Continuazione applicata dal giudice dell'esecuzione e poteri sull’estensione o revoca del lavoro di pubblica utilità

Paolo Pittaro
01 Marzo 2019

Il giudice dell'esecuzione, nell'applicare la disciplina della continuazione, non può implicitamente revocare la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità disposta ai sensi dell'art.73, comma 5-bis, d.P.R. 309 del 1990 (T.U. sugli stupefacenti), dovendo vagliare se estenderne la durata...
Massima

Il giudice dell'esecuzione, nell'applicare la disciplina della continuazione, non può implicitamente revocare la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità disposta ai sensi dell'art.73, comma 5-bis, d.P.R. 309 del 1990 (T.U. sugli stupefacenti), dovendo vagliare se estenderne la durata per effetto dell'applicazione della disciplina della continuazione, ovvero, ricorrendone i presupposti di legge, procedere alla revoca espressa motivandola adeguatamente.

Il caso

L'imputato era stato condannato una prima volta, a seguito di patteggiamento, con una sentenza del 2013 per sei delitti di cessione di sostanze stupefacenti (art. 73, comma 1 del testo unico n. 309 del 1990), tenuto conto della lieve entità del fatto (art. 73, comma 5 del medesimo T.U.), alla pena di mesi 10 di reclusione e Euro 2.000 di multa.

Successivamente, con una sentenza del 2014 era stato condannato, per due distinti delitti e sempre in applicazione dell'art. 73, commi 1 e 5, del medesimo T.U., alla pena di mesi 8 di reclusione e Euro 1.800 di multa. Tuttavia, in applicazione dell'art. 73, comma 5-bis del prefato T.U. siffatta pena era stata sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

La Corte d'Appello di Trieste, in qualità di giudice dell'esecuzione, con l'accordo delle parti, ha ritenuto la continuazione fra i vari reati, ritenendo più grave la pena di cui alla seconda sentenza (pena di mesi 8 di reclusione e Euro 1.800 di multa), prendendo come base la pena detentiva e pecuniaria inflitta prima della sua sostituzione in lavoro di pubblica utilità. Così, in relazione ai sei reati di cui alla prima sentenza, ha ritenuto un aumento di 15 giorni di reclusione e 120 Euro di multa per ciascun reato, pervenendo, complessivamente, ad un aumento di mesi 3 di reclusione e 720 euro di multa, ridotto, per il rito, a mesi 2 di reclusione e 480 Euro di multa.

In definitiva veniva a stabilire una pena complessiva finale di mesi 10 di reclusione e di euro 2.280 di multa.

Il condannato ricorreva per Cassazione lamentando la violazione del divieto di aggravamento della pena in sede esecutiva, posto che la pena più grave era sì quella della seconda sentenza del 2014, ma sostituita con il lavoro di pubblica utilità. Pertanto, anche la pena finale determinata dal giudice della esecuzione doveva consistere nel lavoro di pubblica utilità, considerato sia come pena base sia per l'aumento della continuazione (art. 81 c.p.) per i sei reati satellite di cui alla prima sentenza del 2013.

Il quadro normativo. Il reato commesso, per sei volte come contemplato nella prima sentenza e per due volte nella seconda sentenza, era quello di cessione di sostanze stupefacenti, previsto, assieme a varie altre fattispecie sempre relative a condotte aventi per oggetto tali sostanze, dall'art. 73, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante Testo unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza,e punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000. Tuttavia, veniva riconosciuta l'ipotesi di cui al successivo comma 5 del citato art. 73, il quale dispone che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commetta uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329”.

La seconda sentenza, pur partendo dalla normativa da ultimo citata, applicava anche il disposto del comma 5-bis del prefato art. 73 del T.U., in forza del quale, “nell'ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui al presente articolo commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale [il c.d. “patteggiamento”] su richiesta dell'imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quelle del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 [trattasi delle Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468], secondo le modalità ivi previste”.

A tale proposito deve evidenziarsi che la giurisprudenza ha rimarcato che:

  • la richiesta dell'imputato di applicazione della sanzione del lavoro di pubblica utilità non può essere formulata per la prima volta nel giudizio di appello (Cass. pen., sez. III, 3 febbraio 2010, n. 16849);
  • l'applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità prevista dall'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990, non consegue automaticamente al ricorrere dei presupposti legali, bensì è oggetto di una valutazione discrezionale del giudice in ordine alla meritevolezza dell'imputato ad ottenerla (Cass. pen., sez. VI, 18 giugno 2009, n. 38110);
  • la tempestiva richiesta dell'imputato di applicazione della sanzione del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 73, comma quinto-bis, d.P.R. n. 309 del 1990, in luogo della pena detentiva impone al giudice non solo il dovere di verificare la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge ma anche di ricercare di ufficio ogni elemento utile per dimostrare l'esistenza della capacità, idoneità ed affidabilità lavorativa e sociale dell'autore del reato (Cass. pen., sez. VI, 14 gennaio 2013, n. 6140);
  • la richiesta dell'imputato di applicazione della sanzione del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990, in luogo della pena detentiva, non può essere respinta per la mancanza di adeguata prova sulla sussistenza dei presupposti per la sua concedibilità (nella specie, l'inserimento sociale e gli orientamenti lavorativi dell'imputato), spettando al giudice la ricerca, anche di ufficio, di ogni elemento utile per la compiuta deliberazione della richiesta dell'interessato (Cass. pen., sez. VI, 15 aprile 2009, n. 21554);
  • posto che l'applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, prevista in caso di riconoscimento della circostanza attenuante della lieve entità del fatto per i reati in materia di stupefacenti, è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice, il quale deve esercitarsi avendo riguardo principalmente al parametro costituzionale espresso dall'art. 27 Cost. (in particolare l'idoneità della misura a rieducare il condannato), ai parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., oltre che ai parametri indicati dallo stesso art. 73, comma 5-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990, è necessario che si verifichino contestualmente quattro condizioni (Cass. pen., sez. III, 27 gennaio 2011, n. 6876, in Riv. pen., 2011, n. 5, p. 513, ed in Cass. pen., 2012, n. 1, p. 246 s.) e cioè:
    • a) che l'interessato sia tossicodipendente o comunque assuntore di stupefacenti;
    • b) che sia intervenuta sentenza di condanna o di patteggiamento la quale abbia riconosciuto l'attenuante del fatto di lieve entità;
    • c) che l'imputato abbia espressamente richiesto, eventualmente anche in via subordinata ma comunque prima della sentenza, la sostituzione delle pene irrogate con quella del lavoro di pubblica utilità;
    • d) che non ricorrano le condizioni per la concessione della sospensione condizionale della pena.

La Corte d'Appello, nella sua veste di giudice dell'esecuzione, aveva dichiarato la continuazione fra i reati contenuti nelle due sentenze. Tale fattispecie è contemplata dall'art. 671 cod. proc. pen., il quale dispone che nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione. Fra gli elementi che incidono sull'applicazione della disciplina del reato continuato vi è a consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. Peraltro, il giudice dell'esecuzione provvede determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto.

Inoltre, deve richiamarsi l'art. 188 disp. att. c.p.p., in forza del quale, nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, questa e il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, quando concordano sulla entità della sanzione sostitutiva o della pena detentiva, sempre che quest'ultima non superi complessivamente cinque anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, ovvero due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, nei casi previsti nel comma 1-bis dell'articolo 444 del codice. Nel caso di disaccordo del pubblico ministero, il giudice, se lo ritiene ingiustificato, accoglie ugualmente la richiesta.

La questione

Tenendo presente quanto finora ricordato, premesso che il giudice della esecuzione aveva ritenuto di effettuare la continuazione ritenendo più grave quanto contemplato dalla seconda sentenza del 2014, nell'effettuare l'aumento fino al triplo di cui all'art. 81 c.p., aveva preso in considerazione la pena base considerata dal giudice prima che questa venisse convertita nella sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.

La questione giuridica sorge, pertanto, in ordine a tale soluzione, ossia se l'aumento dovesse essere effettuato sulla pena prevista in originale, come ritenuto dal giudice di merito, ovvero proprio sulla pena definitivamente sostituita dal lavoro di pubblica utilità, come sostenuto dalla difesa dell'imputato.

A tale proposito può richiamarsi la precedente giurisprudenza della Suprema Corte, la quale aveva sancito che il giudice dell'esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato in ordine a reati separatamente giudicati con sentenze irrevocabili, è vincolato, nell'individuazione della violazione di maggiore gravità, a fare riferimento a quella punita con la pena più grave inflitta in concreto dal giudice della cognizione, la cui specie o misura non possono essere in nessun caso modificate, in senso peggiorativo o migliorativo, potendo egli operare soltanto una diminuzione delle pene irrogate per i reati satellite (Cass. pen., Sez. I, 5 giugno 2014, n. 38331; cfr. anche Cass. pen., Sez. I, 7 marzo 1995, n.1413). Nella fattispecie in esame la Corte aveva ritenuto illegittima la rideterminazione del trattamento sanzionatorio operato dal giudice dell'esecuzione che aveva applicato la pena detentiva senza tener conto dell'avvenuta sostituzione della stessa con la corrispondente pena pecuniaria in sede di cognizione in relazione a tutti i reati da unificare per la continuazione.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ritiene il gravame fondato, ma con conseguenze diverse da quelle prospettate dal ricorrente.

Infatti, il giudice dell'esecuzione, nel basarsi sulla pena detentiva disposta prima della sua sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, aveva operato una revoca implicita di tale sanzione sostitutiva: operazione che, secondo gli ermellini, deve ritenersi illegittima, in quanto l'eventuale revoca deve avvenire:

  • in forma esplicita;
  • adeguatamente motivata;
  • nelle ipotesi previste dalla legge.

E le ipotesi normativamente previste dallo stesso 73, comma 5-bis, contemplano la violazione degli obblighi specifici ai quali il condannato è stato sottoposto ovvero nel caso del superamento del limite di due volte di sostituzione della pena.

Peraltro, l'intera disciplina della sostituzione prevista da tale norma del T.U. sugli stupefacenti si pone come istituto di carattere eccezionale nell'ambito dell'intero sistema delle sanzioni sostitutive, poiché attribuisce al giudice di cognizione di primo grado un potere che può essere esercitato solo nel caso in cui egli non ritenga di concedere la sospensione condizionale della pena, essendovi situazioni ostative previste dalla legge oppure circostanze elencate dall'art. 133 c.p., che facciano presumere che il condannato non si asterrà dal commettere ulteriori reati, ai sensi dell'art. 164 c.p.

In ogni caso, comunque, il trattamento sanzionatorio determinato dal giudice dell'esecuzione non può essere peggiore di quello stabilito dal giudice dell'esecuzione, posto che la pena del lavoro di pubblica utilità costituisce una sanzione meno afflittiva di quella detentiva, che in tale caso verrebbe ripristinata.

D'altra parte, l'art. 188 disp. att. c.p.p. (citato supra) nell'ammettere che le parti in sede di esecuzione possono chiedere l'applicazione del concorso formale o del reato continuato, concordando sull'entità della sanzione sostitutiva, sancisce una regola che si colloca nel sistema generale delineato dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (recante modifiche al sistema penale), negli artt. 53 e seguenti del Capo III (dedicato, per l'appunto, alle Sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi), compreso l'art. 72 della stessa legge, che prevede la revoca della sanzione sostitutiva nei casi ivi previsti.

In definitiva, il giudice dell'esecuzione, dovendo decidere in ordine ad una richiesta congiunta delle parti di applicazione della disciplina della continuazione a reati per i quali il giudice della cognizione, ai sensi del T.U. stup., art. 73, comma 5-bis, era stata applicata la pena del lavoro di pubblica utilità come sanzione sostitutiva delle pene detentive e pecuniarie previste dal T.U. stup., art, 73, comma 5, ha due alternative:

  1. revoca espressamente la pena sostituiva del lavoro di pubblica utilità, motivando tale decisione, dovendosi escludere in via assoluta l'ipotesi di una revoca implicita della stessa;
  2. estende la durata della sanzione sostitutiva, per effetto dell'applicazione della disciplina della continuazione.
In conclusione

In base a tale principio di diritto, la Suprema Corte ha annullato l'ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello (con la diversa composizione propria del giudice di rinvio: cfr. Corte cost. 3 luglio 2013, n. 183), che dovrà pronunciarsi tenendo conto di quanto enunciato.

Una conclusione, a nostro avviso, del tutto corretta, nel contesto del quadro giuridico delineato supra, anche se non si rinvengono esatti precedenti in termini e, pertanto, di particolare rilievo.

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