Ricorso in Cassazione per inutilizzabilità della prova. Su chi ricade l’onere della “prova di resistenza?”

22 Febbraio 2019

Se in presenza di una prova inutilizzabile, incomba sul ricorrente, a pena di inammissibilità dell'impugnazione per difetto di specificità, l'onere di dedurre la decisività della prova che si assume viziata, evidenziando nell'atto di impugnazione l'insufficienza del compendio probatorio residuo per la conferma dell'affermazione di responsabilità
Massima

Nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento.

Il caso

La Corte di appello di Trieste confermava la responsabilità dell'imputato nonostante fossero state acquisite delle intercettazioni in violazione dell'art. 268 comma 3 c.p.p. in quanto effettuate con impianti diversi da quelli della procura della Repubblica senza che nel decreto autorizzativo vi fosse alcuna motivazione al riguardo.

La Cassazione, nel decidere il ricorso con il quale si lamentava l'inutilizzabilità della prova rilevava lo stesso fosse aspecifico in quanto non denunciava la decisività delle intercettazioni viziate e non effettuava la c.d. prova di resistenza; si rilevava tuttavia che ai fini dell'accertamento di responsabilità per il reato per cui si procedeva (tentata estorsione) le prove residue, e, segnatamente, le dichiarazioni della persona offesa, erano «più che sufficienti per affermare la responsabilità dell'imputato» a prescindere dalle captazioni inutilizzabili.

La questione

La Cassazione ha affrontato la seguente questione: se in presenza di una prova inutilizzabile, incomba sul ricorrente, a pena di inammissibilità dell'impugnazione per difetto di specificità, l'onere di dedurre la decisività della prova che si assume viziata, evidenziando nell'atto di impugnazione l'insufficienza del compendio probatorio residuo per la conferma dell'affermazione di responsabilità. La risposta, coerente con una serie di decisioni dello stesso segno, è stata affermativa.

Le soluzioni giuridiche

Di fronte alla deduzione (fondata) di inutilizzabilità della prova un indirizzo, che può definirsi maggioritario, trasferisce sul ricorrente l'onere di effettuare la prova di resistenza ritenendo che il ricorso che non deduca la decisività della prova viziata sia generico e, per ciò solo, inammissibile.

Di contro alcune sentenze non giungono a tale estrema conclusione ritenendo che incomba sul giudice, e non sulla parte, il compito di effettuare tale valutazione “di sistema”. Si è infatti deciso che la Cassazione quando rilevi la fondatezza del ricorso con cui si lamenti l'illegale assunzione di una prova non deve procedere all'automatico annullamento della sentenza ma, invece, deve effettuare la c.d. prova di resistenza e cioè valutare se gli elementi di prova acquisiti illegittimamente abbiano avuto un peso reale sulla decisione, mediante il controllo della struttura della motivazione, al fine di stabilire se la scelta di una certa soluzione sarebbe stata la stessa senza l'utilizzazione di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute sufficienti (Cass. pen., Sez. VI, 28 novembre 2013, n. 1255).

Osservazioni

La questione in esame è banale solo in apparenza in quanto, dietro la conferma della necessità di verificare la decisività della prova inutilizzabile rispetto ad un compendio probatorio in ipotesi resistente alla sua eliminazione, si staglia la ben più significativa questione dell'assegnazione dell'onere di verifica della c.d. prova di resistenza, tema questo assai rilevante se, come nel caso in esame, al suo mancato adempimento si ritiene consegua la mancata costituzione del rapporto processuale.

L'indirizzo giurisprudenziale al quale la sentenza in commento ha inteso dare continuità trasferisce l'onere in questione sulla parte che deduce l'inutilizzabilità, traendone l'estrema conseguenza della inammissibilità del ricorso per difetto di specificità nei casi in cui l'impugnazione non prospetti la decisività della prova che si assume inutilizzabile, attraverso la dimostrazione dell'insufficienza degli elementi residui a confermare l'accertamento di responsabilità.

Portando alle estreme conseguenze tale scelta ermeneutica si potrebbe ipotizzare la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso che deduce un vizio di inutilizzabilità fondato e finanche decisivo ma non dedotto con il “corredo” esplicito della prova di resistenza.

Il “rovesciamento” sul ricorrente dell'onere di effettuare esplicitamente la prova di resistenza potrebbe, tuttavia, non essere in linea la chiara indicazione codicistica circa la rilevabilità d'ufficio della massima patologia della prova, ovvero l'inutilizzabilità prevista dall'art. 191 c.p.p.

Nell'impianto codicistico l'obbligo del giudice di rilevare d'ufficio l'inutilizzabilità delle prove è un presidio di garanzia della legalità del processo, sottratto alle parti: si tratta di un onere, che insiste sui giudici di tutti i gradi e che, nella giurisdizione di legittimità, trova il solo limite della intima connessione della rilevazione della inutilizzabilità con accertamenti di fatto non effettuati nelle fasi di merito (Cass. pen. Sez. VI,24 aprile 2012, dep. 9 novembre 2012 n. 43534, Cass. pen. Sez. V, 19 aprile 2018, dep. 4 luglio 2018, n. 30102).

Si tratta dell'ennesima conferma del fatto che il nostro sistema processuale sfugge, in più di un area, all'inquadramento in un sistema accusatorio puro.

Il permanere in capo al giudice di rilevanti poteri di direzione e controllo dell'accertamento processuale è particolarmente evidente con riguardo all'estensione dei poteri integrativi del compendio probatorio: la linea rossa del potere integrativo d'ufficio si diparte sin dalla fase del controllo sull'esercizio dell'azione penale (art. 421 c.p.p.), per passare attraverso l'udienza preliminare (art. 422 c.p.p.), riemergere nell'area del rito a prova abbreviato (art. 441, comma 5, c.p.p), trovare una delle massime espressioni in dibattimento (art. 507 c.p.p.) e caratterizzare, infine, anche il giudizio d'appello (art. 603 c.p.p.).

A tale potere “direttivo” del giudice sull'estensione della piattaforma probatoria, si associa l'obbligo del giudice di “controllo” officioso della legalità del processo, anch'esso sottratto al potere dispositivo delle parti. Tale dovere di controllo si declina sia nell'onere di diffusa verifica della compatibilità costituzionale delle norme applicate (che implica anche il dovere di verificare la compatibilità convenzionale ed eurounitaria, si ritiene), sia, con specifico riguardo alla questione in esame, nell'obbligo di verifica della legalità delle prove poste a fondamento della decisione: non è infatti ammesso l'accertamento di responsabilità fondato su prove assunte in violazione di divieti, ovvero affette da un vizio così radicale come l'inutilizzabilità, patologia che esprime l'ontologica “illegalità” delle stesse, andando ben oltre la semplice violazione delle prerogative delle parti, ovvero di vizi minori che legittimano la scelta di assegnare agli interessati l'onere della devoluzione.

Tale lettura dell'inutilizzabilità, come presidio di legalità sottratto alla disponibilità delle parti è (probabilmente) incompatibile con la scelta di ritenere ostativo all'instaurazione del rapporto processuale in sede di legittimità il ricorso che non prospetta la decisività della prova viziata.

La valutazione circa la decisività è, invero, correlata alla rilevazione di qualsiasi patologia processuale, dato che non è sufficiente per generare un annullamento in sede di legittimità la semplice rilevazione di un vizio (sia esso una violazione di legge o un vizio di motivazione), ma è indispensabile che esso sia decisivo, ovvero che l'elisione dell'elemento viziato dal percorso argomentativo posto a fondamento dell'accertamento di responsabilità evidenzi l'insufficienza degli elementi residui.

Si dubita, quindi, della correttezza della scelta ermeneutica in esame; scelta, bisogna evidenziarlo, invero mitigata dalla concreta effettuazione da parte della Corte della prova di resistenza, azione in latente contrasto con l'affermazione della necessità che la tenuta del compendio probatorio sia verificata dal ricorrente (la Cassazione, infatti, rileva espressamente la sufficienza delle altre prove, e segnatamente, di quella dichiarativa, pur affermando l'inammissibilità del ricorso per difetto di specificità).

Ragionevolmente in un'area pienamente devoluta al controllo di legalità del giudice, come quella della verifica della utilizzabilità delle prove, la scelta di condizionare l'ammissibilità del ricorso all'esplicito compimento della prova di resistenza potrebbe condurre alla paradossale conseguenza di non ritenere instaurato il rapporto processuale nei casi in cui sia fondatamente in predicato la valutazione della legalità delle prove poste alla base della decisione.

La scelta criticata avrebbe senso in un sistema accusatorio puro, ma sembra perdere di validità in un ambiente procedimentale, come quello nostrano, che vede, invece, un ampio ricorso ai poteri del giudice di correzione del devoluto, sia con riguardo all' accrescimento del compendio probatorio, che al controllo officioso della sua legalità.

Guida all'approfondimento

GALANTINI, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova 1992,

GALANTINI, Inutilizzabilità della prova e diritto vivente, Rivista italiana diritto e procedura penale 2012,

RIVIEZZO, sub art. 191 c.p.p in Codice di procedura penale commentato a cura di G. Canzio e R. Bricchetti,

CONTI, Accertamento del fatto ed inutilizzabilità nel processo penale, Padova 2007.

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