Note in punta di penna sul nuovo art. 560 c.p.c.

15 Febbraio 2019

La l. n. 12 del 2019, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 145 del 2018, è intervenuta significativamente sulla materia dell'esecuzione forzata immobiliare mediante una nuova, pressoché integrale modifica, dell'art. 560 c.p.c. dedicato alla custodia ed all'ordine di liberazione. La disposizione, peraltro, era stata già novellata di recente sotto plurimi aspetti, da parte del d.l. n. 59 del 2016, convertito nella l. n. 118 del 2016.L'interesse del legislatore per la norma è correlato al ruolo nevralgico assunto dalla stessa rispetto all'equilibrio tra le ragioni dei creditori, ossia la celere vendita del bene pignorato, e quelle del debitore a continuare a dimorare nell'immobile pignorato nel corso della procedura (in arg. cfr. Farina, In difesa dell'art. 560 c.p.c. e dell'ordine di liberazione anticipato, in ilprocessocivile.it).
Premessa: il quadro normativo previgente

In realtà solo con la recentissima l. n. 12 del 2019 è stato individuato il momento nel quale può essere disposta la liberazione dell'immobile oggetto dell'espropriazione quando vi abiti il debitore esecutato essendo stata la materia oggetto, sinora, di un'evoluzione fondata, piuttosto, sulle “buone prassi” dei giudici dell'esecuzione, quindi generalizzate da una recente circolare del Consiglio Superiore della Magistratura.

Invero, il comma 3 dell'art. 560 c.p.c. nella pregressa formulazione stabiliva che «il giudice dell'esecuzione dispone, con provvedimento non impugnabile, la liberazione dell'immobile pignorato, quando non ritiene di autorizzare il debitore a continuare ad abitare lo stesso, o parte dello stesso, ovvero quando revoca la detta autorizzazione, se concessa in precedenza, ovvero, in ogni caso, quando provvede all'aggiudicazione o all'assegnazione dell'immobile».

In sostanza, salva la regola generale per la quale la liberazione doveva essere senz'altro disposta all'esito dell'aggiudicazione ovvero dell'assegnazione del bene pignorato, tutta la fase precedente – che di regola ha una durata non irrilevante – era rimessa alla valutazione del giudice dell'esecuzione.

Si erano quindi formate due diverse prassi che comportavano una non auspicabile “geometria variabile” nella tutela degli interessi contrapposti delle parti della procedura a seconda dell'interpretazione del giudice titolare del procedimento. In particolare, per la tesi “garantista”, in presenza di un comportamento non ostruzionistico verso la procedura del debitore, a quest'ultimo doveva essere concessa la possibilità di vivere nell'immobile sino all'aggiudicazione, mentre in accordo con la tesi “efficientista”, in ogni caso il momento di liberazione del bene doveva essere anticipato a quello in cui il giudice dell'esecuzione pronuncia l'ordinanza di vendita ex art. 569 c.p.c., sull'assunto, costituente in effetti fatto notorio, per il quale un immobile non occupato dal debitore è senz'altro più appetibile ed ha quindi maggiori chances di essere venduto presto e ad un prezzo congruo.

Pur consapevole del dibattito vigente sulla questione, il legislatore ordinario, durante la stagione delle riforme del processo esecutivo degli anni 2014-2016, non ha preso posizione, in quanto in sede di conversione, sia del d.l. n. 132 del 2014 che del d.l. n. 83 del 2015, è stata stralciata la previsione che aderiva alla seconda tesi.

Peraltro, da ultimo le prassi degli uffici giudiziari si erano comunque adeguate alla stessa in ragione delle indicazioni contenute in tal senso in una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura (Delibera 11 ottobre 2017, n. 12).

Le novità introdotte

Mediante le modifiche introdotte dalla l. n. 12 del 2019 il legislatore prende invece espressamente una posizione diversa, almeno con riferimento agli immobili pignorati abitati dal debitore.

In particolare, per un verso, il comma 3 sancisce che «il debitore e i familiari che con lui convivono non perdono il possesso dell'immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, salvo quanto previsto dal sesto comma».

Per un altro, il comma 8, stabilisce espressamente che «fermo quanto previsto dal sesto comma, quando l'immobile pignorato è abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell'immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento ai sensi dell'art. 586».

In estrema sintesi, il meccanismo congegnato dall'odierno legislatore processuale è nel senso che, se il debitore non pone in essere una delle condotte contrarie agli interessi della procedura descritte nel comma 6 dello stesso art. 560 c.p.c., a seguito del pignoramento e sino all'emanazione del decreto di trasferimento (che segna il passaggio della proprietà dell'immobile oggetto dell'esecuzione all'aggiudicatario o all'assegnatario), il debitore non perde il possesso del bene e può continuare a dimorarvi ove il medesimo costituisca la propria casa di abitazione.

Problematiche sottese al possesso del bene in capo al debitore sino al decreto di trasferimento

Sotto un primo profilo, la circostanza che a fronte del pignoramento immobiliare il debitore continui, con la propria famiglia, a restare nel possesso dell'immobile implica una sorta di custodia del bene direttamente da parte dello stesso, pur sotto la vigilanza del custode, limitata peraltro, come sembra doversi evincere dal comma 2 dell'art. 560 c.p.c., ad una conservazione da parte degli occupanti dell'integrità materiale del bene.

Inoltre il debitore sarà tenuto a collaborare con il custode per consentire le visite nell'immobile pignorato in conformità alle disposizioni contenute nell'ordinanza di vendita.

Per tutti gli altri aspetti, invece, da una prima lettura del novellato art. 560 c.p.c. si ricava l'impressione che i poteri sinora demandati al custode nominato restino, anche dopo il pignoramento, propri del debitore.

Una conferma sembra potersi trarre dal comma 4 della norma ove dispone che il debitore non può locare l'immobile senza autorizzazione del giudice dell'esecuzione: invero, sinora tale facoltà spettava al custode che acquisiva, in una gestione economicamente efficiente del bene, i relativi canoni nell'interesse della procedura.

Due, almeno, le perplessità già ad una prima lettura.

In primo luogo, la circostanza che il legislatore utilizzi espressamente il termine “possesso” per definire, pur a pignoramento effettuato, il rapporto tra il debitore e l'immobile potrebbe far ritenere che vi sia una deroga all'art. 2912 c.c., ossia che nell'ipotesi di eventuale locazione del bene pignorato i canoni, quali frutti civili, sarebbero acquisiti dal debitore.

Riteniamo questa interpretazione – che pure dalla formulazione letterale della norma potrebbe giustificarsi – assolutamente inopportuna rispetto agli interessi dei creditori (muniti di un titolo esecutivo che giustifica l'espropriazione forzata) ed ultronea rispetto alla finalità della disciplina novellata che appare quella di garantire non un guadagno al debitore esecutato bensì il cd. diritto all'abitazione.

Ci sembra debba quindi pervenirsi, mediante la lettura del comma 1 dell'odierno art. 560 c.p.c., laddove preveda che il debitore ed il custode debbano effettuare il rendiconto ex art. 593 c.p.c., alla diversa e più rassicurante interpretazione per la quale il debitore su autorizzazione del giudice può locare l'immobile dovendo tuttavia, in ossequio alle disposizioni della stessa autorità giudiziaria, vincolare i canoni percepiti in favore della procedura.

In secondo luogo, proprio in relazione alla finalità di tutela del diritto del debitore e dei suoi familiari a continuare a dimorare il più a lungo possibile nell'immobile pignorato, non si comprende la ratio di consentire che il debitore conservi il possesso dell'immobile anche ove decida di locarlo a soggetti terzi.

Le implicazioni del differimento dell'emanazione dell'ordine di liberazione

Fulcro della novellazione dell'art. 560 c.p.c. è la già evidenziata scelta del legislatore positivo di rinviare – salve condotte ostruzionistiche verso il corretto svolgimento della procedura da parte del debitore – l'emanazione dell'ordine di liberazione dell'immobile al momento della pronuncia del decreto di trasferimento.

Questo implica, in buona sostanza, che il debitore continuerà di regola a vivere nel bene pignorato anche dopo l'aggiudicazione del bene alla vendita forzata e l'integrale versamento del prezzo da parte dell'aggiudicatario, potendo essere solo successivamente emesso il decreto ex art. 586 c.p.c.

Evidenti appaiono le difficoltà per il professionista delegato di vendere l'immobile in condizioni siffatte ad un prezzo congruo, col risultato che le vendite forzate rischieranno di tornare ad essere fertile terreno di lucro per gli speculatori. Ciò non andrà solo a svantaggio del ceto creditorio, come pure potrebbe apparire, ma dello stesso debitore che rischia di rimanere tale anche dopo la vendita del bene ad un prezzo inferiore rispetto al credito azionato in sede esecutiva.

Tuttavia l'art. 560 comma 8, c.p.c. dispone chiaramente nel senso indicato.

Resta fermo, nondimeno, un non irrilevante potere discrezionale del giudice dell'esecuzione nella fissazione, con l'ordinanza di vendita, delle modalità del diritto di visita dei potenziali offerenti e delle ulteriori condizioni cui il debitore occupante è tenuto ad adeguarsi, onde poter liberare anticipatamente l'immobile tutte le volte che le stesse siano state violate, essendo fatto salvo dalla norma il precedente comma 6.

Come già da altri osservato (Fanticini, Il nuovo ordine di liberazione, in www.in executivis.it), pertanto, per gli immobili abitati dall'esecutato viene a mutare la stessa ratio della liberazione che si trasforma da strumento volto ad agevolare l'aggiudicatario e a favorire la liquidazione del bene a misura sanzionatoria nei confronti dell'esecutato che non presti la dovuta collaborazione alla vendita della propria abitazione.

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