Cannabis sativa L.: il cambio di rotta della S.C. in tema di commercializzazione

11 Febbraio 2019

Con la decisione in commento la sesta Sezione della Corte di cassazione cambia orientamento sostenendo la liceità di qualsiasi condotta (dunque anche la commercializzazione) avente a oggetto cannabis sativa con THC non superiore a 0,6%, in quanto sostanza da ritenersi estranea...
Massima

La legge 2 dicembre 2016, n. 242, stabilendo la liceità, a determinate condizioni, della coltivazione della cannabis sativa L., ha reso lecita anche la commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish), in quanto la cannabis sativa con THC inferiore a 0,6% non rientra più nell'ambito di applicazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti e psicotrope di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Il caso

Nei confronti di Tizio veniva eseguito un sequestro preventivo di infiorescenze di cannabis sativa, da lui messe in commercio, risultate contenere THC compreso fra lo 0,2% e lo 0,65%, dunque con un valore medio inferiore a 0,6%.

Il tribunale di Macerata, a cui Tizio si era rivolto per ottenere il riesame del provvedimento di sequestro, rigettava il ricorso sostenendo che la detenzione a scopi commerciali di cannabis sativa L. configura il reato di cui all'art.73, comma 4, d.P.R. 309/1990 anche dopo l'entrata in vigore della l. 3 dicembre 2016, n. 242. Ciò in quanto la predetta normativa, sebbene in rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale in tema di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti contenuta nel testo unico del 1990, stabilisce la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per finalità espresse e tassative e non prevede nel proprio ambito di applicazione la commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione.

Tizio ricorreva alla Suprema Corte chiedendo l'annullamento dell'ordinanza in quanto, a suo avviso, la l. 242/2016 avrebbe escluso dall'ambito di applicazione del d.P.R. 309/1990 la commercializzazione di infiorescenze di piante sviluppatesi da semi rientranti nelle categorie previste dalla predetta legge.

La Sezione VI della Suprema Corte, di contrario avviso rispetto alle precedenti decisioni della stessa Sezione, annullava l'ordinanza impugnata disponendo la restituzione all'avente diritto del materiale sequestrato.

La Corte giungeva a tale decisione all'esito di una complessa analisi dei rapporti fra il d.P.R. 309/1990 e la l. 242/2016, che la portava a ritenere che la cannabis sativa con THC inferiore a 0,6% non rientri nell'ambito di applicazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti e psicotrope e che il suo possesso, anche se finalizzato alla commercializzazione, debba pertanto ritenersi lecito.

La questione

La questione in esame è la seguente: a seguito dell'emanazione della l. 2 dicembre 2016 n. 242, che ha legalizzato la coltivazione della cannabis sativa L. per finalità espressamente e tassativamente indicate, le condotte di detenzione e cessione della predetta sostanza e dei suoi derivati continuano ad integrare il reato di cui all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309?

Le soluzioni giuridiche

Nel 2015 la sesta Sezione della Suprema Corte aveva affermato che la cannabis sativa L., in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, presenta natura di sostanza stupefacente, di talché le condotte di cessione e detenzione al fine di farne cessione aventi ad oggetto la predetta sostanza sono penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 (Cass. pen., Sez. VI, 8 ottobre 2015, n. 46074).

Per giungere a tale conclusione la Corte era partita dalla constatazione che la tabella II allegata al testo unico in materia di sostanze stupefacenti indica, tra le sostanze la cui cessione e detenzione al fine di farne cessione è punita dall'art. 73, la cannabis e i prodotti da essa ottenuti (art. 14 lett. b) n. 1 d.P.R. 309/1990). L'uso della denominazione comune (“cannabis”), senza ulteriori specificazioni, consente di ritenere che la previsione comprenda tutte le possibili varianti (indica, sativa L., ecc.) e forme di presentazione (foglie e infiorescenza, olio e resina) della canapa e tutti i preparati che la contengano, rendendo così superfluo l'inserimento in tabella del principio attivo Delta-9-THC. Del resto, il comma 4 dell'art. 14 citato stabilisce che le sostanze e le piante di cui alle lettere a) e b) (e dunque anche la cannabis) sono soggette alla disciplina del testo unico anche ove si presentino sotto ogni forma di prodotto, miscuglio o miscela.

Nel 2018 la Sezione VI era stata chiamata a stabilire se la conclusione raggiunta nel 2015 dovesse essere rivalutata alla luce della l. 2 dicembre 2016, n. 242, contenente Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa.

La nuova disciplina consente all'agricoltore la coltivazione delle 62 varietà di cannabis sativa L. incluse nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002. Da questa coltivazione, a mente dell'art. 2 l.242/2016, possono essere ottenuti alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; materiale destinato alla pratica del sovescio; materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; coltivazioni destinate al florovivaismo. Solo se il principio attivo (THC) rinvenibile nelle piante di canapa coltivate è compreso tra lo 0,2% e lo 0,6% non è possibile sequestrare le piante e non si configura alcuna responsabilità in capo all'agricoltore che abbia rispettato tutte le altre prescrizioni previste dalla legge. In caso di valori superiori, invece, le piante possono essere sequestrate e distrutte, ma è comunque esclusa la responsabilità dell'agricoltore.

La Suprema Corte, con tre decisioni conformi, aveva escluso che la normativa del 2016 avesse inciso sulla rilevanza penale delle condotte di commercializzazione della canapa leggera. La nuova disciplina ha la specifica finalità, enunciata al primo articolo, di sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della cannabis sativa L., quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell'impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione. Alla luce di tale finalità, la Corte aveva ritenuto che la disciplina sopravvenuta si riferisse esclusivamente alle coltivazioni in atto e non ai suoi prodotti essendo stata prevista per assicurare che le finalità agroindustriali disciplinate dalla legge del 2016 non comportino pericoli correlati alla circolazione di sostanze contenenti principi di natura psicotropa presenti nelle piante di canapa. Dunque, ad avviso di tali decisioni la detenzione al fine di farne cessione e il commercio della canapa, sia sotto forma di infiorescenze (marijuana) sia sotto forma di resina (hashish), esulano dalle finalità della legge, essendo imperniate su uno scopo ricreativo che non costituisce principio informatore della disciplina in parola; disciplina che ha natura eccezionale rispetto al d.P.R. 309/1990 e dunque non estensibile analogicamente (Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, , con nota di A. TRINCI, L'insostenibile leggerezza della cannabis sativa; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003; Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332).

Con la decisione in commento la sesta Sezione della Corte di cassazione cambia orientamento sostenendo la liceità di qualsiasi condotta (dunque anche la commercializzazione) avente a oggetto cannabis sativa con THC non superiore a 0,6%, in quanto sostanza da ritenersi estranea al catalogo degli stupefacenti rilevanti ai sensi del d.P.R. 309/1990.

Per giungere a tale conclusione, la Corte muove dai rapporti logico-giuridici fra il testo unico sulle sostanze stupefacenti e psicotrope del 1990 e la legge sulla coltivazione della cannabis sativa L. del 2016 e ritiene che la disciplina sopravvenuta non si ponga come eccezionale rispetto a quella previgente perché configura un microsettore normativo in radice autonomo per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite.

In effetti, è la stessa legge del 2016 che al capoverso dell'art. 1 precisa che essa «si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'articolo 17 della direttiva 2002/53/Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309».

Dal tenore della norma citata risulta che il legislatore ha voluto collocare la coltivazione della canapa sativa L. fuori dell'ambito di applicazione del testo unico del 1990.

Inoltre, la legge del 2016 prevede due diversi limiti di THC, uno – quello dello 0,2% – relativo ai benefici economici a sostegno della produzione, che l'agricoltore perde in caso di superamento, e l'altro – quello dello 0,6% - relativo alla conformità a legge della coltivazione, che, in caso di superamento, diventa illecita. Dunque, lo 0,6% è la percentuale di THC al di sotto del quale la sostanza non è considerata dalla legge come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti. In definitiva, il legislatore ha risolto il problema della possibile commistione tra canapa proveniente da colture lecite e canapa con possibili effetti stupefacenti fissando un tenore massimo di THC quale limite per gli aiuti economici a favore degli agricoltori.

La Corte si confronta anche con il principale argomento speso dalle precedenti decisioni, ossia il fatto che la l. 242/2016 si rivolge all'agricoltore e indica le finalità per le quali la coltivazione della canapa è consentita e promossa, mentre non tratta della commercializzazione della canapa oggetto della coltivazione. Ad avviso della decisione in commento, il silenzio del legislatore non può essere letto come indicativo della volontà di vietare la commercializzazione della cannabis sativa con THC nei limiti fissati dalla legge. Ciò, infatti, sarebbe del tutto illogico, essendo nella natura dell'attività economica che i prodotti della "filiera agroindustriale della canapa" (che la legge espressamente mira a promuovere) siano commercializzati. Del resto, è del tutto comprensibile perché il legislatore non abbia menzionato la vendita al dettaglio: la l. 242/2016, essendo diretta ai produttori e alle aziende di trasformazione, non si occupa di coloro che svolgono i passaggi successivi in quanto non deve disciplinare la loro attività.

Si aggiunge, infine, che la circolare del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo n. 70 del 22 maggio 2018, ha ricondotto le infiorescenze alla categoria del florovivaismo ossia uno dei prodotti della canapa espressamente contemplati dagli artt. 2 e 3 l. 242/2016. Dunque, se è vero che le infiorescenze non rientrano espressamente tra le finalità indicate dall'art. 2 c. 2 l. 242/2016, tuttavia la predetta legge va integrata con il citato regolamento di esecuzione che espressamente considera le infiorescenze nell'ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo, sempre che il contenuto di THC non superi i livelli previsti dalla legge.

Osservazioni

La sentenza in commento si pone su un solco già tracciato da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito (cfr. trib. Ancona, ord., 27 luglio 2018; trib. Rieti, ord., 26 luglio 2018; trib. Macerata, ord., 11 luglio 2018; trib. Asti,ord., 4 luglio 2018), secondo cui la liceità della commercializzazione della canapa contenente un principio attivo THC inferiore allo 0,6% è una conseguenza logico-giuridica dalla liceità della coltivazione della stessa sostanza, non avendo alcuna ragion d'essere l'autorizzazione alla mera coltivazione per una impresa che non possa reimpiegare in alcun modo il proprio lavorato sul mercato.

La l. 242/2016 ha dunque sottratto la cannabis sativa L. dal catalogo delle sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del d.P.R. 309/1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto testo unico.

Secondo la Corte, la fissazione del limite dello 0,6% di THC entro il quale l'uso delle infiorescenze della cannabis proveniente dalle coltivazioni contemplate dalla l. 242/2016 è lecito, rappresenta l'esito di quello che il legislatore ha considerato un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e le (in pratica inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.

Dal punto di vista dogmatico, la Corte sembra inquadrare la vicenda in esame nell'ambito di una abrogazione parziale della norma incriminatrice. La l. 242/2016 avrebbe ridimensionato l'ambito applicativo del testo unico del 1990 sottraendovi tutte le condotte aventi ad oggetto la canapa con THC inferiore allo 0,6%, che non rientra più nel catalogo degli oggetti materiali (le sostanze stupefacenti o psicotrope) delle fattispecie punite dall'art. 73. Afferma, infatti, la Corte che «la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, ritenersi consentita nell'ambito del generale potere (agere licere) delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi (facultas agendi)».

Dalla piena legittimità dell'uso della cannabis sativa L. proveniente dalle coltivazioni lecite deriva anche che il suo consumo non costituisce illecito amministrativo ex art. 75d.P.R. 309/1990.

Inoltre, trattandosi di una abolitio criminis parziale (la cui fonte è la l. 242/2016 e non l'overruling giurisprudenziale conseguente al nuovo quadro normativo), coloro che siano stati condannati in via definitiva per condotte aventi ad oggetto cannabis sativa con principio attivo inferiore a 0,6% dovrebbero poter ricorrere al giudice dell'esecuzione per ottenere la revoca della sentenza di condanna. Tuttavia, deve osservarsi che percentuali così modeste di THC spesso orientano il giudice a ritenere insussistente il reato per mancanza di effetto drogante o perché la sostanza è destinata ad un consumo esclusivamente personale. Il prevedibile impatto della pronuncia in esame sulle sentenze in esecuzione è dunque verosimilmente destinato a rimanere modesto.

La Corte mette anche in guardia da facili, quanto erronee, argomentazioni a contrario. La liceità di condotte aventi a oggetto cannabis sativa L. non conduce a un automatismo per il quale dal superamento dello 0,6% di THC nella sostanza detenuta deriva immediatamente una rilevanza penale della condotta. Piuttosto, a fronte del rilevamento di un THC superiore e limiti di legge, il giudice dovrà accertare tutte le condizioni e i presupposti per la sussistenza del reato e in particolare che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter concretamente produrre un effetto drogante.

Per concludere, sia consentito esprimere una certa perplessità di fronte ad un contrasto interpretativo come quello in esame. Nell'arco di pochi mesi e a distanza di due giorni dall'ultima decisione sul tema la stessa sezione ha adottato decisioni di segno contrario. Tralasciando ogni considerazione sul fatto che la questione non è stata rimessa alle Sezioni unite in via preventiva ai sensi dell'art. 618, comma 2, c.p.p., è lecito esprimere dubbi sulla capacità della nostra giurisdizione di vertice di esercitare una reale funzione nomofilattica se non riesce ad elaborare linee interpretative uniformi neppure nello stesso momento storico e nell'ambito di una medesima Sezione. Tale quadro di incertezza è ancora più grave ove si consideri che l'oscillazione interpretativa non riguarda una questione marginale ma la stessa rilevanza penale di una condotta, peraltro piuttosto diffusa nella società.

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