Quali sono i termini di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da reato fatto valere in sede penale?

04 Febbraio 2019

L'azione civile esercitata nel processo penale soggiace alle regole proprie della prescrizione penale, di guisa che il termine per il suo esercizio, ai sensi dell'art. 2947, comma 3, c.c. è quello previsto per l'estinzione del reato, qualora più lungo, e lo stesso non è solo interrotto dalle vicende di cui agli artt. 2943 e 2944 c.c., ma anche...
Massima

L'azione civile esercitata nel processo penale soggiace alle regole proprie della prescrizione penale, di guisa che il termine per il suo esercizio, ai sensi dell'art. 2947, comma 3, c.c. è quello previsto per l'estinzione del reato, qualora più lungo, e lo stesso non è solo interrotto dalle vicende di cui agli artt. 2943 e 2944 c.c., ma anche dal compimento degli atti di cui all'art. 160 c.p.

Il caso

Avverso la pronuncia con la quale la Corte d'appello dichiarava il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato di lesioni, confermando, ex art. 578 c.p.p., la statuizione di condanna agli effetti civili, l'imputato ricorreva per cassazione lamentando come l'atto di costituzione di parte civile fosse stato depositato successivamente allo spirare del termine quinquennale di cui al combinato disposto degli artt. 2947, comma 3, c.c. e 157 c.p., dovendosi, in tal guisa, considerare prescritto il relativo diritto al ristoro.

La questione

Il caso devoluto alla Corte concerne la portata applicativa della disciplina civilistica in punto di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito costituente reato, quando la relativa azione venga esercitata in sede penale.

Come noto, il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito è stato inserito dal legislatore del 1942 all'interno della casistica delle prescrizioni brevi, limitando a cinque o due anni il termine per il suo esercizio (art. 2947, commi 1 e 2, c.c.). Tuttavia, onde evitare divergenze applicative tra i diversi settori dell'ordinamento, in un periodo in cui era ancora cogente il principio di pregiudizialità penale, il comma 3 del medesimo art. 2947 c.c. ha espressamente contemplato l'ipotesi che il fatto illecito integri altresì gli estremi del reato stabilendo che, quando per esso sia prevista una prescrizione più lunga, «in ogni caso […] questa si applica anche all'azione civile»; e ciò, quindi, anche qualora non vi sia stata promozione dell'azione penale, bastando che il fatto sia astrattamente riconducibile entro i confini di una fattispecie criminosa.

Orbene, con la sentenza in commento, la Suprema Corte interviene sul dibattito concernente l'efficacia delle cause interruttive della prescrizione penale sulla prescrizione del diritto al risarcimento del danno quando la relativa azione sia stata esercitata sul terreno giurisdizionale penale con la costituzione di parte civile.

Nel caso di specie, il ricorrente, onde supportare la propria censura circa l'intervenuta prescrizione del diritto al ristoro in epoca antecedente alla costituzione di parte civile – perché mancante un atto interruttivo posto in essere dalla parte privata riconducibile a quelli elencati negli artt. 2943 e 2944 c.c. – richiamava a sé il principio espresso dalla Suprema Corte, secondo cui ai fini della tempestività dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale occorre fare riferimento alle regole del processo civile (art. 2947, comma 1, c.c.), […] posto che la parte civile, al pari degli altri soggetti indicati nell'art. 100 c.p.p., si muove nel processo penale nell'ambito, diretto o indiretto, di un contenzioso di natura civilistica. Logico corollario di tale premessa ritenere che l'azione civile inserita nel processo penale soggiace alle regole della prescrizione penale e delle relative cause di interruzione e di sospensione soltanto allorquando sia tempestivamente esercitata e, dunque, nei limiti temporali di cui al succitato art. 2947 c.c., di guisa che, pur in pendenza di giudizio penale, il mancato esercizio dell'azione civile nei termini di prescrizione - non interrotta ex art. 2943 c.c. – determina il venir meno del diritto alla tutela giurisdizionale (Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2011, n. 14460).

Le soluzioni giuridiche

I giudici della Suprema Corte, ritenendo che la sentenza richiamata dal ricorrente sia stata superata da altri e più recenti pronunciamenti – il che bastandole a far ritenere nemmeno sussistente un contrasto in materia –, chiude la questione aderendo sic et sempliciter a tali arresti, limitando il proprio costrutto motivazionale alla mera riproduzione della loro massimazione, a tenore della quale «l'azione civile esercitata nel processo penale soggiace alle regole proprie della prescrizione penale, di guisa che ed esso sono applicabili anche gli istituti della sospensione e della interruzione di cui agli artt. 159 e 160 c.p., con la conseguenza che fruisce non solo del termine di prescrizione quinquennale (o superiore se per il reato è previsto un più lungo termine) ma anche del prolungamento dei conseguenti ad eventi interruttivi e sospensivi della prescrizione penale» (Cass. pen., Sez. V, 7 aprile 2017, n. 28598; Cass. pen., Sez. V, 26 febbraio 2013, n. 12587; Cass. pen., Sez. V, 21 giugno 2012, n. 11961; Cass. pen., Sez. IV, 12 luglio 2011, n. 38773). Con ciò rigettando il ricorso proposto dall'imputato, rilevando che il termine di prescrizione per l'esercizio della pretesa risarcitoria sarebbe stato interrotto dall'emissione del decreto che dispone il giudizio, ancorché notificato successivamente allo spirare del termine prescrizionale dell'art. 157 c.p.

Osservazioni

Non si ritiene che l'approdo esegetico fatto proprio dalla Corte, onde motivare il rigetto della questione prospettata dal ricorrente, sia da ritenersi corretto.

La motivazione giuridica, da ricavarsi dalle pronunce da essa richiamate, trae fondamento da una lettura estensiva del comma 3 dell'art. 2947 c.c. secondo cui il riferimento ivi contenuto alla disciplina penale non può essere riferito al solo termine base, ma debba comprendere anche tutti gli altri istituti della prescrizione penale: se così non fosse - ha affermato la Corte - si correrebbe «il rischio inaccettabile di fare prescrivere la azione civile nel caso di scelta di innestarla nel processo penale, che pure è prevista dalla legge come regola e che non può danneggiare colui che ha già subito un danno» (Cass. pen., Sez. I, 20 dicembre 2007, n. 3601), altresì specificandosi che l'interpretazione propugnata consente di dar «luogo a una disciplina unitaria tra i due istituti (civile e penale)» (Cass. pen., Sez. III, 13 aprile 1992, n. 9725) .

Orbene, va innanzitutto osservato che gli istituti non sono certo due, ma uno solo, quello cioè del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito astrattamente riconducibile in un'ipotesi di reato, al quale, nell'interpretazione offerta dalla giurisprudenza penale, si finisce con l'assegnare, contrariamente a ciò che espressamente si vorrebbe, una diversa disciplina estintiva a seconda della scelta del terreno procedimentale ove esercitare la relativa azione.

Non può, infatti, non tenersi, innanzitutto, conto dell'approdo interpretativo della giurisprudenza civile che, nel suo più ampio consesso, ha espressamente escluso l'applicabilità dell'intera disciplina penalistica in punto di prescrizione del diritto rilevando che, se dovesse attribuirsi rilievo agli atti interruttivi della prescrizione della pretesa punitiva dello Stato prescindendo dal computo del termine sulla base della pena edittale prevista per il reato, non si avrebbe un unico termine di prescrizione, ma una variabile molteplicità di termini per un solo tipo di reato, a seconda delle vicende processuali verificatesi in sede penale (cfr., Cass. pen., Sez. unite, 18 novembre 2008, n. 27337).

Per parte sua, la giurisprudenza penale, pur prendendo atto della suddetta interpretazione, ha rimarcato che la validità di tale principio è limitata alla giurisdizione civile e non si estende sul terreno penale, finendo per dar vita, appunto, a una disciplina del tutto disomogenea per il medesimo istituto; istituto, che è, e rimane di matrice civilistica. Con la paradossale conseguenza di coniare un termine di prescrizione mobile, affidato a vicende che nulla hanno a che fare con l'ontologia delle cause di interruzione e sospensione della prescrizione delle pretese civilistiche.

Se poi, da un lato, lascia perplessi che l'appiglio normativo di una tale interpretazione venga reperito nell'ordito civilistico cui la giurisprudenza civile ha assegnato ben altra esegesi, dall'altro non può omettersi di rilevare come in nessuna considerazione venga tenuta la dogmatica dell'istituto della parte civile.

Dall'assetto complessivo della normativa emerge chiaramente come la scelta di proseguire nella tradizione di ammettere, nel processo penale, l'esercizio dell'azione civile - scelta che mal si concilia con la svolta accusatoria del 1988 - si accompagni all'intento del legislatore di incentivarne l'esperimento nella propria sede naturale. Depone in tal senso l'abbandono del principio della pregiudizialità penale - che nel precedente ordito codicistico si esprimeva nella sospensione obbligatoria del processo civile e nell'efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione -, nonché la «sanzione processuale» dell'effetto sospensivo di cui all'art. 75, comma 3, c.p.p. che colpisce il danneggiato che «abbandona il processo penale per approdare, re melius perpensa, in sede civile […] esercitando quindi una funzione induttiva a preferire questa sin dall'inizio» (I. Lai, Commento agli artt. 74-89 c.p.p., in A. Giarda e G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Ipsoa, 2001, p. 478). Giurisdizione, quella civile, ove incidenter tantum, avrà da accertarsi se il fatto è astrattamente riconducibile in una fattispecie criminosa, senza che a tal fine si renda necessario un positivo accertamento, o una qualsivoglia iniziativa, ad opera degli organi della giurisdizione penale.

Per contro, avallata la tesi propugnata dalla sentenza in commento, il danneggiato cui siano spirati i termini di prescrizione - che operano sul terreno sostanziale del diritto - ricaverebbe dall'instaurarsi del processo penale una sorta di sanatoria alla decadenza dall'azione il cui esercizio è inibito nella propria sede naturale. Sicché, in aperto contrasto con gli intenti legislativi, la macchina penale vedrebbe convogliare su di sé il carico delle pretese risarcitorie di diritti civilisticamente già prescritti, solo perché ingiustificatamente parificate - senza alcun appiglio né normativo, né dogmatico - le cause di interruzione della prescrizione della pretesa punitiva pubblica con quelle delle pretese dei privati, peraltro, tassativamente individuate, dalla natura recettizia, e riconducibili ad un'inerzia, anche stragiudiziale, degli stessi.

La dogmatica dell'istituto dell'azione civile per i fatti illeciti costituenti reato e le norme processuali che ne regolano la dinamica all'interno del rito penale conducono, in definitiva, a ritenere che il rinvio alla disciplina penalistica contenuto nell'art. 2947, comma 3, c.c. sia riferito al solo termine di base, da rapportarsi, ai sensi della medesima norma, all'art. 157 c.p. (qualora più lungo), e ciò anche quando la pretesa risarcitoria si voglia devolvere - o sia stata devoluta - all'esame del giudice penale, senza che gli atti di detto procedimento - diversi dalla costituzione di parte civile che dispiega un effetto interruttivo permanente - possano avere alcun effetto sospensivo o interruttivo sulla prescrizione del diritto risarcitorio della parte privata.

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