Particolare tenuità del fatto. La “non irrisorietà” del danno può consentire l’applicazione della causa di non punibilità

06 Marzo 2019

La questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità concerne la specificazione di taluni profili attinenti ai presupposti applicativi della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p.
Massima

La causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, disciplinata dall'art. 131-bis c.p., deve ritenersi integrata ove le modalità della condotta non denotino, ai sensi dell'art. 133 c.p., una particolare gravità del fatto e il danno derivante dal comportamento dell'agente risulti esiguo, non potendovi ostare elementi che non siano stati concretamente presi in considerazione dal legislatore, quali l'oggettività giuridica del fatto di reato concretamente realizzato e la non irrisorietà del danno arrecato.

Il caso

Con sentenza emessa l'11 aprile 2018, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado resa dal tribunale del medesimo capoluogo, con cui era stata affermata la penale responsabilità dell'imputata per il delitto di danneggiamento, in ragione del comportamento posto in essere da quest'ultima, consistito nell'aver infranto con un calcio il vetro di un portone condominiale (recte – come puntualizzato nella pronuncia annotata – “un portoncino interno allo stabile”).

Avverso la predetta sentenza il difensore dell'imputata proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione di legge per la mancata applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p., derivante da talune valutazioni, esperite dal giudice di merito, inerenti il costo del bene danneggiato, prive però, secondo le argomentazioni difensive, di elementi concreti di riscontro, a cui si aggiungeva l'assenza dell'abitualità del comportamento posto in essere dalla prevenuta nonché la carenza di un particolare coefficiente di offensività.

La Seconda Sezione penale della Corte di cassazione ha accolto il ricorso, statuendo che i giudici di merito fossero incorsi in un'errata applicazione dei presupposti di legge relativi alla sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bisc.p.

In particolare, si è rilevato come il delitto di danneggiamento, disciplinato dall'art. 635 c.p., rientri nella sfera degli illeciti astrattamente riconducibili alla previsione normativa di cui all'art. 131-bis c.p., in ragione della pena edittale comminata che, nel massimo, risulta inferiore al limite di cinque anni di reclusione, annoverato dal legislatore quale primo requisito necessario ai fini della declaratoria della non punibilità del fatto per la sua particolare tenuità. Pertanto, posta tale premessa, ad avviso dei giudici di legittimità risulta precluso, nei giudizi di merito, statuire in ordine all'inapplicabilità della summenzionata causa di non punibilità utilizzando quale parametro di riferimento il bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice che si asserisca violata dalla condotta dell'agente, posto che laddove ci si trovi al cospetto di una fattispecie criminosa punita mediante la previsione di una cornice edittale che non oltrepassi il limite sancito dall'art. 131-bisc.p., non possono ritenersi sussistenti margini di discrezionalità in capo all'organo giudicante che lo legittimino a ritenere inoperante tale disciplina favorevole, sulla base di un giudizio che si fondi meramente sulla tipologia di reato concretamente realizzato nella realtà fattuale, nonché sulla natura dell'oggettività giuridica tutelata dalla fattispecie criminosa. Si tratta, difatti, di una scelta operata ab origine dal legislatore nell'esercizio del potere discrezionale conferitogli dall'ordinamento, che non appare suscettibile di deroghe in sede applicativa, pena l'emissione di una pronuncia che risulti contrastare col dettato normativo.

Sicché, la Corte Suprema ha concluso affermando che qualora le modalità della condotta realizzata non denotino, sulla base di quanto sancito dall'art. 133 c.p., una particolare gravità del fatto ed il danno risulti esiguo, il giudice sia tenuto a dichiarare la non punibilità del comportamento perpetrato dall'agente.

La pronuncia in analisi ha evidenziato, inoltre, un ulteriore vizio insito nella sentenza oggetto di gravame. Difatti, il giudice di appello era pervenuto ad escludere la sussumibilità del fatto nel perimetro dell'art. 131-bis c.p., asserendo che la condotta ascritta all'agente avesse prodotto un danno implicante una spesa non irrisoria ai fini del ripristino del bene materialmente aggredito. Ad avviso dei giudici di legittimità, aderendo a tale soluzione interpretativa, la Corte di appello milanese sarebbe giunta ad invocare, a supporto della propria decisione, un ulteriore elemento, per l'appunto rappresentato dalla non irrisorietà del danno cagionato, pur trattandosi di una componente estranea rispetto al novero degli elementi tipizzati dall'art. 131-bis c.p.

In ordine a tale profilo il giudice di ultima istanza è pervenuto ad affermare che l'organo di merito avesse effettuato un'interpretazione erronea, nel senso che il ricorso al parametro della non irrisorietà del danno cagionato, operato al fine di escludere l'operatività della disciplina ex art. 131-bis c.p., non appaia conforme al tessuto normativo, in quanto nel configurare la predetta causa di non punibilità il legislatore ha optato per la tipizzazione di un differente requisito di fattispecie, corrispondente alla non esiguità del danno prodotto dall'agente.

Da tale indicatore emerge l'esistenza di un differente disvalore intercorrente tra le predette ipotesi: nel caso di danni irrisori, difatti, l'interprete si troverebbe al cospetto di situazioni che malgrado abbiano implicato una variatio in peius nell'altrui sfera soggettiva, risultino al contempo connotate da un'assenza pressoché totale di conseguenze economiche negative; di contro, apparirebbero meritevoli della qualifica di danni esigui quelle conseguenze pregiudizievoli che, pur avendo comportato una sofferenza patrimoniale, la contengano entro limiti non eccessivi.

A corollario di tale argomentazione, la Corte suprema è pervenuta ad affermare che l'eventuale applicazione del canone della non irrisorietà del danno cagionato produrrebbe un'eccessiva restrizione del perimetro operativo della fattispecie astratta, sicché, come poc'anzi evidenziato, l'interprete risulta inderogabilmente veicolato verso l'utilizzazione del parametro della esiguità del danno, il quale, oltre ad essere espressamente sancito a livello normativo, appare altresì idoneo a garantire la corretta ampiezza al raggio di azione della previsione enucleata dall'art. 131-bis c.p.

In via conclusiva ed in aggiunta alle statuizioni attinenti ai profili di natura sostanziale, la Corte di cassazione, sulla scorta dell'orientamento giurisprudenziale formatosi attorno ai poteri conferiti al giudice di legittimità in ordine alla diretta applicazione della causa di non punibilità, è pervenuta ad affermare che, all'esito dello scrutinio degli atti processuali, sia risultata la sussistenza dei presupposti operativi dell'art. 131-bis c.p., non ritenendosi in tal modo necessari ulteriori accertamenti fattuali, tanto da sancire, stante l'ammissibilità del ricorso proposto, l'annullamento della pronuncia gravata senza rinvio al giudice di merito, con contestuale applicazione della causa di esenzione della pena.

La questione

La questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità concerne la specificazione di taluni profili attinenti ai presupposti applicativi della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p.

In particolare, vengono in evidenza due differenti componenti. In primo luogo, ci si interroga attorno al rilievo che possa assumere la specifica oggettività giuridica tutelata dalla fattispecie incriminatrice che, nel singolo caso, si asserisca violata dalla condotta dell'agente, al fine di statuire se la natura di essa appaia di per sé idonea ad escludere l'operatività della causa di non punibilità, anche al cospetto di un illecito punito con una pena edittale che rientri nel limite sanzionatorio tipizzato dall'art. 131-bis c.p.

In seconda istanza emerge la necessità di fornire un chiarimento interpretativo in merito allo specifico presupposto positivizzato dal legislatore relativamente alla natura che il danno debba assumere al fine di ritenere integrata la causa di non punibilità. Nello specifico, la questione gravita attorno alla dicotomia 'danno esiguo – danno irrisorio', demandandosi all'interprete il compito di individuare quale, tra i suddetti parametri, risulti rilevante nella predetta materia, anche allo scopo di non tradire la ratio legis sottesa all'introduzione della causa di non punibilità in oggetto.

Le soluzioni giuridiche

La questione affrontata dalla Corte di cassazione – concernente la condotta di un soggetto che cagionava, mediante lo sferrare di un calcio, il danneggiamento di un portoncino interno a uno stabile condominiale – afferisce ai presupposti applicativi della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., focalizzandosi l'attenzione su un duplice profilo di natura sostanziale, attinente ai requisiti strutturali della fattispecie, nonché su una componente di natura processuale, relativa ai poteri riconosciuti al giudice di ultima istanza in ordine alla diretta applicabilità, nel corso del giudizio di legittimità, della summenzionata disposizione.

Ragioni di natura sistematica suggeriscono di analizzare, in primo luogo, le questioni di natura sostanziale, per poi soffermare l'attenzione sui profili di carattere processuale.

Come rilevato, con la pronuncia in oggetto, la Corte suprema è pervenuta a ribaltare l'esito dei giudizi di merito, mediante i quali sia il tribunale che la Corte di appello di Milano erano approdati a dichiarare la penale responsabilità dell'imputata per il delitto di danneggiamento, previsto e punito dall'art. 635 c.p., con contestuale negazione dell'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, malgrado l'espressa richiesta formulata sul punto dalla difesa della prevenuta.

Dal corpo motivazionale della sentenza emerge come i giudici di merito abbiano fondato i rispettivi dinieghi di applicazione dell'art. 131-bis sulla scorta di due differenti elementi.

In primo luogo, è emerso come si sia conferita rilevanza alla natura dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice che, nel caso specifico, corrisponde all'integrità dell'altrui patrimonio, affermandosi come l'aggressione al predetto bene e, in particolare, la realizzazione di un danno economicamente valutabile a detrimento di una specifica collettività di individui – in ragione della tipologia di res costituente l'oggetto materiale della condotta perpetrata dall'agente – ostino alla sussumibilità della fattispecie concreta nella sfera applicativa dell'art. 131-bis c.p.

A fronte di una simile statuizione la Corte di cassazione ha in sostanza affermato che, al fine di vagliare la riconducibilità del fatto storico nel paradigma dell'art. 131-bis c.p., il primo compito demandato all'interprete consista nel valutare se il fatto di reato individuato nel capo di imputazione rientri nella classe categoriale presa in considerazione dal legislatore.

Come noto, difatti, attraverso l'art. 1 d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, il potere legislativo ha provveduto a inserire nel corpus codicistico la causa di non punibilità delineata dall'art. 131-bis c.p., stabilendo, sulla base dell'enunciato normativo prescelto, che possano beneficiare di tale disposizione favorevole soltanto quelle figure criminose che risultino sanzionate con una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, ovvero con la pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva.

Di tal ché, al cospetto delle suddette coordinate normative, risulta precluso in capo all'organo giudicante esperire una valutazione ultronea, che valorizzi la natura del bene giuridico oggetto di tutela a opera della norma incriminatrice. Difatti, a prescindere da quale sia l'oggettività giuridica protetta dalla fattispecie astratta, ove si tratti di un illecito punito con un quantum sanzionatorio che non oltrepassi la soglia prescelta dal legislatore nel 2015, deve ritenersi soddisfatto il primo dei presupposti statuiti dall'ordinamento ai fini dell'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., dovendosi, in una fase immediatamente successiva, portare a compimento l'attività di accertamento volta a valutare sia la presenza cumulativa degli ulteriori requisiti di fattispecie richiesti dal legislatore, nonché l'assenza del novero delle cause ostative alla sua applicazione, espressamente elencate dal medesimo art. 131-bis c.p.

In secondo luogo, i giudici di legittimità sono pervenuti a contestare l'apparato motivazionale delle sentenze di merito anche in ordine al secondo dei profili valorizzati ai fini della esclusione dell'applicabilità della causa di esenzione della pena.

Nello specifico, è emerso come i giudici di merito avessero negato l'applicabilità, al caso di specie, dell'art. 131-bis c.p., sulla base della natura attribuita al pregiudizio arrecato al bene preso di mira dalla condotta dell'agente, qualificato alla stregua di un danno non irrisorio.

La Corte di cassazione ha smentito le conclusioni raggiunte in sede di merito rilevando, da un lato, la lacunosità della pronuncia oggetto di gravame in ordine all'espletamento di un'attività di accertamento avente a oggetto l'effettivo costo del bene danneggiato dall'imputata e costatando, inoltre, come in sede di appello si fosse pervenuti a travisare gli elementi riscontrati dal giudice di primo grado, relativi alla esatta individuazione della tipologia del bene danneggiato, corrispondente non al vetro della porta condominiale, bensì ad un portoncino collocato all'interno dell'edificio.

Sicché, ad avviso del giudice di ultima istanza, sulla scorta di tali componenti, la condotta materialmente posta in essere avrebbe denotato un grado minore di offensività.

In riferimento a tale profilo, ciò che più rileva è rappresentato dal passaggio motivazionale con cui il giudice di legittimità contesta la correttezza dell'assunto argomentativo fatto proprio in sede di merito con riguardo alla tipologia di danno che risulti idoneo ad escludere l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p.

In particolare, nella pronuncia in analisi si rammenta, anzitutto, il contenuto del dato normativo, che risulta ancorato al concetto di danno esiguo, e si osserva come la scelta operata dal giudice di merito, volta da un lato a qualificare il pregiudizio patrimoniale perpetrato dall'imputata alla stregua di un danno non irrisorio e correlativamente a escludere l'operatività della causa di non punibilità, risulti inficiata, per un verso, da un vizio rivelante una distonia tra la pronuncia giudiziale e il dato testuale, in quanto, come osservato, l'opzione seguita dal legislatore si è indirizzata nel senso di utilizzare il differente parametro del danno esiguo, cosicché la soluzione offerta dai giudici di merito si caratterizza per essere pervenuta ad attribuire rilievo ad un elemento privo della necessaria tipicità legislativa.

Per altro verso, la soluzione accolta dai giudici di legittimità si pone l'obiettivo di evidenziare la differenza contenutistica sussistente tra le nozioni di danno esiguo e danno non irrisorio, osservandosi, in sostanza, come esse non rivelino una natura sinonimica, bensì appalesino una differente entità di disvalore, che conduce alla creazione di una scala di gravità decrescente, sulla cui sommità, ad avviso della Corte di cassazione, appare opportuno collocare il danno recante un contenuto di esiguità, mentre alla base appare preferibile allocare il danno che si connoti per la sua natura irrisoria.

Di conseguenza, attraverso un procedimento di deduzione logica, risulta possibile affermare che qualora si acclari la non irrisorietà del danno cagionato, ben potrebbero permanere dei margini affinché il medesimo pregiudizio patrimoniale rientri nella sovrastante sfera del danno esiguo, in tal modo ritenendosi egualmente integrato uno degli elementi costitutivi contemplati dall'art. 131-bis c.p.

Esaurita l'analisi delle questioni di natura sostanziale emergenti dalla pronuncia in commento, in tale secondo segmento l'indagine si orienta verso i profili di carattere processuale sottoposti al vaglio del giudice di legittimità.

Sul punto, può da subito osservarsi come la soluzione accolta dalla sentenza si innesti in quel filone ermeneutico affermatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 28/2015, concernente l'ampiezza dei poteri riconosciuti dall'ordinamento processuale all'organo giurisdizionale di ultima istanza, con particolare riferimento alla sussistenza della facoltà di applicare in via diretta una disposizione avente natura sostanziale – quale risulta essere, come costantemente affermato dalla stessa giurisprudenza, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto – senza necessità di rimettere la relativa valutazione al giudice di merito.

Pertanto, il principio enucleato dalla sentenza scrutinata afferma che il giudice di legittimità sia titolare del potere di applicare in via diretta l'art. 131-bis c.p., allorché il ricorso proposto risulti ammissibile e qualora, nel giudizio di appello, l'imputato abbia formulato la relativa richiesta di proscioglimento mediante declaratoria della causa di non punibilità a cui abbia fatto seguito il rigetto espresso dall'organo giudicante, a condizione che i presupposti per la sua applicazione risultino immediatamente rilevabili dagli atti e non si rendano necessari ulteriori accertamenti fattuali.

In sostanza, pur omettendo di farne espressa menzione all'interno dell'apparato motivazionale, appare evidente come la Corte Suprema abbia ritenuto applicabile alla fattispecie in esame l'art. 620, lett. l), c.p.p., che per l'appunto concerne i casi di annullamento senza rinvio in sede di legittimità, facendo leva sul frammento della proposizione normativa relativo all'insussistenza della necessità di esperire ulteriori accertamenti fattuali ai fini dell'adozione della decisione.

Osservazioni

Pur se dotata di un compendio motivazionale sintetico, la sentenza in commento si segnala per l'enucleazione di talune soluzioni che meritano di essere portate all'attenzione del lettore, in quanto ispirate a un canone di ragionevolezza che permette di ripristinare la legalità, nei fatti violata dalle soluzioni elaborate dai giudici di merito, in particolare per la puntualizzazione di taluni aspetti, relativi alla duttilità operativa della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, che si intersecano nella dialettica avente ad oggetto il travagliato rapporto sussistente tra il legislatore penale e gli organi giurisdizionali chiamati a dare attuazione alle scelte operate dal potere legislativo.

In particolare, appaiono meritevoli di un accurato scrutinio i passaggi motivazionali della pronuncia in esame con cui il giudice di ultima istanza fornisce un contributo chiarificatore in ordine a talune delle componenti strutturali del tipo normativo delineato dall'art. 131-bis c.p., in modo da offrire un'utile chiave di lettura volta ad agevolare il compito del futuro interprete.

In via preliminare, è utile osservare come, a seguito dello sviluppo di riflessioni di durata ultratrentennale che avevano animato la dottrina penalistica, tramutate altresì in progetti di riforma della parte generale del codice penale, costantemente incapaci, però, di tramutarsi in atti legislativi vigenti a causa dell'immobilismo dimostrato, nel predetto contesto, dalle differenti compagini governative succedutesi nel corso degli ultimi decenni, con l'art. 1, lett. m), l. 28 aprile 2014, n. 67, il legislatore – sospinto altresì dall'improcrastinabile esigenza di alleggerire il carico processuale gravante sugli uffici giudiziari italiani – ha conferito all'Esecutivo una delega al fine di «escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento».

In tal modo, attraverso l'adozione del d.lgs. 28 marzo 2015, n. 28, il Governo ha recepito le direttive impartite dall'organo parlamentare, pervenendo ad introdurre nel tessuto codicistico la causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. Tale previsione normativa, peraltro, non rappresenta un novum assoluto all'interno del nostro sistema ordinamentale, posto che va ad affiancarsi a preesistenti disposizioni recanti struttura e contenuti simili, deputate, però, a governare un diverso ambito, tanto da potersi ritenere sussistente, allo stato attuale, una ripartizione ratione materiae in tema di cause di non punibilità (in ragione della tenuità del fatto realizzato), discendente sia dalla specifica tipologia di fatti concretizzatisi nella realtà materiale, sia dal soggetto che si presuma esserne l'autore e, infine, dall'individuazione dell'organo giurisdizionale attributario del relativo potere di cognizione.

Invero, in tema di disciplina del processo minorile, l'art. 27, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, sancisce la facoltà di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto laddove risulti la tenuità di esso nonché l'occasionalità del comportamento posto in essere dall'agente, trattandosi peraltro di uno strumento utilizzabile in ogni stato e grado del procedimento, in virtù degli interventi operati dal giudice costituzionale, che hanno condotto all'ampliamento del suo ambito di operatività.

La ratio sottesa alla predetta disciplina è insita nell'esigenza di garantire una forma di tutela rafforzata all'imputato minorenne che, almeno sino all'entrata in vigore dell'art. 131-bis c.p., implicava una differenziazione trattamentale in rapporto alla condizione dell'imputato maggiorenne, in quanto volta ad attendere all'obiettivo di permettere una celere fuoriuscita dal circuito processuale ove la natura e le conseguenze del comportamento illecito perpetrato non risultassero meritevoli dell'inflizione della sanzione penale, anche nell'ottica di perseguire il duplice obiettivo dell'effettiva rieducazione dell'autore del fatto verso il rispetto dei valori infranti e, in particolare, del reinserimento nel tessuto sociale, avvertendosi tale componente quale scopo indefettibile stante altresì la giovane età del soggetto agente.

Successivamente, nel devolvere al giudice di pace la competenza per talune tipologie di reati, realizzata mediante l'approvazione del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, il legislatore ha dettato, mediante il disposto dell'art. 34, una disciplina volta a precludere la procedibilità o, quantomeno, la punibilità di quei fatti connotati da una particolare tenuità, desumibile dal ricorrere, in via cumulativa, di una pluralità di requisiti, rappresentati dall'esiguità del danno o del pericolo derivato, nonché dall'occasionalità del comportamento e dal grado della colpevolezza.

La logica sottesa ad una siffatta scelta di politica criminale appare improntata all'esigenza di escludere dalla sfera dei fatti punibili quei comportamenti che si caratterizzino per il loro elevato grado di bagatellarità, al fine di arginare l'operatività della manus punitiva statuale ai soli fatti che oltrepassino una soglia significativa di offensività, a condizione che non vi osti una volontà contraria del medesimo imputato ovvero della persona offesa.

All'interno del predetto mosaico normativo si è innestata la disciplina di cui all'art. 131-bisc.p. che, dal raffronto strutturale con le richiamate previsioni in tema di processo minorile e di reati devoluti alla cognizione del giudice di pace, presenta significativi profili di omogeneità a cui, peraltro, si affiancano talune componenti differenziali.

Focalizzando l'attenzione sul dato contenutistico dell'art. 131-bis c.p. può osservarsi, per ciò che più rileva in tale sede, come il legislatore, nell'esercizio del potere discrezionale conferitogli dall'ordinamento ed abitualmente riconosciutogli dalla stessa Corte costituzionale, abbia operato una delimitazione della sfera di operatività della predetta causa di non punibilità, facendo in primo luogo ricorso ad un criterio di natura astratta, consistente nell'individuazione di un quantum di sanzione edittale, pari ad una pena non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione (ovvero alla comminatoria della pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva), entro il cui perimetro l'interprete risulta legittimato, al ricorrere degli ulteriori requisiti oggetto di tipizzazione, a pervenire alla declaratoria di non punibilità.

In tal modo, appare evidente come il legislatore abbia optato per una scelta protesa a racchiudere nel raggio operativo della nuova causa di non punibilità una specifica classe categoriale di illeciti penali, identificabile mediante il ricorso ad un denominatore comune, rappresentato dalla gravità astratta di essi, la cui individuazione appare il frutto di una valutazione di natura tipicamente discrezionale, operata dallo stesso potere legislativo nel momento della selezione della pena massima oltre la quale l'art. 131-bis c.p. risulti inapplicabile.

Di tal ché, può rilevarsi come il criterio prescelto si connoti per un evidente ancoraggio ad un parametro di natura algebrica, volto al contempo a prescindere da valutazioni di matrice valoriale che, ove ritenute prevalenti, avrebbero condotto ad attribuire rilevanza al bene giuridico oggetto, di volta in volta, della tutela penale, potendosi financo optare per la non assoggettabilità di specifiche classi di illeciti penali al compasso di operatività della disposizione in analisi, e ciò anche al cospetto di fatti di reato sanzionati con una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, proprio alla luce della natura dello specifico bene protetto che, all'esito di un giudizio di bilanciamento, sarebbe risultato prevalere in rapporto all'astratta gravità del fatto di reato, quantificata in via originaria dal legislatore attraverso la comminatoria della sanzione edittale.

Pertanto, dall'esegesi del dato normativo, emerge in modo univoco come l'organo legislativo abbia inteso tracciare un binario entro il quale l'interprete risulti vincolato ad esperire la propria attività di accertamento, annoverando nella gamma dei requisiti di fattispecie un parametro inidoneo ad esser sottoposto ad un sindacato di discrezionalità da parte dell'Autorità giudiziaria, proprio in ragione della componente algebrica che lo contraddistingue.

Sicché appare evidente come, prima facie, l'interprete sia chiamato a verificare la sussumibilità del fatto oggetto di contestazione in una fattispecie astratta sanzionata con una pena detentiva che non oltrepassi il limite di cinque anni di reclusione; ove tale valutazione, di natura prettamente vincolata, conduca ad un esito positivo, spetterà al medesimo interprete approdare ad uno stadio successivo del procedimento valutativo, nel corso del quale si richiede l'espletamento di un'attività di accertamento avente ad oggetto la sussistenza degli ulteriori requisiti di fattispecie, potendo in tal caso fare ricorso al potere discrezionale riconosciutogli dall'ordinamento, al fine di valutare l'assoggettabilità della fattispecie concreta sottoposta al suo vaglio ad una declaratoria di non punibilità in ragione della sua particolare tenuità.

Alla luce delle coordinate che precedono appare evidente come l'organo legislativo abbia inteso circoscrivere il margine di discrezionalità attribuito al potere giudiziario in ordine all'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., con la conseguenza che la soluzione raggiunta dalla pronuncia annotata merita di essere accolta con favore, in quanto idonea a ribaltare le conclusioni enucleate dai giudici di merito, che avevano ritenuto inoperante nel caso de quo la predetta causa di non punibilità, ancorando la soluzione anzitutto su una valutazione concernente la tipologia di evento cagionato dalla condotta dell'imputata, consistente nel deterioramento di un bene mobile altrui e, in via complementare, valorizzando la tipologia di bene protetto dalla fattispecie di cui all'art. 635 c.p., consistente nella tutela dell'altrui integrità patrimoniale.

Soffermando l'analisi su tale profilo, può osservarsi come la pronuncia annotata si contraddistingua per quello che potrebbe definirsi un ‘restauro della legalità', sconfessandosi in tal modo le statuizioni formulate in sede di merito, che apparivano idonee a configurare un contrasto proprio con il canone della stretta legalità, giungendosi in tal modo a violare il precetto costituzionale di cui all'art. 25, comma 2, sotto il versante del corollario della tassatività che, come noto, annovera nel proprio oggetto le regole volte a disciplinare l'attività di interpretazione della legge penale da parte dell'organo giudicante.

Come noto, difatti, qualora l'interprete dubiti della conformità al dettato costituzionale di una disposizione di rango primario sottoposta al suo vaglio, l'unico strumento azionabile contemplato dall'ordinamento consiste nella formulazione di una questione di legittimità costituzionale, in modo da sottoporre al vaglio del giudice delle leggi la coerenza delle scelte operate dal legislatore in rapporto alle regole ed ai principi aventi rango costituzionale.

Di contro, la ripartizione dei poteri e delle competenze istituzionali delineata dal legislatore costituente preclude la formulazione, da parte degli organi giurisdizionali, di un giudizio di valore avente ad oggetto il contenuto delle fattispecie astratte sottoposte al loro scrutinio, rilevanti ai fini della soluzione del caso concreto.

Appare difatti evidente come la tutela dell'equilibrio intercorrente tra i differenti poteri statuali postuli, alla luce del principio costituzionale dettato dall'art. 101, comma 2, che gli organi giurisdizionali esercitino le loro funzioni nel costante rispetto della legislazione vigente, ben potendo, all'esito del procedimento interpretativo delle disposizioni normative sottoposte al loro vaglio, formulare dei giudizi critici relativi al loro contenuto, i quali se, per un verso, potrebbero rimanere confinati nel foro interiore del singolo organo giudicante – e, pertanto, non costituire oggetto di diffusione conoscitiva – per altro verso potrebbero essere sottoposti ad un procedimento di esternazione, attraverso la loro collocazione nel corpo motivazionale della pronuncia emessa all'esito del giudizio, assumendo però una mera valenza incidentale, la quale, in sostanza, assolverebbe la funzione di semplice auspicio rivolto nei confronti dell'organo legislativo, avente ad oggetto un intervento riformatore della disciplina normativa vigente.

Poste tali premesse, l'adozione di decisioni giudiziali aventi un contenuto ultroneo, che non si limiti alla mera formulazione di un giudizio critico avverso il contenuto della singola disposizione normativa oggetto di analisi, ma si tramuti nell'adozione di una pronuncia fondata su una valutazione di natura marcatamente discrezionale operata dal singolo organo giudicante, che si ponga, pertanto, in contrasto con le regole che governano l'attività interpretativa del giudice penale, in ragione del fatto che risulti connotata da una significativa componente soggettivistica, conduce, in via conclusiva, ad una decisione contra legem.

Ove non si ponesse un argine a tale scenario, si concretizzerebbe il rischio di assistere ad un'indebita interferenza tra i poteri statuali, derivante da un'intromissione da parte degli organi giurisdizionali nell'attività riservata alla competenza dell'organo legislativo che, come ampiamente osservato, sulla scorta della concezione democratica su cui appare fondato l'attuale Stato di diritto, risulta l'esclusivo depositario del potere di creazione delle disposizioni penali, ben potendo far ricorso, nell'esercizio del predetto potere, ad un compendio di valutazioni di natura discrezionale, la cui coerenza col sistema delineato dalla Carta costituzionale risulta rimessa all'esclusivo sindacato da parte del giudice delle leggi.

L'esigenza di preservare la delimitazione dell'ambito delle competenze tra i poteri operanti in ambito statuale appare ancor più necessitata dalla circostanza secondo cui, ove si pervenisse ad una soluzione di segno contrario, si profilerebbe l'emersione di uno scenario dai risvolti inquietanti, che condurrebbe ad una situazione di costante incertezza del diritto, dipendente dalle scelte operate, di volta in volta, dal singolo organo giudicante, pervenendosi in tal modo al prevalere di una componente personalistico-soggettivizzante nell'interpretazione della legge penale, che risulterebbe pericolosamente governata da un imprevedibile grado di variabilità dell'esito giudiziale, confliggendo in sostanza con un'esigenza di oggettivizzazione nell'ermeneusi del dato normativo, che dovrebbe ritenersi prevalente in specie laddove vengano in rilievo parametri normativi che demandino all'organo giudicante un'attività interpretativa di natura vincolata.

A rafforzare le argomentazioni che precedono, può osservarsi come la mancata confutazione di una simile impostazione potrebbe condurre ad un ulteriore risvolto meritevole a sua volta di essere censurato. Difatti, parrebbero sussistere i presupposti idonei a condurre ad una violazione del canone della stretta legalità che, come noto, governa l'intera materia penalistica, con specifico riferimento alla violazione del principio di tassatività nell'interpretazione della legge penale. Sul punto può osservarsi come, in riferimento alle disposizioni penali non annoverabili nella sfera delle fattispecie incriminatrici, la regola che ne governa il procedimento di interpretazione è rappresentata dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, ove si sancisce che le «leggi penali […] non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».

Di tal ché, appare evidente, con specifico riferimento alla vicenda oggetto della pronuncia annotata, come la mancata applicazione della disciplina di cui all'art. 131-bisc.p. risulti idonea a concretizzare una violazione del principio di tassatività, in quanto, come si vedrà più dettagliatamente nel prosieguo, non appare sorretta da valide ragioni giustificatrici. Di conseguenza, sembrerebbe possibile affermare che, stante la natura di disposizione recante un contenuto favorevole nei confronti dell'imputato, la sua mancata applicazione concretizzerebbe una violazione del canone della tassatività, in quanto, pur non sconfinando in un'interpretazione analogica che, laddove produttiva di effetti in malam partem, risulterebbe preclusa in sede penale, si atteggerebbe alla stregua di un'interpretazione restrittiva a sua volta idonea a produrre degli effetti contra singulum, in ragione della riespansione della portata operativa della fattispecie incriminatrice asseritamente violata nel singolo caso, la cui forza applicativa dovrebbe ritenersi soccombente al cospetto dei requisiti idonei ad integrare la causa di non punibilità.

Approfondendo il ragionamento, si potrebbe pertanto osservare come l'art. 131-bis codifichi una regola eccezionale, in quanto derogatoria della regola generale a mente della quale la realizzazione, nella realtà concreta, di un fatto recante, sia sul versante oggettivo che sotto quello soggettivo, le componenti tipiche di un fatto di reato, dovrebbe necessariamente condurre all'irrogazione della sanzione penale, a cui, di contro, osterebbe il ricorrere nella fattispecie concreta dei requisiti tipizzati dall'art. 131-bis c.p. i quali, in via conclusiva, condurrebbero ad una cesura della catena causale rappresentata dalla diade ‘commissione di un fatto di reato – inflizione della relativa sanzione'.

Pertanto, ove si ritenesse valida l'attribuzione della natura di norma eccezionale all'art. 131-bisc.p. dovrebbe sostenersi l'applicabilità del disposto dell'art. 14 delle preleggi, che impone al giudice di applicare tale categoria di norme nello stretto perimetro dettato dal parametro normativo dei ‘casi e dei tempi in esse considerati', in modo da vincolare l'attività del giudicante ad un'opera di sussunzione della fattispecie concreta nel perimetro della fattispecie astratta idonea ad accoglierla e, al contempo, a dichiararne la non punibilità. Viceversa, qualora la decisione del giudice dovesse condurre alla declaratoria di inapplicabilità della causa di non punibilità, pur sussistendone i presupposti, si assisterebbe ad una torsione del corretto esercizio del potere ad esso attribuito, con correlata violazione del canone della legalità mediante un'interpretazione restrittiva in malam partem di una norma penale di favore.

Applicando le coordinate che precedono al caso di specie può osservarsi come, nei confronti della pronuncia resa dalla Seconda sezione penale della Corte di cassazione, sia possibile addivenire alla formulazione di un giudizio positivo, in specie per la sua opera di reconductio ad legalitatem della vicenda oggetto di giudizio che, alla luce delle pronunce rese dai giudici di merito, era, nella sostanza, apparsa violata.

Giova difatti ricordare come nel corso dei giudizi di merito si fosse pervenuti ad escludere l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., pur in presenza di un comportamento tenuto dall'imputata che risultasse riconducibile alla figura criminosa di cui all'art. 635 c.p., volta a punire il delitto di danneggiamento, il quale, sia alla luce della disciplina vigente all'epoca della commissione del fatto, sia sulla base della disciplina in vigore al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, appariva sanzionato con una pena edittale inferiore al quantum stabilito dal legislatore per l'operatività della causa di non punibilità.

Ciò nonostante i giudici di merito erano pervenuti a sancire la penale responsabilità dell'imputata, fondando le proprie decisioni sulla mera circostanza che il comportamento ascrittole avesse cagionato il deterioramento di un bene altrui, con ciò tradendo, come puntualmente osservato dalla Corte suprema, la ratio sottesa all'applicabilità della causa di non punibilità in parola, la quale postula l'esistenza di un fatto conforme ad una figura criminosa tipizzata dal legislatore, il quale, però, sulla scorta di una valutazione volta a tenere in considerazione le singole componenti connotanti la fattispecie concreta, non risulti meritevole di punizione, in ragione del mancato raggiungimento della necessaria soglia di offensività richiesta ai fini dell'applicabilità della sanzione penale.

A tale prima annotazione critica formulata avverso le pronunce di merito i giudici di legittimità ne hanno affiancata una ulteriore, che offre un significativo contributo ricostruttivo volto a consolidare in modo univoco i confini esistenti, da un lato, tra l'opera del potere legislativo, chiamato a selezionare i comportamenti umani meritevoli di sanzione penale e, dall'altro, l'attività demandata agli organi giurisdizionali, chiamati ad operare in una fase successiva alla creazione del precetto penale, nella quale si esperisce il giudizio finalizzato a valutare la conformità al tipo astratto del fatto oggetto di accertamento.

In particolare la pronuncia annotata perviene a confutare l'assunto argomentativo fatto proprio nelle sedi di merito, ove si era sancita l'inapplicabilità dell'art. 131-bisc.p. ancorando la relativa decisione alla tipologia di evento lesivo cagionato, consistente in un danno all'altrui integrità patrimoniale, che nel caso concreto aveva assunto la dimensione di una lesione cagionata ad una collettività di soggetti, in ragione della natura comune del bene condominiale inciso dalla condotta dell'imputata.

In sostanza, ad avviso dei giudici di merito, la contitolarità del medesimo bene in capo a più soggetti e la presumibile utilizzazione comune di tale res in seno al contesto condominiale, avrebbe implicato l'emersione di una tutela rafforzata, volta a precludere l'operatività della causa di non punibilità, giungendosi in tal modo a prescindere dall'elaborazione di un giudizio che tenesse in considerazione il novero delle circostanze caratterizzanti il caso concreto.

Come correttamente osservato dai giudici di legittimità, una siffatta conclusione non appare condivisibile in ragione dell'assenza di qualsivoglia referente normativo idoneo a conferirle fondamento giuridico. Difatti, dall'esegesi del dato contenutistico racchiuso nell'art. 131-bis, nonché da una lettura sistematica delle disposizioni presenti all'interno del nostro ordinamento, non appare possibile pervenire ad affermare la sussistenza di uno statuto privilegiato in favore del ‘patrimonio', quale specifica entità oggetto della tutela penale, né tantomeno una particolare forma di tutela qualificata in favore dei beni patrimoniali di natura collettiva, in quanto facenti capo ad una pluralità di soggetti.

Pur non escludendo in radice la compatibilità col sistema di una siffatta disciplina normativa, non può obliarsi come tale tipologia di soluzione sia necessariamente rimessa a una valutazione discrezionale da parte del legislatore. Orbene, ragionando in una prospettiva de iure condito, una simile soluzione non appare oggetto di un'apposita previsione regolamentare, anche alla luce del fatto che una sua eventuale codificazione ben potrebbe esporsi ad una declaratoria di illegittimità costituzionale, in particolare ove risultasse inidonea a superare il vaglio di ragionevolezza, ritenuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale il criterio guida volto a presiedere l'opera del legislatore nella formulazione delle disposizioni di natura penale.

A fortiori, ove una simile valutazione non venga formulata da parte del legislatore, risulta pienamente preclusa in capo all'organo giudicante il quale, diversamente operando, giungerebbe a sostituirsi proprio al potere legislativo, pervenendo a compiere una valutazione di natura prettamente arbitraria che si profilerebbe, da ultimo, quale espressione di una preferenza di carattere marcatamente soggettivo riconducibile alla visione fatta propria dal singolo giudice, con ciò ledendo appieno l'assetto costituzionale volto a garantire la suddivisione dei poteri in capo ai differenti organi istituzionali.

A rinforzare tale primo segmento argomentativo, desumibile dall'apparato motivazionale della sentenza annotata – che, come osservato, può assolvere alla funzione di monito nei confronti dell'interprete futuro, proprio al fine di scongiurare delle indebite torsioni del principio di legalità operate attraverso lo sconfinamento da parte dell'organo giudicante in un terreno riservato all'agire del legislatore – sopravviene un ulteriore compendio motivazionale, a sua volta finalizzato a confutare le soluzioni elaborate nei giudizi di merito, che assume quale oggetto la componente del fatto di reato relativa all'evento tipico.

In particolare, emerge come nei precedenti gradi di giudizio si fosse sancita l'inapplicabilità dell'art. 131-bis facendo altresì leva sulla natura del danno cagionato dalla condotta dell'imputata che, ad avviso dei giudici di merito, avrebbe implicato una spesa non irrisoria ai fini della riparazione del bene danneggiato.

Giova sin da subito evidenziare come dalla lettura del provvedimento annotato non si evinca, stante l'assenza di elementi da cui poter desumere il predetto dato, quale fosse il valore del bene deteriorato e, conseguentemente, a quanto ammontasse il danno cagionato, facendosi esclusivamente menzione della tipologia della res aggredita che, come puntualizzato in sede di legittimità, sulla scorta peraltro di quanto già asserito nella pronuncia di primo grado, corrispondeva ad un portoncino interno allo stabile e non (come invece indicato nella sentenza di appello) al vetro del portone condominiale.

Da un punto di vista prettamente tecnico, ciò che più rileva in tale sede è rappresentato dal giudizio in ordine alla validità del parametro posto a fondamento delle pronunce di merito.

Invero, come accennato, emerge come in sede di merito si fosse esclusa l'applicabilità della causa di non punibilità ritenendo che il danno perpetrato dall'imputata non fosse irrisorio. In tal modo, come puntualmente osservato dalla pronuncia annotata, si era conferita rilevanza ad una componente priva della necessaria tipicità normativa, in quanto estranea al novero degli elementi costitutivi delineati dall'art. 131-bis, ove, al contrario, ai fini della declaratoria di non punibilità del fatto, il legislatore ha tipizzato il differente parametro della ‘esiguità del danno', quale requisito che, in concorso con le altre componenti a loro volta tipizzate dalla medesima disposizione, risulti idoneo a soddisfare il giudizio di immeritevolezza della sanzione penale dello specifico fatto storico oggetto di accertamento giudiziale.

La dissipazione di tale dubbio interpretativo non postula la soluzione di una questione di natura prettamente linguistica, gravitante attorno all'attributo destinato ad affiancare il termine ‘danno', sulla scorta della dicotomia ‘esiguità – irrisorietà', ma suggerisce l'espletamento di talune riflessioni che conducano a dimostrare, in prima analisi, la sussistenza di un'eterogeneità contenutistica intercorrente tra i predetti termini e, in secondo luogo, consentano di approfondire le conseguenze derivanti sul terreno penalistico dalla predetta diversità concettuale.

Giova, pertanto, prendere le mosse dall'analisi del significato semantico attribuibile a ciascuno dei due poli costituenti la summenzionata diade, servendosi altresì delle soluzioni fatte proprie dalla linguistica italiana.

Per quanto attiene all'aggettivo irrisorio che, come anticipato, non figura nella disciplina legale di cui all'art. 131-bis c.p., si suole abitualmente ritenere che con tale attributo si intenda descrivere una situazione connotata dalla modifica dello status quo ante di una determinata entità, la quale, però, risulti priva di un'effettiva significatività.

Sul punto appare utile provare a formulare una distinzione avente ad oggetto, da un lato, le conseguenze prettamente naturalistiche inerenti la predetta modificazione e, dall'altro, gli effetti di natura giuridica ad essa conseguenti.

Si potrebbe difatti supporre che una determinata condotta umana produca una conseguenza che incida su una specifica res, la quale, pur non alterandone significativamente la natura, l'essenza, l'aspetto e la funzionalità, comunque implichi una (seppur lieve) modificazione dello status quo ante. Al contempo, potrebbe ritenersi che una siffatta conseguenza risulterebbe inidonea ad assumere rilevanza anche da un punto di vista giuridico, in quanto malgrado l'avvenuta (lieve) modificazione della realtà materiale, si tratterebbe di un effetto immeritevole di un'apposita protezione da parte dell'ordinamento giuridico, in ragione di un'opera di bilanciamento di valori posta in essere, a monte, dall'organo legislativo e, a valle, dall'organo giudicante.

Una simile conclusione acquisirebbe ancor più pregnanza in ambito penale, poiché, in osservanza dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, la comminatoria della pena e la sua conseguente inflizione da parte del giudice appaiono necessariamente subordinate ad una verifica in ordine all'esistenza di un fatto che risulti, dapprima a livello astratto e, successivamente, anche a livello concreto, portatore di uno specifico disvalore, in quanto idoneo ad oltrepassare la soglia della necessaria offensività che, sulla scorta di un'interpretazione costituzionalmente orientata del sistema penalistico, si configura quale requisito immanente ai fini della corretta applicazione della legge penale.

Per altro verso, l'aggettivo ‘esiguo', che figura nella gamma degli elementi costitutivi delineati dall'art. 131-bis c.p. – potendosi in tal modo riscontrare un allineamento in rapporto al contenuto di talune disposizioni normative preesistenti, ove già risultava tipizzata la predetta componente aggettivata – àncora la sua etimologia nell'aggettivo latino exiguus, che abitualmente viene tradotto mediante il ricorso al termine ‘modesto', ovvero alle locuzioni ‘di scarso valore', ‘di scarsa entità'.

In sostanza, appare possibile affermare che il termine esiguo, utilizzato in combinato disposto col vocabolo conseguenza o, più opportunamente, col termine danno, sia deputato a rappresentare una situazione fattuale che si connoti per una variatio in peius dello status quo ante di una determinata entità, la quale implichi, anzitutto, una modificazione della realtà materiale, causalmente discendente dal comportamento posto in essere da un determinato soggetto e, conseguentemente, veda altresì conferita alla variazione peggiorativa una rilevanza giuridica.

Ed anche in tal caso si pone l'interrogativo in ordine alla tipologia di tutela che debba essere riconosciuta in favore del soggetto danneggiato, vale a dire se debba optarsi per la previsione della sanzione penale, ovvero, se in attuazione del principio di sussidiarietà, la riparazione del danno possa sufficientemente essere garantita da differenti strumenti di tutela, quali, ad esempio, quelli offerti dall'ordinamento civilistico.

La scelta operata dal legislatore con l'introduzione dell'art. 131-bis appare, a tutti gli effetti, orientarsi in tale seconda direzione, in ragione dell'inclusione del requisito della ‘esiguità del danno' nella sfera delle componenti che legittimino la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Di tal che risulta evidente come, in una simile ipotesi, si assista all'effettiva concretizzazione del principio del diritto penale quale extrema ratio dell'ordinamento giuridico, nel senso che l'operatività della manus punitiva detenuta dal potere statuale risulta subordinata al superamento di una soglia minima di aggressione al bene oggetto di tutela, posto che un'aggressione produttiva di un pregiudizio di modesta entità non risulterebbe idonea a legittimare l'inflizione della pena, in quanto eccessivamente sproporzionata in rapporto alla gravità del pregiudizio concretamente patito dal danneggiato.

Alla luce delle riflessioni che precedono appare pertanto possibile operare una classificazione in ordine alle conseguenze che possano prodursi in seno alla sfera giuridica di un determinato soggetto a seguito del comportamento posto in essere da taluno, facendo ricorso ad un criterio che rispecchi un climax crescente in ordine alla gravità degli effetti concretamente prodottisi.

In prima analisi viene in rilievo l'ipotesi in cui la realizzazione di un comportamento umano non produca alcun effetto negativo nella sfera giuridica dei terzi, in quanto non si assista ad alcuna variazione di carattere naturalistico, né tantomeno ad alcuna modifica giuridicamente rilevante. In tal caso, pertanto, l'ordinamento si astiene da qualsivoglia forma di reazione, non avvertendosi la necessità di offrire strumenti di tutela in ragione dell'assenza di alcuna forma di pregiudizio.

In secondo luogo assume, invece, rilevanza il caso in cui un comportamento umano risulti causalmente idoneo alla produzione di una variazione naturalistica che attinga la sfera giuridica di un terzo, conducendo ad un mutamento peggiorativo di essa, il quale, però, per la natura e le caratteristiche che lo contraddistinguono, assuma i connotati della impercettibilità o, quantomeno, della insignificatività in rapporto al valore complessivo o alla funzionalità del bene aggredito. Conseguentemente, un simile effetto non appare allocabile nella sfera degli eventi pregiudizievoli a cui l'ordinamento appresti una tutela mediante la previsione della più gravosa delle sanzioni, potendo al più residuare forme di tutela extrapenalistica al cui ricorso, peraltro, lo stesso soggetto danneggiato potrebbe rinunciarvi, in ragione di una valutazione di natura soggettiva volta a ponderare il rapporto tra i costi ed i benefici derivanti dall'effettiva azionabilità di uno degli strumenti di tutela, proprio in ragione della natura pressoché impercettibile del pregiudizio patito.

Infine, viene in rilievo l'ipotesi in cui una condotta umana cagioni una variatio in peius nell'altrui sfera giuridica, producendo un pregiudizio che nonostante non assurga ad una compromissione totale del valore o della funzionalità del bene, ad ogni modo disveli una traccia della sua esistenza, percettibile sia da un punto di vista naturalistico, assolvendo in tal modo al ruolo di oggetto della valutazione, ma rilevante altresì da un punto di vista giuridico, poiché la mutatio naturalistica assume la fisionomia di un danno giuridicamente rilevante, pur se di dimensioni esigue, a vantaggio del quale l'ordinamento appresta forme di tutela, operandosi in tal guisa una traslazione sul terreno della valutazione dell'oggetto, posta in essere dal medesimo ordinamento, che per l'appunto conduce a conferire alla conseguenza naturalistica l'essenza di un danno contra ius.

L'interrogativo che sorge attorno a tale ultima categoria di effetto pregiudizievole concerne l'individuazione dell'apposito strumento di tutela utilizzabile al fine di ristorare il pregiudizio patito dal danneggiato. Sul punto, appare evidente come in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 131-bis c.p., anche siffatta tipologia di pregiudizio, ove idonea ad integrare un fatto tipico, ben avrebbe potuto condurre all'inflizione della sanzione penale, previa modulazione, da parte dell'organo giudicante, del quantum concretamente irrogabile sulla scorta dei parametri enucleati dall'art. 133 c.p., con particolare riferimento alla componente normativa di cui al comma 1, n. 2, ove si menziona la gravità del danno.

Di contro, alla luce dell'innesto nel tessuto codicistico della causa di non punibilità di cui si discorre, si è assistito ad un mutamento delle conseguenze giuridiche derivanti dalla produzione di un danno di tale natura, in quanto, ove ricorrano gli ulteriori presupposti tipizzati dall'art. 131-bis, dovrebbe pervenirsi alla espunzione del comportamento che abbia generato il pregiudizio di esigua entità dai fatti sanzionabili penalmente. Al tempo stesso, al fine di non creare una zona franca caratterizzata da un vuoto di tutela a detrimento del soggetto danneggiato, appare evidente come siffatta tipologia di pregiudizio ben potrebbe trovare un apposito ristoro in territori extrapenalistici, in particolare attraverso l'azionabilità degli strumenti, anche di natura processuale, predisposti dall'ordinamento civilistico.

Una simile conclusione sembrerebbe peraltro obbligata ove si esperisca un raffronto con l'ipotesi in cui il pregiudizio arrecato assuma le vesti di un danno irrisorio, in quanto laddove l'ordinamento opti per garantire una tutela a siffatta tipologia di pregiudizio, a fortiori non potrebbe negarsi eguale, se non più intensa, protezione anche al soggetto che patisca un danno classificabile nella sfera dei pregiudizi di entità esigua.

Corollario delle argomentazioni che precedono è rappresentato dal fatto che, alla luce sia delle differenze di carattere naturalistico concernenti le tipologie di pregiudizi concretizzabili nella realtà materiale, sia sulla scorta dei differenti parametri normativi presenti nel nostro ordinamento, può ritenersi sussistente una articolazione delle differenti tipologie di danno che risulti ancorata ad una concezione gradualistica, potendosi far ricorso alla figura metaforica della piramide, alla cui base andrebbe allocato il danno irrisorio, mentre in posizione intermedia dovrebbe ubicarsi il danno esiguo. In tali porzioni della piramide risulterebbe precluso l'accesso alla sanzione penale, in ragione dell'eccessiva severità trattamentale che ne discenderebbe nei confronti del danneggiante.

Viceversa, terreno d'elezione per l'effettiva operatività di siffatto strumento sanzionatorio risulterebbe rappresentato dal vertice piramidale, nel cui alveo dovrebbero racchiudersi quei comportamenti produttivi di danni che oltrepassino la soglia non solo della irrisorietà, ma altresì della esiguità e, al tempo stesso, in ossequio al principio di frammentarietà che permea la materia penalistica, si atteggino alla stregua di una componente di un più ampio fatto umano che risulti idoneo ad integrare un illecito penale.

Sulla base di quanto sinora illustrato, appare pertanto condivisibile la soluzione formulata all'interno della pronuncia annotata, ove si perviene a riscontrare l'esistenza di una violazione di legge posta in essere dai giudici di merito, in ragione dell'aver fondato il diniego dell'applicazione dell'art. 131-bis c.p. sulla circostanza che il danno arrecato dall'imputata ai condomini non potesse ritenersi irrisorio.

Sul punto, l'argomentazione formulata dai giudici di legittimità risulta convincente, in quanto, dopo aver osservato come l'irrisorietà non rappresenti un elemento costitutivo della fattispecie ex art. 131-bisc.p., si precisa come l'esclusione dalla sfera dei danni irrisori dello specifico pregiudizio prodottosi nella realtà materiale non possa condurre, in via automatica, ad escludere l'operatività della causa di non punibilità, in ragione del fatto che, sulla base di quella che poc'anzi abbiamo definito ‘concezione gradualistica' delle conseguenze pregiudizievoli realizzabili dall'agere umano, un danno non irrisorio ben potrebbe essere ricondotto nella sovraordinata sfera del danno esiguo, con la sua conseguente irrilevanza per la materia penale, senza dover necessariamente attingere ad un livello superiore, oltrepassato il quale la sanzione penale riacquisirebbe linfa operativa.

Parallelamente a tali considerazioni di carattere teorico può rilevarsi come, con specifico riferimento alla vicenda processuale oggetto della sentenza qui annotata, la scelta operata dai giudici di merito nel senso di ritenere non irrisorio il pregiudizio patito dai soggetti danneggiati, non sembra convincere proprio in ragione della circostanza che il bene deteriorato appartenesse ad una pluralità di individui, dal momento che si trattasse di un bene di natura condominiale, con la conseguenza che l'ammontare del danno complessivo sarebbe stato successivamente sottoposto ad una ripartizione in capo ai singoli condomini, in modo da potersi presumere un ridimensionamento dell'incidenza del pregiudizio sulla sfera patrimoniale di ciascuno dei soggetti facenti capo al condominio.

In via conclusiva meritano di essere esperite talune osservazioni ulteriori che permettano di corroborare il giudizio positivo sin qui espresso nei confronti della pronuncia annotata.

Difatti, come ampiamente rilevato, la sentenza emessa dalla II Sezione della Corte di cassazione ha concluso un procedimento penale avente ad oggetto la contestazione di un fatto di deterioramento di un bene altrui, riconducibile nel paradigma punitivo previsto in materia di danneggiamento dall'art. 635 c.p.. Come noto, in attuazione della delega conferita dall'art. 2, comma 3, l. 28 aprile 2014, n. 67, attraverso l'art. 2, comma 1, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il legislatore ha proceduto ad una depenalizzazione dei fatti di danneggiamento disciplinati dal previgente primo comma dell'art. 635, per i quali si prevedeva la sanzione della reclusione fino ad un anno ovvero la multa fino ad euro 309. Conseguentemente, il residuo ambito della rilevanza penale concerne esclusivamente quei fatti di danneggiamento originariamente disciplinati dal secondo comma del previgente art. 635 alla stregua di circostanze aggravanti dell'ipotesi base contemplata dal primo comma (ormai abrogato) della medesima disposizione incriminatrice.

Poste tali basi, deve anzitutto rilevarsi che, con specifico riferimento alla vicenda oggetto di giudizio, non si disponga di elementi sufficienti al fine di comprendere se il fatto di danneggiamento contestato all'imputata – evidentemente commesso sotto il vigore del previgente art. 635 c.p. – fosse riconducibile all'ipotesi base disciplinata dal primo comma o, se al contrario, integrasse taluna delle previsioni delineate dal secondo comma in virtù del ricorrere di una o più figure circostanziali.

Formulando un ragionamento di natura ipotetica e supponendo che l'oggetto della contestazione fosse rappresentato dall'ipotesi base di cui al primo comma del previgente art. 635 c.p., si sarebbe dovuti pervenire alla conclusione in ordine all'avvenuta perdita di rilevanza penale del predetto comportamento, con conseguente pronuncia di proscioglimento mediante il ricorso alla formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

In tal modo avrebbe perso di significato qualsiasi disquisizione in ordine all'applicabilità dell'art. 131-bis, poiché ci si sarebbe trovati al cospetto di una fattispecie in cui sarebbe stato lo stesso legislatore ad operare, in astratto, una valutazione in ordine alla non meritevolezza di pena di determinati comportamenti umani, con la loro conseguente inidoneità ad integrare un fatto di reato.

Al contempo deve osservarsi come appaia innegabile che ove il fatto storico integrasse un'ipotesi non aggravata di danneggiamento, i giudici di legittimità e, ancor prima, gli stessi giudici di merito sarebbero dovuti pervenire a pronunciare una sentenza di proscioglimento in ragione dell'avvenuta depenalizzazione. Pertanto, dato il differente esito processuale, appare ragionevole supporre, pur, come già accennato, non disponendo di elementi sufficienti per pervenire ad una statuizione certa, che il capo d'imputazione elevato nei confronti della ricorrente concernesse un fatto di danneggiamento originariamente aggravato ai sensi del previgente art. 635, comma 2, c.p. e, alla luce del dato normativo vigente, a mente del primo comma del medesimo articolo, potendosi ad esempio ipotizzare come il portoncino condominiale leso dall'imputata fosse appartenuto ad un ‘immobile compreso nel perimetro dei centri storici' ovvero avesse riguardato un immobile ‘i cui lavori di costruzione, di ristrutturazione, di recupero o di risanamento fossero in corso o risultassero ultimati', ritenendosi così integrata l'ipotesi aggravata prevista dal n. 1) del secondo comma.

E ancora, da ultimo, si potrebbe supporre che nei confronti dell'imputata si fosse pervenuti a contestare l'ipotesi di danneggiamento aggravato, ricorrendo la figura menzionata dal medesimo n. 1 dell'attuale secondo comma, ove si richiama espressamente la disciplina dettata dall'art. 625, n. 7, c.p., qualora si fosse ritenuto che la res aggredita dall'imputata fosse consistita nel vetro del portone condominiale, ritenendosi in tal modo integrata l'aggravante delle ‘cose esposte per necessità alla pubblica fede'.

Ciò posto, al di là di tali considerazioni, che sono peraltro costrette ad operare sul terreno della ipoteticità, deve concludersi nel senso che le conclusioni formulate dalla pronuncia annotata appaiano sufficientemente persuasive, in specie per la loro capacità di restaurare la legalità violata in sede di merito ed altresì per l'illustrazione delle differenze contenutistiche intercorrenti tra le diverse categorie di danno, al fine di garantire il corretto operare delle disposizioni di legge, in specie ove si tratti di fattispecie improntate al favor rei, la cui sfera di applicazione non appare idonea a tollerare indebite compressioni frutto di un'attività interpretativa improntata ad un canone di creatività, che mal si concilia con i principi che sorreggono l'ordinamento penalistico.

Guida all'approfondimento

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GIACONA, La nuova causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), tra esigenze deflattive e di bilanciamento dei principi costituzionali, in Ind. pen., 2016, 1, 38 ss.

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