Pubblico ufficiale “asservito all'interesse privato”: corruzione per l'esercizio della funzione o per atto contrario ai doveri d'ufficio?

15 Febbraio 2019

La legge 190/2012 ha riformulato l'art. 318 c.p. Questa disposizione, che puniva la Corruzione per un atto d'ufficio, dopo la riforma incrimina la Corruzione per l'esercizio della funzione, punendo il pubblico ufficiale, che, per l'esercizio delle sue funzioni o...
Massima

I fenomeni di corruzione sistemica, conosciuti dall'esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” e caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna stabilmente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, devono essere ricondotti alla previsione dell'art. 318 c.p., come riformulata dalla legge 190 del 2012, sempre che l'accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio, essendo configurabile, in tal caso, la fattispecie punita dall'art. 319 c.p.

Il caso

Con ordinanza del Gip del tribunale di Roma, l'indagato veniva sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari per i reati di violazione delle norme sul finanziamento ai partiti politici, per aver ricevuto da un imprenditore, quale consigliere della Regione e candidato alle elezioni regionali, un contributo economico di € 25.010,00, proveniente da una società riconducibile allo stesso imprenditore, senza che tale erogazione fosse deliberata dall'organo sociale competente e iscritta regolarmente in bilancio, nonché per quello di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, per aver ricevuto la somma predetta per il compimento di atti riconducibili al suo ufficio di consigliere regionale e, in generale, per l'asservimento delle sue funzioni agli interessi dell'imprenditore e del gruppo imprenditoriale a lui riconducibile, ed infine per il reato di cui all'art. 110 c.p. e all'art. 8 del d.lgs. 74/2000, perché aveva concorso alla formazione di una falsa fattura per giustificare l'esborso della somma, anche al fine di consentire alla società dell'imprenditore di evadere le imposte sui redditi.

Il tribunale del riesame confermava la misura cautelare, evidenziando, tra l'altro, che l'imprenditore aveva presentato un progetto immobiliare per la costruzione di un nuovo stadio, da realizzarsi su terreni acquistati dallo stesso soggetto per mezzo di una società del suo gruppo. Nel corso dell'iter amministrativo finalizzato all'approvazione di tale progetto, era stata aperta una conferenza di servizi presso la Regione. A partire da questo momento, l'imprenditore e i suoi complici avevano avviato contatti con funzionari pubblici e con esponenti politici impegnati nelle procedure amministrative, promettendo o consegnando loro denaro o altre utilità al fine di “mantenere costante l'asservimento agli interessi del sodalizio”. In questo contesto, si inseriva anche la dazione di denaro all'indagato, già sindaco di una cittadina e consigliere della Regione, il quale, secondo il tribunale, avrebbe gravemente violato i suoi doveri di fedeltà, imparzialità e correttezza, perché condizionato dal conseguimento della somma conferitagli.

Più in particolare, il tribunale del riesame riteneva che lo stabile asservimento della funzione pubblica dell'indagato agli interessi dell'imprenditore rendesse irrilevante l'individuazione di un singolo atto amministrativo contrario ai doveri di ufficio da egli adottato. Gli elementi raccolti nel corso delle indagini, al contrario, dimostravano che l'indagato, nello svolgimento della sua funzione pubblica, aveva assunto iniziative derivanti dal rapporto intrattenuto con l'imprenditore e che la somma sarebbe stata corrisposta in funzione del ruolo pubblico rivestito.

Avverso la suddetta ordinanza, l'interessato proponeva ricorso per cassazione, lamentando che il tribunale avrebbe qualificato la condotta del ricorrente in termini di “stabile asservimento della funzione pubblica” agli interessi dell'imprenditore, escludendo, pertanto, che fosse necessaria l'individuazione di atti amministrativi, legittimi o meno, adottati a favore del corruttore. Nel provvedimento, tuttavia, erano stati indicati alcuni atti, come la partecipazione a un'audizione sul tema del nuovo stadio o la richiesta di convocazione di alcuni soggetti istituzionali tra cui un sindaco, che erano stati compiuti prima di ricevere la somma per la campagna elettorale e che, “pur formalmente legittimi”, erano stati ritenuti rilevanti per integrare il reato. In tal modo, il tribunale avrebbe valorizzato meri comportamenti materiali, privi di una concreta efficacia giuridica.

Egli, più specificamente, avrebbe semplicemente manifestato disponibilità verso l'imprenditore qualora avesse rivestito la carica di assessore. Si trattava, pertanto, di un accordo in vista di un evento futuro e incerto, indipendente dalla volontà delle parti, che, difatti, poi non si è realizzato.

La sua azione, in ogni caso, avrebbe potuto configurare, al più, il delitto di cui all'art. 318 c.p., trattandosi di una generica ed indefinita messa a disposizione per il futuro di una funzione che il ricorrente, peraltro, non avrebbe mai rivestito.

La questione

La legge 190/2012 ha riformulato l'art. 318 c.p. Questa disposizione, che puniva la Corruzione per un atto d'ufficio, dopo la riforma incrimina la Corruzione per l'esercizio della funzione, punendo il pubblico ufficiale, che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa. A questo punto, qual è la linea di confine tra questa fattispecie e quella della Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio di cui all'art. 319 c.p.?

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha rilevato che il tema devoluto al suo giudizio presuppone la fissazione della linea di demarcazione tra le due fattispecie di corruzione previste dal codice penale, dopo la riforma dell'art. 318 c.p. a opera della legge 190 del 2012.

Prima dell'intervento del legislatore, invero, era incerta la qualificazione delle condotte di asservimento della funzione da parte del pubblico ufficiale il quale si poneva, dietro compenso, “a disposizione” del privato in violazione dei doveri di imparzialità, onestà e vigilanza.

A fronte dell'accertamento di un accordo avente a oggetto soltanto una generica disponibilità, senza la possibilità di individuare lo specifico atto contrario ai doveri d'ufficio oggetto dell'impegno illecito, la giurisprudenza di legittimità, in forza di un'interpretazione estensiva dell'art. 319 c.p., affermava che fosse sufficiente che fosse individuabile il genus di atti da compiere, suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti non preventivamente fissati o programmati (cfr. Cass. pen., 16 maggio 2012, n. 30058).

La nuova formulazione della fattispecie, ora rubricata come Corruzione per l'esercizio della funzione, ha inciso notevolmente sulla struttura della ipotesi meno grave di corruzione, mutandone la natura. Mentre nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno (la violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale), connesso alla compravendita di un atto d'ufficio (purché non contrario ai doveri di ufficio, nel senso che la parzialità non doveva trasferirsi sull'atto, segnandolo di connotazioni privatistiche, restando l'unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione”, non collegate da un vincolo causale al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio.

Con la nuova fattispecie, pertanto, il legislatore ha voluto superare i limiti applicativi della previgente normativa codicistica, colmando «lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi in ordine al concetto di atto di ufficio, punendo tutte quelle ipotesi di mercimonio connesse causalmente all'esercizio di pubblici funzioni o poteri, costituenti forme di generica messa a disposizione del pubblico funzionario».

Secondo l'indirizzo accolto dal giudice di legittimità, il nuovo testo dell'art. 318 c.p. non ha proceduto ad alcuna abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione. È stata determinata, invece, un'estensione dell'area di punibilità, in quanto la causa della retribuzione illecita non è più il compimento di un atto dell'ufficio, ma il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all'esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

È stata configurata, in tal modo, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all'area dell'art. 319 c.p., una fattispecie che comprende tutti i casi di "monetizzazione" del munus pubblico, sganciata in sé da una logica di sinallagma tra retribuzione ed atto, superando i limiti applicativi che il vecchio testo presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio (Cass. pen., 25 settembre 2014,n. 49226; Cass. pen., 11 gennaio 2013,n. 19189).

Il nuovo criterio di punibilità, pertanto, risulta ancorato al mero esercizio delle funzioni o dei poteri, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l'esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell'ufficio.

L'art. 318 c.p., in definitiva, esprime il divieto per il pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, quello per il privato di non corrisponderglieli. Si tratta di un delitto che, secondo la logica del pericolo presunto, intende prevenire la compravendita degli atti d'ufficio e, al contempo, garantire il corretto funzionamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione.

Il limite esterno del nuovo reato di cui all'art. 318 c.p., oltre il quale è configurabile la più grave fattispecie della corruzione propria punita dall'art. 319 c.p., consiste nell'accertamento di un nesso strumentale tra la dazione o la promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio.

In definitiva, «i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall'esperienza giudiziaria come "messa a libro paga del pubblico funzionario" o "asservimento della funzione pubblica agli interessi privati" o "messa a disposizione del proprio ufficio", tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata – sussunti prima della riforma del 2012 nella fattispecie prevista dall'art. 319 c.p.devono essere ricondotti nella previsione della nuova fattispecie dell'art. 318 c.p., sempre che l'accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio» (Cass. pen., 25 settembre 2014, n. 49226).

La sentenza, a questo punto, ha precisato che il discrimine tra le due ipotesi corruttive consiste nella progressione criminosa da una fattispecie di pericolo (il generico asservimento della funzione) a una di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio oggetto della retribuzione illecita).

Nel caso di specie, la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza impugnata.

Il Tribunale, infatti, ha qualificato i fatti riconducendoli all'art. 319 c.p., pur in presenza di elementi che dimostravano, in termini di gravità indiziaria, la conclusione tra il ricorrente e l'imprenditore di un accordo corruttivo per il generico asservimento della pubblica funzione agli interessi del privato corruttore, senza cioè che fosse individuato o almeno individuabile un atto di ufficio che il corrotto avrebbe già adottato o dovuto adottare a favore del predetto.

In particolare, la corte ha reputato manifestamente illogico il collegamento ravvisato dal collegio di merito tra la dazione della somma e i favori che l'imprenditore avrebbe dovuto ricevere dal ricorrente per il progetto dello stadio ed ha censurato il nesso individuato tra la dazione illecita e le attività "pregresse" svolte dal ricorrente sempre a favore del progetto dello stadio.

Il quadro indiziario ricostruito dal Tribunale, in conclusione, secondo la Corte di cassazione, è qualificabile ai sensi dell'art. 318 c.p. come una ipotesi di vendita della funzione pubblica da parte del ricorrente, il quale, ponendosi genericamente a disposizione del privato, ha assunto l'impegno a compiere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, senza quindi promettere, né tantomeno compiere atti contrari ai doveri di ufficio.

Il fatto provvisoriamente ascritto al ricorrente, pertanto, deve essere sussunto nella fattispecie di reato di cui all'art. 318 c.p. In base a tale diversa qualificazione dei fatti, il collegio del rinvio dovrà provvedere ad una nuova deliberazione in ordine alle esigenze cautelari.

Osservazioni

1. Nell'ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, com'è noto, erano disciplinate le distinte fattispecie della corruzione propria o per atti contrari ai doveri d'ufficio, di cui all'art. 319c.p. e della corruzione impropria o per atto d'ufficio, punita dall'art. 318c.p. L'oggettività del reato di corruzione, in entrambi i casi, era rappresentata dalla condotta antidoverosa del pubblico ufficiale, che riduce a mercimonio il proprio ufficio; nonostante la dazione o la promessa del denaro o di altra utilità, nella corruzione “impropria” l'atto rimaneva imparziale, legittimo, regolare o, finanche, dovuto; la corruzione “propria”, invece, postula che la violazione dei doveri, tra i quali quello di essere onesti e corretti, abbia avuto una concreta incidenza sull'atto.

2. L'impianto originario del codice, dunque, era fondato sulla compravendita di atti. Nel tempo, tuttavia, sono emersi i limiti impostazione e la sua inadeguatezza a reprimere un fenomeno caratterizzato da rapporti tra soggetti pubblici e privati sganciati dal compimento di specifici atti, nell'ambito dei quali la parte pubblica si pone stabilmente a disposizione di quella privata.

In questi casi, la giurisprudenza tendeva a ravvisare la corruzione propria, addebitando al pubblico agente la violazione di doveri generali e, in particolare, di quello d'imparzialità. Una massima consolidata affermava che costituiscono atti contrari ai doveri d'ufficio anche quelli che consistono nell'inosservanza dei doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Cass. pen., 7 aprile 2006, n. 21943).

A questa prima ipotesi di ampliamento dell'area operativa dell'art. 319 c.p., la giurisprudenza aggiungeva quella in cui i comportamenti antidoverosi hanno provocato la vanificazione della funzione (Cass. pen., 7 aprile 2006,n. 21943) o l'abdicazione alle finalità istituzionali (Cass. pen., 16 aprile 1996,n. 1616). In questi casi, pur essendo difficile riconoscere un'effettiva incidenza su di un atto d'ufficio, si ravvisava una fattispecie di corruzione propria, ancorché la prestazione corrispettiva alla dazione del denaro (o alla promessa) fosse talora rappresentata solo da comportamenti contrari ai doveri e non dall'adozione di un atto.

La nozione di atto d'ufficio accolta dalle norme penali, del resto, secondo l'indirizzo unanime di dottrina e giurisprudenza, è più ampia di quella di provvedimento amministrativo inteso come manifestazione di volontà della pubblica amministrazione, avente rilievo esterno ed in grado di apportare una modificazione unilaterale nella sfera giuridica del destinatario. Essa ricomprende ogni concreta esplicazione dei poteri o dei doveri d'ufficio da parte dell'amministrazione, anche se consiste in atti non provvedimentali (per la configurabilità del reato anche nel caso di adozione di un mero parere cfr. di recente Cass. pen.,1 marzo 2016, n. 21740) o di diritto privato. L'atto contrario ai doveri d'ufficio può essere rappresentato da meri comportamenti, azioni volontarie dal soggetto pubblico, magari meramente esecutive di atti. Ciò consentiva di individuare la corruzione propria anche quando la dazione del denaro corrisponde non tanto ad uno specifico atto del pubblico agente, quanto ad un concreto comportamento di costui contrario ai doveri che è tenuto a rispettare (per una recente applicazione di questo principio, si veda Cass. pen., 28 febbraio 2017, n. 17586).

3. La ricognizione delle decisioni, in verità, sembrava dimostrare che, per integrare la tipicità del reato di cui all'art. 319 c.p., non bastasse accertare il pagamento (o la promessa) e il compimento di condotte antidoverose. Era pur sempre necessario che le corresponsioni o le promesse presentassero un qualche collegamento con le attività del funzionario o con le competenze dell'ufficio cui il soggetto appartiene (Cass. pen., 2 marzo 2010,n. 20502), tanto che potesse affermarsi che fossero state compiute in funzione di queste competenze (o che le competenze o le attribuzioni fossero state causa delle dazioni). In questo modo, la condotta contraria ai doveri era reputata idonea a frustrare la funzione demandata all'agente, a svenderla (Casspen., 2 luglio 2003, n. 36780) ovvero ad asservirla al bisogno del privato (Cass. pen., 16 gennaio 2008, n. 20046).

4. La giurisprudenza prevalente, più in particolare, riconoscendo il rilievo dei comportamenti antidoverosi ai fini della corruzione propria di cui all'art. 319 c.p., precisava che l'integrazione del reato di corruzione può anche prescindere dall'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio. Siffatto illecito penale è configurabile pure nel caso di dazione o promessa di denaro al pubblico ufficiale che avvenga in ragione delle funzioni esercitate (Cass. pen., 30 novembre 1995, n. 2714).

La massima giurisprudenziale ricorrente era nel senso che «la mancata individuazione in concreto del singolo atto che avrebbe dovuto essere omesso o ritardato o compiuto dal pubblico ufficiale contro i doveri del proprio ufficio non fa venir meno il delitto di corruzione propria ove venga accertato che l'offerta o la promessa del denaro è stata effettuata in ragione delle funzioni esercitate dallo stesso e per retribuirne i favori» (Cass. pen., 30 novembre 1995, n. 2714).

L'atto contrario ai doveri d'ufficio non necessariamente deve essere determinato nei suoi connotati specifici, essendo sufficiente che sia «individuabile quanto al genere in funzione della competenza del pubblico agente» (Cass. pen., 30 settembre 1996,n. 1318).

È appena il caso di aggiungere che la dottrina era molto critica rispetto a quest'orientamento, perché coglieva un contrasto con la tipicità descritta dalla norma.

5. In questa prospettiva, comunque, veniva affrontato il caso frequente dell'agente che, per denaro, mette l'ufficio pubblico a disposizione del privato. Questa manifestazione di disponibilità della funzione connota la ragione della dazione del denaro o della promessa. In tali ipotesi si sosteneva che l'atto contrario ai doveri d'ufficio, oggetto dell'accordo, fosse sufficientemente individuabile in funzione della competenza e della concreta sfera di influenza e di intervento del soggetto pubblico, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti non preventivamente fissati o programmabili, ma pur sempre appartenenti ad un genus previsto dalle parti (Cass. pen., 26 marzo 2007,n. 22205).

Il panorama delle condotte configurabili, in verità, era assai vario.

Era certamente più agevole riconoscere il reato di corruzione propria nel caso del pubblico agente che, nel mettersi a disposizione, si poneva “a libro paga” del privato: i pagamenti rateali, infatti, manifestano in modo palese la vendita della funzione e la disponibilità a compiere qualsiasi atto del proprio fosse richiesto (Cass. pen., 15 maggio 2008,n. 34417).

Più sfumata, e pertanto più difficilmente riconducibile alla corruzione propria, appariva l'ipotesi del pagamento al fine della cd. captatio benevolentiae (o anche quello finalizzato a garantirsi solo una corsia preferenziale alle proprie pratiche).

Il fenomeno si distingue dal precedente anche in base ai rapporti di forza tra le parti.

Nel primo caso, il soggetto forte è il privato; nel secondo, nonostante i versamenti, il pubblico ufficiale conserva una certa preminenza nel rapporto con l'extraneus ed il pagamento è finalizzato ad “oliare le articolazioni del sistema”. In quest'ultima evenienza, se sono adottati atti legittimi, ancorché determinati dal pagamento del denaro, la condotta doveva essere ricondotta alla fattispecie di cui all'art. 318 c.p.

6. La sentenza illustrata ha evidenziato come, a seguito delle legge 190 del 2012, sia stata riformulata la fattispecie di cui all'art. 318 c.p., che ora è rubricata come “Corruzione per l'esercizio della funzione”.

Per effetto della riforma è mutata la struttura del reato, che ormai incrimina tutte le forme di “compravendita della funzione”, non collegate da un vincolo causale al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio.

Nella disposizione è scomparso il riferimento all'atto d'ufficio legittimo, adottato o da adottare da parte del pubblico agente, mentre il “pactum sceleris” ha per oggetto l'esercizio dei poteri o delle funzioni nel senso che il compenso retribuisce la presa in considerazione degli interessi di cui è portatore il privato nello svolgimento delle funzioni o nell'esercizio dei poteri pubblici da parte dell'agente.

Con molta efficacia, pertanto, la sentenza in esame ha precisato che il baricentro del reato di cui all'art. 318 c.p. non è più l'atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l'esercizio della funzione pubblica.

Con la nuova fattispecie, pertanto, il legislatore ha colmato i limiti emersi nella prassi applicativa della previgente normativa codicistica, che risultavano con evidenza in tutti i casi a fronte della dimostrazione del pagamento di denaro o di altra utilità, le indagini non svelavano quali atti fossero stati compiuti dal funzionario pubblico.

7. Il nuovo art. 318 c.p., in particolare, ha esteso l'area della punibilità: ai fini della configurabilità del reato non occorre dimostrare l'esistenza di un rapporto sinallagmatico tra la dazione illecita ed un atto amministrativo, ma è sufficiente accertare il collegamento della retribuzione indebita all'esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

Va segnalato, però, che, secondo un indirizzo giurisprudenziale sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l'imputato, tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 319 c.p., in relazione a condotte di c.d. "vendita della funzione" poste in essere prima della legge 6 novembre 2012, n. 190, sia, invece, condannato, previa esclusione dell'illegittimità degli atti compiuti, per il reato di cui all'art. 318 c.p., come novellato da detta legge, in quanto, in tal caso, si realizza una sostanziale immutazione del fatto con riferimento al grado di determinatezza dell'oggetto dell'accordo corruttivo che configura il reato di cui all'art. 318 c.p. solo se non è noto il finalismo del mercimonio, in quanto volto a garantire il compimento di atti non determinati né determinabili, mentre configura il reato di cui all'art. 319 c.p. laddove l'oggetto del patto sia la stessa funzione che viene interamente asservita agli interessi del privato ovvero il compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio (Cass. 7/03/2018, n. 26025).

8. La fattispecie di cui all'art. 318 c.p., dunque, è idonea a incriminare il fenomeno della "messa a libro paga del pubblico funzionario" o della "messa a disposizione del proprio ufficio" che ricorre quando le indagini svelano la stipula di un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata.

Resta il tema del rapporto con il reato di corruzione propria incriminato dall'art. 319 c.p.

Al riguardo, la giurisprudenza ha subito precisato che, qualora l'accordo o i pagamenti intervenuti sono ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio, il fatto deve essere ricondotto alla fattispecie di cui all'art. 319 c.p. (Cass. pen., 19 april 2018, n. 51946; Cass. pen., 5 aprile 2018, n. 29267; Cass.pen., 15 settembre 2017, n. 46492; Cass. pen., 3 febbraio 2016, n. 6677).

Il limite esterno del nuovo reato di cui all'art. 318 c.p., oltre il quale è configurabile la più grave fattispecie della corruzione propria punita dall'art. 319 c.p., pertanto, consiste nell'accertamento di un nesso strumentale tra la dazione o la promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio.

9. Così fissato il discrimine tra le due ipotesi corruttive, dal confronto tra le due disposizioni si coglie una progressione criminosa da una fattispecie di pericolo (il generico asservimento della funzione, che vale ad integrare il reato di cui all'art. 318 c.p.) ad una fattispecie di danno, in cui è accertata l'adozione di un atto contrario ai doveri d'ufficio oggetto della retribuzione illecita.

Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone meramente in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione (ed è appena il caso di aggiungere che si tratta di un pericolo “presunto” dal legislatore); nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa.

Guida all'approfondimento

P. SILVESTRI, Percorsi di giurisprudenza - i reati contro la pubblica amministrazione: gli sviluppi applicativi della legge n. 190/2012, in Giur.It., 2017, 5, 1232.

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