuri), riprendendo gli arresti delle precedenti sentenze della Consulta, hanno poi riaffermato il principio secondo cui la lesione del bene di rilievo costituzionale rappresentato nel caso specifico dalla riservatezza dei dati relativi alle comunicazioni telefoniche, può avere luogo a condizione che sia preceduta dall'adozione di un decreto motivato dell'autorità giudiziaria che la autorizzi. Un altro caso significativo nel quale si è posta la questione del bilanciamento tra l'esigenza di accertamento e repressione dei reati, e quella di tutela della riservatezza (ricondotta questa volta all'art. 2 Cost.), è costituito dalle videoriprese in un luogo privato, non qualificabile come luogo di privata dimora, in cui si svolgano attività che si vogliono mantenere riservate. La disciplina delle videoriprese in tali luoghi si ricava dalle indicazioni nitidamente tracciate dalla Suprema Corte nella citata sentenza S.U. Prisco del 2006, e successivamente recepite dalla uniforme giurisprudenza della Suprema Corte. La sentenza in parola prende le mosse dall'argomento secondo il quale la tutela costituzionale del domicilio (art. 14 Cost.) non può essere estesa ad ogni luogo privato o dove comunque si svolgano attività riservate, ma deve essere limitata ai soli luoghi con i quali la persona abbia un rapporto stabile; da ciò consegue, secondo le Sezioni unite, che la videoregistrazione può essere ammessa con provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria – p.m. o giudice – laddove, in assenza di intrusione domiciliare, occorra comunque tutelare la riservatezza personale. Le riprese visive nei luoghi “riservati” vanno ad incidere infatti sulla protezione del diritto alla riservatezza della vita privata (art. 2 della Costituzione Italiana; art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo; art. 17 del Patto internazionale dei diritti civili e politici). In altri termini, sempre secondo la citata sentenza, le videoriprese in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono, possono essere eseguite dalla polizia giudiziaria, ma solo con un “livello minimo di garanzie”, rappresentato da un provvedimento autorizzativo motivato dell'autorità giudiziaria.
Il principio del “livello minimo di tutela” riaffermato dalle Sezioni unite Prisco, ha trovato poi ulteriore applicazione giurisprudenziale nel caso di registrazioni di colloqui tra presenti effettuate da uno degli interlocutori nell'ambito di un procedimento penale – c.d. “agente segreto attrezzato per il suono”. La Suprema Corte, in proposito (con la nota sentenza n. 23742 del 07/04/2010, dep. 21/06/2010, Angelini), in un caso in cui era stata dedotta dal ricorrente l'inutilizzabilità delle registrazioni delle conversazioni svoltesi tra l'imputato e un'altra persona, effettuate dal secondo all'insaputa del primo, con mezzi predisposti dalla Polizia, ha affermato che «non sono utilizzabili, in assenza di un provvedimento motivato di autorizzazione del giudice o del P.M., le registrazioni fonografiche di conversazioni occultamente effettuate da uno degli interlocutori d'intesa con la polizia giudiziaria e attraverso strumenti di captazione dalla stessa forniti” (conf. ex pluribus, Cass. pen., Sez. II, n. 42939/2012; Cass. pen., Sez. II, n. 7035/2014; e Cass. pen., Sez. IV, n. 48084/2017). In motivazione la Corte ha esplicitato le ragioni della limitazione in tal modo posta all'attività di indagine, richiamando espressamente le precedenti sentenze della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite (quali già sopra menzionate): “ad avviso di questa Corte, la registrazione fonografica occultamente eseguita da uno degli interlocutori d'intesa con la polizia giudiziaria e con apparecchiature da questa forniti, non costituisce un "documento" formato fuori del procedimento, utilizzabile ai fini di prova ai sensi dell'art. 234 c.p.p., ma rappresenta, piuttosto, la "documentazione di un'attività d'indagine, dato l'uso investigativo dello strumento di captazione che in tal caso viene realizzato. Ne discende che una simile attività, venendo ad incidere sul diritto alla segretezza delle conversazioni e delle comunicazioni, tutelato dall'art. 15 Cost., a differenza della registrazione effettuata d'iniziativa di uno degli interlocutori richiede un controllo dell'autorità giudiziaria. Ma tale controllo non implica la necessità di osservare le disposizioni relative all'intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli artt. 266 c.p.p. e seguenti, in quanto le registrazioni fonografiche, per il diverso livello di intrusione nella sfera di riservatezza che ne deriva, non possono essere assimilate, nemmeno nell'ipotesi considerata, alle intercettazioni telefoniche o ambientali e non possono, quindi, ritenersi sottoposte alle limitazioni ed alle formalità proprie di queste ultime. Non par dubbio, infatti, che le intercettazioni si rivelano particolarmente invasive della sfera di segretezza delle comunicazioni; il che determina la necessità dell'autorizzazione del giudice. Le registrazioni fonografiche eseguite da uno degli interlocutori con strumenti di captazione forniti dagli organi investigativi, al contrario, essendo effettuate col pieno consenso di uno dei partecipi alla conversazione, implicano un minor grado di intrusione nella sfera privata; sicché, ai fini della tutela dell'art. 15 Cost., è sufficiente un livello di garanzia minore, rappresentato da un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, che può essere costituito anche da un decreto del pubblico ministero. Tale provvedimento, infatti, rappresenta il "livello minimo di garanzie" richiamato in varie pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del 1998) e al quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto riferimento, in mancanza di una specifica normativa, sia in materia di acquisizione dei tabulati contenenti i dati identificativi delle comunicazioni telefoniche (Sez. unite, 23 febbraio 2000, n. 6), sia in tema di videoriprese eseguite in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono (Cass. pen., Sez. unite, 28 marzo 2006 n. 26795). Il provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, sia esso un giudice o un pubblico ministero, è altresì idoneo a garantire il rispetto dell'art. 8 della Cedu, nella interpretazione che ne è stata data dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo, offrendo un'adeguata tutela contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri nella vita privata». Dall'esame del diritto vivente sembra dunque che si possa individuare la formulazione di un principio di portata generale (seppur pronunciato dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, solo rispetto a casi determinati), in base al quale le attività tecniche non disciplinate dalla legge che aggrediscono un “bene minore” di rilievo costituzionale (sia esso individuato nell'art. 2 Cost., ovvero in una zona periferica rispetto al nucleo centrale del diritto espressamente tutelato), possono trovare utilizzazione processuale ex art. 189 c.p.p., ma solo a condizione che esse siano specificamente autorizzate con un decreto motivato dell'autorità giudiziaria. Merita però tenere presente che la stessa diagnosi di atipicità deve essere effettuata con estrema attenzione giacché, in base al cd principio di non sostituibilità, la prova innominata non può costituire il volano per eludere la disciplina già prevista dalla legge in relazione agli strumenti tipici: pertanto se l'attività tecnica che si assume non disciplinata dalla legge viene impiegata di fatto per aggirare surrettiziamente le regole sostanziali previste per gli atti tipici, la stessa non sarà utilizzabile nel procedimento penale. Ciò è stato chiaramente affermato dalla Suprema Corte nel caso dell'agente segreto attrezzato per il suono, appartenente alla polizia giudiziaria (Cass. pen., Sez. unite, n. 36747/2003, Torcasio). La polizia giudiziaria infatti non può produrre prove in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, documentandole con registrazioni attinenti a propri colloqui di indagine, per poi introdurle nel processo attraverso il varco dell'art. 234 c.p.p.. Se un colloquio consiste di fatto nell'interrogatorio di un soggetto, in violazione delle garanzie stabilite dall'art. 63 c.p.p., la circostanza che sia stato lecitamente registrato non implica la possibilità di produrre il relativo supporto in violazione dell'art. 191 del medesimo codice. Ciò tra l'altro con elusione dei divieti di documentare aliunde le stesse attività di indagine, come accade per il divieto di testimonianza degli agenti di polizia ex rt. 195 co. 4 c.p.p. sul contenuto delle dichiarazioni assunte nel corso delle indagini. Il “principio di non sostituibilità” è stato riaffermato dalla Corte anche in relazione alla diversa questione dell'acquisibilità della corrispondenza epistolare attraverso la disciplina delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni. La Suprema Corte (Cass. pen., Sez. unite, 19 aprile 2012, n. 28997, Pasqua) infatti, risolvendo un precedente contrasto giurisprudenziale, ha chiarito come, essendo previsto dal legislatore lo strumento tipico del sequestro di corrispondenza (artt. 254 e 353 c.p.p.), non può essere elusa la relativa disciplina, attraverso il ricorso allo strumento delle intercettazioni, al fine di acquisire in modo occulto la corrispondenza di interesse investigativo (soluzione questa recentemente ribadita anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 20 del 17 dicembre 2016, dep. 24 gennaio 2017). In conclusione
Traendo le fila della nostra riflessione, possiamo dire che, laddove si intenda fare ricorso a una tecnica di indagine nuova e quindi non disciplinata dalla legge, dovremo preliminarmente verificare se l'indagine stessa sia pregiudizievole di diritti costituzionali. In tal caso, dovremo altresì valutare se il diritto costituzionale inciso sia tutelato direttamente, attraverso l'espressa previsione costituzionale della riserva di legge, oppure solo indirettamente: nella prima ipotesi l'indagine non potrà essere legittimamente esperita e, ove ugualmente svolta, il risultato di prova non sarà utilizzabile; nella seconda invece l'autorità giudiziaria, recependo le indicazioni ricavabili dal diritto vivente, dovrà adottare un decreto motivato nel quale siano esposte le ragioni che giustificano il ricorso all'indagine tecnica o scientifica, nonostante la sua incidenza su diritti di rilievo costituzionale.
CAMON ALBERTO, La fase che “non conta e non pesa”: indagini governate dalla legge?, Dir.Pen.Proc., 4/2017, p. 425; CONTI CARLOTTA, I diritti fondamentali della persona tra divieti e ‘sanzioni processuali': il punto sulla perizia coattiva, in Dir.Pen.Proc., 8/2010, p. 993; CONTI CARLOTTA, Prova informatica e diritti fondamentali: a proposito di captatore e non solo, in Dir.Pen.Proc., 9/2018, p. 1210; CORDERO FRANCO, Procedura Penale, Giuffrè, 2012; DOMINIONI ORESTE, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005; GALANTINI NOVELLA, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, 1992; LEO GUGLIELMO, Il prelievo di materiale biologico nel processo penale e l'istituzione della banca dati nazionale del DNA, in Riv.It.Med.Leg., 2011, 4-5, p. 931; MACCHIA ALBERTO, I diritti fondamentali “minacciati”: lo sfondo delle garanzie in Costituzione, in Dir.Pen.Cont., 17 luglio 2017; SILVESTRI GAETANO, L'individuazione dei diritti della persona, in Dir.Pen.Cont., 29 ottobre 2018; TONINI PAOLO, CONTI CARLOTTA, Il diritto delle prove penali, Giuffrè, 2014; VALLI ROBERTO V. O., Il prelievo ematico coattivo per l'accertamento dei reati di lesioni e omicidio stradale colposi, in Dir.Pen.Cont. n. 10/2017; VALLI ROBERTO V. O., La perquisizione informatica e la perquisizione “da remoto”. |