D.lgs. 14/2019. Come cambiano le disposizioni penali nel nuovo codice della crisi d'impresa

Ciro Santoriello
06 Marzo 2019

Come è noto, il d.lgs. 14/2019 che ha interamente riscritto la disciplina in tema di procedure concorsuali ha dedicato al versante penalistico della materia un'attenzione pressoché nulla o comunque di scarso rilievo. Accanto ad alcune disposizioni che modificano solo la formulazione letterale delle disposizioni incriminatrici presenti nel r.d. 267 del 1942 prossimo all'abrogazione...
Abstract

Come è noto, il d.lgs. 14/2019 che ha interamente riscritto la disciplina in tema di procedure concorsuali ha dedicato al versante penalistico della materia un'attenzione pressoché nulla o comunque di scarso rilievo. Accanto ad alcune disposizioni che modificano solo la formulazione letterale delle disposizioni incriminatrici presenti nel r.d. 267 del 1942 prossimo all'abrogazione, compare una previsione in tema di trattamento sanzionatorio da riservare a imprenditori la cui condotta non abbia determinato conseguenze particolarmente deleterie per gli interessi dei creditori, nonché alcuni articoli diretti a coordinare lo svolgimento della procedura di risoluzione della crisi con la sottoposizione del medesimo patrimonio aziendale (se non dell'intera azienda) ad altri procedimenti o vincoli determinati dall'adozione di provvedimenti dell'autorità giudiziaria (in particolare il riferimento è al contestuale svolgimento della procedura di insolvenza e la sottoposizione dell'impresa ad una misura di prevenzione).

Fonte: ilFallimentarista.it

La nuova sedes materiae della disciplina penale fallimentare e la modifica letterale delle disposizioni in tema di bancarotta

Iniziando l'esame delle novità della riforma inerenti la materia penale, va in primo luogo sottolineata la nuova sedes della disciplina della bancarotta e degli altri reati fallimentari, la quale oggi è contenuta nel Titolo IX del nuovo Codice, dedicato alle “Disposizioni penali” (artt. 322-347), anche se i processi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto in esame (nonché le relative procedure aperte innanzi al tribunale fallimentare) continuano ad essere pienamente disciplinate da quanto previsto nel r.d. 267 del 1942 (cfr. art. 389 del codice della crisi).

In secondo luogo, sotto un profilo meramente letterale, occorrerà abituarsi a declinare, anche nell'ambito del diritto penale, in luogo dei concetti di fallito e fallimento quello di liquidazione giudiziale (procedura che conserva nella sostanza le caratteristiche essenziali di quella fallimentare), sicché alle espressioni che comparivano nelle imputazioni formulate nella vigenza della precedente disciplina - “imprenditore dichiarato fallito” o “amministratore di società dichiarata fallita” – subentreranno quelle di “imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale” o “amministratore di società dichiarata in liquidazione giudiziale “.

È da escludere che tanto la novità rappresentata dal diverso testo normativo in cui è contenuto il diritto penale della crisi d'impresa, quanto la circostanza che alla nozione di fallimento subentri quella di liquidazione giudiziale, possa dar luogo ad un fenomeno di abrogazione della precedente disciplina incriminatrice, trattandosi per entrambi i profili “di un'operazione neutra sulla fisionomia delle fattispecie di bancarotta, che continuano a necessitare dell'apertura della procedura concorsuale per arrivare a completa integrazione o che, rispetto alla liquidazione giudiziale, devono essere causalmente efficienti” (CHIARAVIGLIO, Osservazioni penalistiche ‘a prima lettura' sul progetto di codice della crisi e dell'insolvenza, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10 maggio 2018). In questo senso, si sono espressi tanto il legislatore delegante (art. 2, comma 1, lett. a), l. 155 del 2017 secondo cui «ferma la continuità delle fattispecie criminose nel testo dell'emanando Codice il termine fallimento ed i suoi derivati andavano sostituiti con l'espressione liquidazione giudiziale»), che il Governo (cfr. la Relazione illustrativa al nuovo codice della crisi secondo cui «è garantita di fatto continuità normativa, non contenendo la delega disposizioni che autorizzassero modifiche di natura sostanziale al trattamento penale riservato alle condotte di bancarotta e alle altre condotte contemplate oggi dal titolo sesto della legge fallimentare»), anche se in dottrina non sono mancate voci che hanno avanzato qualche perplessità (GAMBARDELLA, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 27 novembre 2018, che richiama l'esito delle sezioni unite con riferimento alla abolizione dell'amministrazione controllata - Cass. S.U. 26 febbraio 2009, n. 24468 – secondo cui l'abrogazione di tale procedura e la soppressione di ogni riferimento alla stessa contenuto nella legge fallimentare determinavano la totale abolizione del reato di bancarotta societaria connessa alla suddetta procedura concorsuale).

Va tuttavia evidenziata una ulteriore modifica, che potrebbe sembrare di maggior rilievo rispetto a quelle su cui fino ad ora ci si è soffermati. Come è noto, l'art. 223, comma 2 nn. 1 e 2, punisce gli amministratori, i sindaci, i direttori generali ed i liquidatori che, con varie modalità, cagionino il fallimento della società; dopo la riforma, tale fattispecie incriminatrice è stata parzialmente riscritta, laddove in luogo dell'espressione “fallimento” compare la nozione di “dissesto” sicché appunto è il dissesto (e non più il fallimento) ad essere l'esito finale della condotta dei dirigenti dell'impresa. Anche in tale circostanza però le conseguenze di tale modifica sono di scarso rilievo: da sempre infatti la giurisprudenza (Cass., Sez. V, 30 marzo 2016, n. 12793; Cass., Sez. V, 9. ottobre 2014, n. 42272) ha ritenuto che l'espressione “fallimento” che compare nel comma secondo del citato art. 223 vada intesa non come riferita alla pronuncia giudiziaria che apre la procedura concorsuale (evento rispetto al quale, trattandosi di una sentenza, non è ipotizzabile attribuire efficace causale al comportamento del singolo) bensì allo stato di crisi dell'azienda (il dissesto economico appunto), il quale viene appunto cagionato da condotte delittuose dell'amministratori o altri soggetti apicali.

Abrogazioni e nuove fattispecie

Quanto alle modifiche contenutistiche della precedente disciplina penale, sono stati abrogati:

  • l'art. 221 legge fallimentare, chiaramente inconferente rispetto alla disciplina del processo penale in vigore dal 1988 posto che la norma prevedeva che in caso di applicazione del rito sommario nel fallimento, le pene per la bancarotta, il ricorso abusivo al credito e la denuncia di creditori inesistenti fossero ridotte di un terzo
  • l'art. 235 relativo all'omessa trasmissione dell'elenco dei protesti cambiari al presidente del tribunale, obbligo non più in vigore
  • il delitto di omissione di beni dell'inventario nella domanda di liquidazione di cui all'art. 14 della vigente legge n. 3 del 2012, sul sovraindebitamento).

Sono state poi introdotte alcune nuove fattispecie di reato e in particolare:

  • l'art. 344, comma 2, del Codice della crisi sanziona il debitore incapiente che, per accedere all'esdebitazione produce documenti falsi o contraffatti o distrugge quelli che permettono la ricostruzione della propria situazione debitoria.
  • l'art. 345 del medesimo testo normativo sanziona le falsità nelle attestazioni dei componenti degli organismi di composizione della crisi (OCRI) relative ai dati aziendali del debitore che voglia presentare domanda di concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti. Si noti tuttavia che la novità di tale previsione incriminatrice è solo apparente posto che, per espressa indicazione presente nella relazione illustrativa al testo in commento, tale disposizione è modellata su quella dell'art. 342 (falsità in attestazioni per l'accesso al concordato) che, a sua volta, riproduce il contenuto dell'art. 236-bis (falso in attestazioni e relazioni) R.D. n. 267 del 1942.
Le misure premiali: l'art. 25, comma 2, del codice della crisi

Un elemento di sicuro impatto della prospettata riforma è rappresentato dall'introduzione di una causa di non punibilità per i più rilevanti reati fallimentari. Il comma 2 dell'art. 25 del Codice dispone che “quando nei reati di cui agli articoli 322, 323, 325, 328, 329, 330, 331, 333 e 341, comma 2, lettere a) e b) [ovvero, tutte le fattispecie di bancarotta, il ricorso abusivo al credito, i reati dell'institore, i reati commessi in sede di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione], limitatamente alle condotte poste in essere prima dell'apertura della procedura, il danno cagionato è di speciale tenuità, non è punibile chi ha tempestivamente presentato l'istanza all'organismo di composizione assistita della crisi d'impresa ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui al presente codice se, a seguito delle stesse, viene aperta una procedura di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo ovvero viene omologato un accordo di ristrutturazione dei debiti”.

A prescindere dalle ragioni che giustificano l'introduzione di tale previsione (su cui, CHIARAVIGLIO, Osservazioni penalistiche, cit., 8), pare di poter ritenere che la portata applicativa della disposizione sarà assai esigua e comunque assai complessa pare l'individuazione dei relativi presupposti. In primo luogo, occorre che il debitore si sia mosso tempestivamente – ovvero l'istanza di composizione o di altra procedura concorsuale sia presentata entro tre mesi (sei mesi per le altre procedure concorsuali) dal verificarsi di una delle tre condizioni previste dal precedente art. 24 del Codice: tuttavia, non si comprende su che basi possa valutarsi il momento in cui l'imprenditore è venuto a conoscenza della condizione di crisi della sua azienda e quindi su quali basi giudicare della tempestività o meno dell'iniziativa.

In secondo luogo, alla luce di quella che è la giurisprudenza in tema di riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 219, comma 3, R.D. n. 267 del 1942 (Cass. sez. V, 16 aprile 2015, n. 15976; Cass. sez. V, 24 aprile 2015, n. 17351) pare di poter sostenere che la circostanza del danno di particolare tenuità (alla cui ricorrenza è subordinato il riconoscimento del beneficio della causa di non punibilità) sarà rinvenuta assai di rado dall'autorità giudiziaria.

Tale conclusione risulta confermata anche alla luce di quanto dispone il secondo periodo dell'art. 25, comma 2, in commento, che prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale disponendo che “fuori dai casi in cui risulta un danno di speciale tenuità, per chi ha presentato l'istanza o la domanda la pena è ridotta fino alla metà quando, alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza, il valore dell'attivo inventariato o offerto ai creditori assicura il soddisfacimento di almeno un quinto dell'ammontare dei debiti chirografari e, comunque, il danno complessivo cagionato non supera l'importo di 2.000.000 euro”. Come si vede, dunque, secondo il legislatore il danno patrimoniale è lieve (ma non di particolare tenuità e quindi comunque punibile) nel caso in cui «all'apertura della procedura concorsuale il valore dell'attivo inventariato od offerto ai creditori superi il quinto dell'ammontare dei debiti»; in tale ipotesi, dunque, in cui le conseguenze nefaste della condotta dell'imprenditore non sono certo significative, il debitore rimane comunque punibile sia pure avendo diritto all'applicazione di una speciale attenuante (con, appunto, diminuzione della sanzione ma non riconoscimento della causa di non punibilità dei fatti), con il che è da ritenere che il beneficio di cui alla prima parte del comma primo dell'art. 25 in commento potrà essere concesso in casi davvero di rarissima verificazione.

I rapporti fra procedura concorsuale e le misure cautelari nel procedimento antimafia

Assai opportunamente il legislatore ha ritenuto di dover disciplinare alcuni aspetti inerenti i rapporti fra procedure concorsuali e le misure cautelari reali che possono essere assunte nell'ambito del procedimento penale o nel procedimento di prevenzione antimafia di cui alla legge n. 159 del 2011, misure cautelari la cui adozione non di rado influisce sull'attività di liquidazione dell'attivo propria della procedura concorsuale.

La normativa è contenuta nel titolo VIII, agli artt. 317-321, del codice della crisi, che dettano una disciplina radicalmente diversa a seconda che il provvedimento cautelare sia assunto nell'ambito di una procedura di prevenzione o di un procedimento penale.

Con riferimento a tale seconda ipotesi (cfr. artt. 318, 319 e 320), il principio è che le ipotesi in cui i provvedimenti ablatori del sequestro preventivo e conservativo possono essere assunti nei confronti di beni del debitore sono assolutamente residuali dovendosi riconoscere assoluta prevalenza alle ragioni e finalità della procedura. Ed infatti:

  • per quanto riguarda il sequestro preventivo, limitate sono le possibilità di intervento del giudice penale giacché
    • se la procedura è aperta, è consentito l'adozione del vincolo stesso solo con riferimento ai beni del debitore la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione non costituisca reato e salvo che la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa, nonché ai beni non suscettibili, secondo quanto dispone l'art. 146 del Codice della crisi, di essere sottoposti a liquidazione giudiziale. In ogni altro caso, dunque, i beni del debitore debbono rimanere a disposizione della procedura concorsuale;
    • quando invece i beni sono già sottoposti a sequestro preventivo prima dell'apertura della procedura, il giudice, a richiesta del curatore, revoca il decreto di sequestro e dispone la restituzione delle cose in suo favore. In proposito, il successivo comma 3 dell'art. 317 prevede che nel caso in esame “il curatore comunica all'autorità giudiziaria che aveva disposto o richiesto il sequestro, la dichiarazione dello stato di insolvenza e di apertura della procedura della liquidazione giudiziale, il provvedimento di revoca o chiusura della liquidazione giudiziale, nonché l'elenco delle cose non liquidate e già sottoposte a sequestro”;
  • per quanto riguarda invece il sequestro conservativo, tale provvedimento non ha alcuna possibilità di applicazione, giacché lo stesso non può essere disposto se la procedura di liquidazione giudiziale è aperta, mentre se l'apertura della stessa è successiva all'adozione dello stesso opera il divieto di prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari individuali di cui all'art. 150 del Codice, sicché il giudice (anche qui si ripresenta il dubbio circa il soggetto competente), a richiesta del curatore, revoca il sequestro conservativo e dispone la restituzione delle cose in suo favore.

Vi sono, poi, anche alcune norme mirate a conferire al curatore la possibilità di esperire rimedi giurisdizionali contro i sequestri preventivi eventualmente adottati nei confronti di beni compresi nell'attivo della procedura. L'art. 320 stabilisce che il curatore è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro, preventivo o conservativo, contro il diniego di declaratoria di inefficacia, che – come si è appena visto – il curatore può richiedere in relazione ai beni sequestrati prima dell'apertura della dichiarazione. Viene così meno l'insegnamento delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 17 marzo 2015, n. 11170), secondo cui il curatore non può impugnare un sequestro di beni compresi nell'attivo fallimentare perché non potrebbe agire in rappresentanza dei creditori concorsuali.

Come si vede, la riforma è decisamente diretta a porre al riparo i beni della procedura dall'attività degli organi inquirenti che, molto frequentemente, finisce per privilegiare le esigenze di sequestro e confisca a discapito dei creditori concorsuali, i quali, prima dell'innovazione in commento, erano di fatto gli incolpevoli destinatari della misura cautelare (BONTEMPELLI, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, in Arch. pen., 2015, n. 3, 1; SANTORIELLO, Procedura fallimentare e responsabilità degli enti: un rapporto ancora problematico, in Riv. Resp. Amm. Enti, 3 – 2015, 123).

Assolutamente diversa, invece, ed ispirata all'opposto principio della prevalenza della procedura di prevenzione è la disciplina in tema di rapporti fra liquidazione giudiziale e provvedimenti di sequestro assunti ai sensi del d.lg. n. 159 del 2011 in combinato disposto con la previsione di cui all'art. 104-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale. Il comma 1 dell'art. 217, infatti, dispone che “le condizioni e i criteri di prevalenza rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall'articolo 142 sono regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159 [ovvero il codice antimafia]”.

In proposito si ricorda che ai sensi dell'art. 63 del citato decreto 2001, in caso di dichiarazione di fallimento successiva al sequestro (fallimento che può essere richiesto dallo stesso pubblico ministero su segnalazione dell'amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti), i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare, mentre la verifica dei crediti e dei diritti inerenti ai rapporti relativi ai suddetti beni viene svolta dal giudice delegato del tribunale di prevenzione. Se nella massa attiva del fallimento sono ricompresi esclusivamente beni già sottoposti a sequestro, il tribunale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, dichiara chiuso il fallimento. Di contro, in caso di revoca del sequestro o della confisca, il curatore procede all'apprensione dei beni e il giudice delegato al fallimento procede alla verifica dei crediti e dei diritti in relazione ai beni per i quali è intervenuta la revoca del sequestro o della confisca.

In caso di sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento, l'art. 64 prevede che il giudice delegato al fallimento, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dispone con decreto non reclamabile la separazione di tali beni dalla massa attiva del fallimento e la loro consegna all'amministratore giudiziario ed i crediti e i diritti inerenti ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, ancorché già verificati dal giudice del fallimento, sono ulteriormente verificati dal giudice delegato del tribunale di prevenzione. Se il sequestro o la confisca di prevenzione hanno per oggetto l'intera massa attiva fallimentare ovvero, nel caso di società di persone, l'intero patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili, il tribunale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, dichiara la chiusura del fallimento. Infine, se il sequestro o la confisca sono revocati prima della chiusura del fallimento, i beni sono nuovamente ricompresi nella massa attiva.

In ogni caso, ai sensi dell'art. 65, il controllo e l'amministrazione giudiziaria non possono essere disposti su beni compresi nel fallimento e quando la dichiarazione di fallimento è successiva all'applicazione delle misure di prevenzione del controllo ovvero dell'amministrazione giudiziaria, la misura di prevenzione cessa sui beni compresi nel fallimento.

In conclusione

Ancora una volta il legislatore è intervenuto sulla materia fallimentare senza ritenere opportuna né necessaria alcuna modifica delle fattispecie penali, salvo alcuni cambiamenti di scarso rilievo. A differenza di quanto verificatosi in altre occasioni – si pensi ai dubbi originatosi dopo l'abolizione dell'amministrazione controllata -, non pare che il mancato intervento sulla disciplina penalistica sarà prodromico di incertezze e dubbi operative: la radicale riforma della procedura concorsuale infatti non sembra avere riflessi sulle diverse fattispecie incriminatrici di bancarotta.

Al contempo, però, non si può non sottolineare come la riforma del diritto penale fallimentare si palesi sempre più necessaria, come da tempo sostiene la dottrina che, non a caso, parla della figura di reato della bancarotta quale “vetusto arnese” (PIERGALLINI, “Civile” e “Penale” a perenne confronto: l'appuntamento di inizio millennio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1304. Nello stesso senso ROSSI, Illeciti penali nelle procedure concorsuali, in Trattato di diritto penale, Milano, 2014, 8).

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