Associazione mafiosa. La controversa questione della durata delle indagini preliminari nei reati permanenti

Cristina Ingrao
14 Marzo 2019

Nella sentenza in esame, che vede coinvolti 12 imputati accusati, fra gli altri, del reato associativo di cui all'art. 416-bis c.p., la Corte di cassazione affronta importanti questioni giuridiche al fine di decidere i numerosi motivi di ricorso promossi innanzi alla stessa. In particolare, la Suprema Corte si sofferma sul tema degli effetti dell'archiviazione non seguita dalla riapertura delle indagini...
Abstract

Nella sentenza in esame, che vede coinvolti 12 imputati accusati, fra gli altri, del reato associativo di cui all'art. 416-bis c.p., la Corte di cassazione affronta importanti questioni giuridiche al fine di decidere i numerosi motivi di ricorso promossi innanzi alla stessa.

In particolare, la Suprema Corte si sofferma sul tema degli effetti dell'archiviazione non seguita dalla riapertura delle indagini e su quello della durata delle indagini preliminari nei reati permanenti, nonché sulla questione degli effetti connessi alla sentenza assolutoria.

La vicenda

La vicenda in esame trae origine da una ordinanza emessa dal Gip presso il tribunale di Reggio Calabria nel febbraio del 2016, con la quale veniva rigettata la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, avanzata dal P.M. della D.D.A., nei confronti di 24 soggetti, ritenuti partecipi a vario titolo della cosca mafiosa operante nei territorio di Seminara, nonché gravemente indiziati di vari delitti fine.

In particolare, il Gup riteneva che, in relazione alla esistenza e alla operatività della cosca mafiosa S., già affermata da sentenze passate in giudicato, doveva tenersi conto della pronuncia definitiva della Corte di appello di Reggio Calabria (aprile 2013), nell'ambito del c.d. procedimento Artemisia, nel quale venivano assolti alcuni dei 24 imputati di cui sopra dal delitto di associazione di stampo mafioso, commesso in Seminara dal dicembre 2007 al dicembre 2008, ritenendo insufficienti le prove per affermare l'esistenza del gruppo criminale S. in quell'arco temporale operante nella stessa Seminara. Pur dato atto che nel procedimento interessato i fatti contestati riguardavano la partecipazione alla stessa associazione per periodi differenti, antecedenti al dicembre 2007 e successivi al dicembre 2008, e che perciò non sussisteva un immediato effetto di ne bis in idem, nella ordinanza del G.I.P. del tribunale di Reggio Calabria si evidenziava come, oltre a doversi tenere conto del giudicato assolutorio di cui sopra, tutti i reati fine contestati riguardavano o un'epoca antecedente il giudicato assolutorio c.d. Artemisia o condotte che, pur essendo successive allo stesso, non erano idonee a dimostrare l'esistenza perdurante del gruppo criminale. Inoltre, il G.I.P. sottolineava il difetto di esigenze cautelari, per la risalenza dei fatti e tenuto conto della valenza del giudicato assolutorio.

Avverso detta ordinanza proponeva ricorso immediato per cassazione il P.M. presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria e la Suprema Corte, con ordinanza (aprile 2016) convertiva il ricorso in appello cautelare, ex art. 310 c.p.p., trasmettendo gli atti al tribunale del riesame.

Con successiva ordinanza (ottobre 2017) il tribunale della libertà di Reggio Calabria, in funzione di giudice dell'appello cautelare, accoglieva parzialmente il gravame proposto dal P.M. e disponeva la misura degli arresti domiciliari nei confronti di alcuni degli imputati coinvolti. In particolare, secondo il tribunale della libertà sussistevano elementi sufficienti per ritenere operante la cosca mafiosa S. prima del periodo temporale coperto dal giudicato Artemisia; ciò risultava dal contenuto delle verifiche svolte in un procedimento parallelo, c.d. Cosa mia, dal quale emergeva l'esistenza e l'operatività della cosca e la sua capacità di incutere timore.

Quanto alle condotte successive al giudicato del procedimento Artemisia, invece, il tribunale della libertà evidenziava quanto emerso in un altro procedimento, c.d. Grifone, nel corso del quale vari componenti della cosca erano stati accusati di fatti di estorsione, traffico di stupefacenti e di armi. Inoltre, la perdurante operatività della cosca veniva provata da altri elementi, come i colloqui tra indagati e soggetti detenuti e il mantenimento dei rapporti tra i S. ed il F., maresciallo dei carabinieri in pensione.

Avverso detta ordinanza proponevano ricorso per cassazione gli indagati. I motivi di ricorso avanzati sono innumerevoli, così come le questioni giuridiche che vengono sollevate, pertanto, si procederà all'analisi di quelle più significative.

La questione degli effetti dell'archiviazione non seguita dalla riapertura delle indagini e quella della durata delle indagini preliminari nei reati permanenti

Uno degli imputati, C.F., deduceva nel proprio ricorso la violazione dell'art. 606, lett. c) ed e), c.p.p. (norma che disciplina i casi in cui si può ricorrere in Cassazione) in relazione all'art. 414 c.p.p., rubricato Riapertura delle indagini, posto che, a fronte di un decreto di archiviazione avente ad oggetto condotte associative dell'ottobre 2012, non era stato emesso provvedimento di riapertura delle indagini che consentiva di contestare le condotte associative precedenti e, l'ordinanza impugnata, aveva omesso di indicare quali fossero le condotte successive di partecipazione all'associazione criminale sino al 2016 riguardanti specificamente l'imputato; inoltre, contestava la violazione dell'art. 606, lett. c) ed e), c.p.p. con riguardo alla ritenuta gravità indiziaria per il delitto associativo e con riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari sotto il profilo della concretezza ed attualità; infine, veniva contestata l'esclusione dell'aggravante di cui all'art. 7 della l. 203/1991.

Con riguardo ai suddetti motivi di gravame, la Suprema Corte ritiene il primo motivo di ricorso proposto fondato. In relazione allo stesso vengono affrontate e risolte due interessanti questioni giuridiche da parte della Suprema Corte: la prima attiene al vincolo costituito dal decreto di archiviazione, la seconda, invece, concerne il tema della durata delle indagini preliminari nei reati permanenti.

In particolare, in materia di vincolo costituito preliminarmente dal decreto di archiviazione va innanzitutto ricordata la giurisprudenza della Corte costituzionale. La stessa, infatti, con la sentenza n. 27 del 19 gennaio 1995, ha affrontato la questione, sottoposta al suo scrutinio, concernente la dedotta violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) a causa dell'articolazione dell'art. 555 c.p.p. (nella formulazione all'epoca vigente), in relazione all'art. 414 c.p.p., laddove «[...] non consente di rilevare o eccepire la nullità dei decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari». Secondo il remittente la disposizione risultava sfornita di sanzione processuale per il caso in cui il P.M. avesse esercitato l'azione penale senza autorizzazione ex art. 414 c.p.p., dovendosi ritenere insufficiente la sanzione della inutilizzabilità degli atti di indagini, posto che non potrebbe esplicare effetto paralizzante sull'atto di esercizio dell'azione penale in mancanza di una esplicita previsione di nullità (art. 177 c.p.p.).

A fronte di questa prospettazione, la Corte costituzionale, dichiara infondata la questione dedotta, sottolineando come l'art. 414 c.p.p., subordinando la riapertura del procedimento concernente un fatto in precedenza oggetto di archiviazione al provvedimento del giudice, ha attribuito una efficacia preclusiva al decreto di archiviazione, nella misura in cui, in difetto del provvedimento del giudice, l'eventuale esercizio dell'azione penale è impedito. La Corte costituzionale, in altri termini, ritiene che in detta ipotesi, come in ogni ipotesi di preclusione, è la instaurabilità di un nuovo procedimento (in termini di procedibilità) ad essere impedita, secondo un meccanismo riferibile all'istituto del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.), mutuabile anche, quanto ad effetti, alla sentenza di non luogo a procedere, in assenza della revoca di cui agli artt. 434 ss. c.p.p.

Tale principio di diritto è stato ripreso anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza Finocchiaro (Cass. pen., Sez. unite, 22 marzo 2000,n. 9), nella quale si afferma che una volta disposta, al di fuori dei casi indicati nell'art. 345 c.p.p., l'archiviazione di una notizia di reato, non è consentito al P.M. chiedere e al Gip valutare, senza il preventivo provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, exart. 414 c.p.p., l'applicazione di una misura cautelare o l'emissione di un altro provvedimento implicante l'attualità di un procedimento investigativo nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto, si fondi la relativa richiesta su una semplice rilettura di elementi già presenti negli atti archiviati o su elementi acquisiti dopo l'archiviazione. Ed invero, il decreto di archiviazione, pur non essendo dotato dell'autorità di cosa giudicata, è comunque caratterizzato da un'efficacia preclusiva, benché limitata, operante sia con riferimento al momento dichiarativo della carenza di elementi idonei a giustificare il proseguimento delle indagini, sia riguardo al momento della loro riapertura, condizionata dal presupposto dell'esigenza di nuove investigazioni, che rappresenta per il giudice parametro di valutazione da osservare nella motivazione della decisione di cui all'art. 414 c.p.p.

Gli argomenti così sviluppati vengono poi ulteriormente approfonditi dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Giuliani (Cass. pen., Sez. unite, 24 giugno 2010,n. 33885), secondo cui il difetto di autorizzazione alla riapertura delle indagini determina l'inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione e, per tale via, preclude l'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto di reato, da parte dello stesso ufficio del pubblico ministero.

In applicazione di tali principi e con riferimento più specificamente al reato di cui all'art. 416-bis c.p., con più interventi, la Suprema Corte ha affermato come nell'ipotesi di reato permanente (nella specie quello di associazione di stampo mafioso) l'archiviazione non seguita dalla autorizzazione alla riapertura delle indagini non preclude lo svolgimento di nuove investigazioni con riguardo allo stesso illecito con riferimento ai comportamenti successivi a quelli oggetto del provvedimento di archiviazione, con eventuale applicazione di una misura cautelare per tali fatti ulteriori (Cass. pen., Sez. II, 19 gennaio 2017, n. 147771). Inoltre, in tali casi, la sanzione di inutilizzabilità derivante dalla violazione dell'art. 414 c.p.p. colpisce solo gli atti che riguardano lo stesso fatto oggetto dell'indagine conclusa con il provvedimento di archiviazione, e non anche fatti diversi o successivi, benché collegati con i fatti oggetto della precedente indagine (Cass. pen., Sez. V, 14 maggio 2015,n. 43663).

La Suprema Corte, poi, nella sentenza in commento, coglie l'occasione per affrontare il tema della durata delle indagini preliminari nei reati permanenti. Tali sono quelli in cui il reato si perfeziona nel momento in cui si realizza la condotta ed eventualmente si verifica l'evento, ma lo stesso reato non si esaurisce finché perdura la situazione antigiuridica.

Con riguardo a ciò nella pronuncia in esame si fa riferimento alla relazione di accompagnamento al codice di rito, titolo VIII, la quale, con riguardo alla ratio che sottende la previsione di una durata prefissata delle indagini preliminari, evidenzia che solo al momento dell'iscrizione del nome della persona cui è attribuito il reato nel registro di cui all'art. 335 c.p.p., allorché «l'attività del P.M. può considerarsi utiliter gesta, è legittimo ritenere operante un termine dettato in vista dello svolgimento di una fase procedimentale il cui scopo è quello di verificare se sussistono elementi sufficienti per formulare l'accusa e dar vita al processo».

La prospettiva che guida il legislatore nazionale risponde ad esigenze di certezza dei tempi delle investigazioni e del processo. Tali esigenze trovano consacrazione anche in fonti sovranazionali, quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, così come interpretata dal suo giudice naturale, la Corte Edu.

Si prescinde, pertanto, dalle connotazioni strettamente giuridiche dei reati perseguiti e si impone la concentrazione dell'attività di ricerca della prova in un arco temporale che è di assoluto rilievo anche per realtà criminali complesse quali quelle associative, notoriamente molto strutturate ed articolate (Cass. pen., Sez. II, 28 febbraio 2017,n. 17118).

Proprio l'applicazione di tali principi, secondo la Suprema Corte, comporta l'accoglimento del motivo proposto nell'interesse dell'imputato.

Invero, nel caso in esame, il tribunale della libertà di Reggio Calabria, che aveva disposto la misura cautelare nei confronti del F. in riforma della decisione del Gip, prima riferisce come nel caso in esame non sussiste violazione dell'art. 414 c.p.p., poiché il F. risultava indagato per un fatto di associazione mafiosa differente da quello per il quale era intervenuta l'archiviazione anche nei suoi confronti, in quanto le condotte criminose si estendevano sino al 2016; tuttavia, poi, contraddicendo il principio in precedenza affermato, nella trattazione della specifica posizione del predetto ricorrente richiama elementi indiziari riferiti ad un arco temporale incluso nel provvedimento di archiviazione del Gip di Reggio Calabria, emesso nei riguardi del F., ed avente ad oggetto sempre la condotta punita dal reato di cui all'art. 416-bis c.p. In effetti tutte le condotte prese in considerazione in tale frazione della motivazione dell'ordinanza impugnata riguardano accertamenti compiuti nei riguardi del F. in relazione a sue condotte tenute nell'arco temporale 2005-2007 e scaturiti da una perquisizione effettuata nella sua abitazione nel dicembre del 2007, nel corso della quale venivano rinvenuti documenti di formazione precedente, sulla base dei quali si riteneva lo stesso soggetto indiziato di partecipazione alla cosca mafiosa.

Orbene, dall'analisi del provvedimento di archiviazione oggetto del giudizio in sede di appello cautelare, risulta che agli indagati del precedente procedimento, compreso il ricorrente F., veniva contestata la partecipazione all'associazione mafiosa accertata nel corso del 2007 e, pertanto, con contestazione c.d. aperta almeno alla data della richiesta formulata dal P.M.; sicché a fronte della archiviazione disposta nel 2012 nel successivo procedimento, oggetto della sentenza in esame, non potevano al F. essere contestate le stesse condotte oggetto di chiusura delle indagini, per assenza di elementi idonei a supportare il giudizio relativamente a fatti per i quali non risulta mai disposta la riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p.

Il procedimento interessato, nel corso del quale il tribunale della libertà di Reggio Calabria aveva disposto la misura della custodia cautelare in carcere, anche nei riguardi di F., per il reato ex art. 416-bis c.p., non poteva, pertanto, avere ad oggetto le stesse condotte poste in essere dal F. sino al 2007 e per le quali risultava intervenuta l'archiviazione mai seguita da riapertura.

La questione della attualità delle esigenze cautelari

Nel ricorso per cassazione dell'imputato F. vengono avanzate altre doglianze. In particolare, secondo la Corte di Cassazione, risulta fondato e con valore assorbente anche il terzo motivo di ricorso, con il quale lamentava il difetto di attualità delle esigenze cautelari relativo al capo nel quale si contestava una ipotesi di cui all'art. 372 c.p., che incrimina il reato di falsa testimonianza, aggravata dall'art. 7 della l. n. 203/91 (che disciplina la c.d. aggravante di mafia), commessa nel febbraio del 2006.

Invero, secondo l'orientamento della Suprema Corte in tema di misure cautelari, quando si procede per i reati di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., pur operando una presunzione "relativa" di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, e di una lettura costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale non segnato da condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, che può rientrare tra gli «elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari», cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, c.p.p. (Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2017,n. 29807). Nel caso in esame, in particolare, la distanza temporale, di ben 11 anni, tra la data di presunta consumazione dei fatti da parte del F. e quella di adozione della misura ad opera del tribunale della libertà di Reggio Calabria, deve condurre all'insussistenza di qualsiasi esigenza, non risultando nel corso del procedimento circostanze che possano fare ritenere attuale il pericolo di reiterazione del reato.

La questione degli effetti della sentenza assolutoria

Un'altra questione interessante affrontata dalla Suprema Corte nella pronuncia in esame è quella degli effetti della sentenza assolutoria ed è stimolata dal ricorso presentato daS. Rosa Anna Lucia, la quale lamentava la violazione dell'art. 274, lett. c), c.p.p. per difetto di esigenze cautelari, posto che, con riguardo alla stessa, le modalità di consumazione dei fatti avvenuti nel corso del 2007 (capo n. 16), e la personalità dell'indagata, immune da pregiudizi penali, oltre che trasferita in un'altra città italiana e dedita a regolare attività lavorativa, dovevano fare ritenere assente qualsiasi pericolo di reiterazione.

La Corte di cassazione ritiene anche questo ricorso fondato.

All'imputata venivano contestate la partecipazione alla cosca mafiosa S. e il delitto di cui all'art. 371-ter c.p., rubricato False dichiarazioni al difensore, aggravato ex art. 7 della l.203/91 (capo n. 16), commesso nell'aprile del 2007.

Orbene, nel valutare il presupposto della attualità delle esigenze cautelari, il giudice collegiale del tribunale della libertà di Reggio Calabria spiegava come, nel caso in esame, a fronte di una contestazione riguardante la partecipazione ad una mafia c.d. storica sussisteva pienamente la presunzione di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., che impedisce di valutare quale elemento di rilievo il tempo trascorso dalla consumazione dei fatti. Con la conseguenza che la misura applicabile è sempre quella della custodia cautelare in carcere, indipendentemente dalla data di contestazione della condotta associativa di partecipazione e dalle valutazioni relative a ciascuno degli indagati, e ciò perché la ritenuta partecipazione ad una organizzazione criminale permanentemente operante, deve fare ritenere automatico il pericolo di reiterazione.

Questa conclusione, a giudizio della Suprema Corte, pur essendo in astratto condivisibile, trova un suo limite nella previsione contenuta nello stesso art. 275, comma 3,c.p.p., nel quale si afferma che è applicata la custodia cautelare in carcere salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistano esigenze cautelari. In particolare, ad avviso della stessa Corte, tra gli elementi specifici idonei a fornire dimostrazione concreta della insussistenza di esigenze cautelari attuali, deve essere individuato l'eventuale giudicato assolutorio che abbia escluso la sussistenza di una determinata organizzazione punibile exart. 416-bis c.p. ovvero, pur ammettendo la sussistenza della cosca criminale, che abbia escluso il coinvolgimento di taluno all'interno della stessa per un determinato periodo di tempo.

Il giudicato assolutorio, nella specie, costituisce ostacolo preciso alla valutazione della sussistenza di esigenze cautelari attuali, che può essere superato solo provando che, dopo il periodo coperto dall'assoluzione, la condotta del soggetto precedentemente assolto è proseguita attraverso altri atti e/o fatti di precisa caratura delittuosa posti in essere nell'interesse di quel preciso gruppo, ed altresì, che la struttura criminale, nel giudizio assolutorio esclusa, abbia intrapreso e proseguito la propria attività di realizzazione del programma delinquenziale di cui al citato art. 416-bis c.p.

L'attualità delle esigenze cautelari, in caso di precedente assoluzione, non può, pertanto, essere basata solo sulla contestazione di frazioni temporali differenti del reato associativo, poiché l'esclusione della punibilità della condotta comporta che necessariamente sia fornita dimostrazione, anche a livello indiziario, della consumazione di altri delitti fine e della prosecuzione delle attività dell'associazione; ragionando diversamente il giudicato assolutorio in tema di delitto di cui all'art. 416-bis c.p. potrebbe per ciò solo essere superato attraverso la semplice contestazione di partecipazione per una differente frazione temporale senza alcuna attualizzazione della condotta criminale e delle esigenze di cui all'art. 274 c.p.p.

L'applicazione dei principi enunciati, secondo la Corte di Cassazione, comporta l'accoglimento del gravame proposto dalla ricorrente. Difatti, posto che nel caso in esame con la sentenza emessa nel procedimento Artemisia veniva esclusa la sussistenza di una cosca mafiosa S. punibile ex art. 416-bis c.p. tra il dicembre del 2007 ed il dicembre del 2008, l'attualità delle esigenze cautelari nei confronti dei soggetti ai quali viene contestata la partecipazione alla stessa cosca può essere provata solo in forza della sussistenza di condotte successive a tale frazione temporale, coperta dal giudicato assolutorio. Questa osservazione impone, pertanto, di affermare che, a fronte della assoluzione per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., la presunzione di adeguatezza della misura cautelare in carcere, di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., può operare solo in quanto siano individuate condotte punibili ex art. 416-bis c.p., poste in essere dall'indagato in una altra frazione temporale successiva a quella giudicata, altrimenti dovendosi proprio ritenere operante l'eccezione alla presunzione relativa dettata da tale norma, e cioè essere stati acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.

Nel caso in esame, all'imputata vengono contestate solo condotte poste in essere sino al 2007, e cioè in data antecedente l'assoluzione per il giudicato Artemisia che ha escluso la sussistenza di un gruppo criminale punibile ex art. 416-bis c.p. a tutto il dicembre del 2008. Così che, in assenza di precise circostanze idonee a superare l'effetto del giudicato assolutorio (ed cioè di indicazioni idonee a ritenere che l'indagata dopo il dicembre del 2008 abbia continuato a svolgere attività a vantaggio di un gruppo criminale individuabile quale associazione punibile ex art. 416-bis c.p.), il ricorso deve essere accolto e l'impugnata ordinanza annullata senza rinvio con riferimento a tale posizione specifica.

In conclusione

La Suprema Corte, nella complessa sentenza in esame, dopo aver ricostruito la posizione della giurisprudenza, anche della Corte Costituzionale, in tema di decreto di archiviazione non seguito da un provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, ex art. 414 c.p.p., ha seguito quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui sono inutilizzabili gli atti di indagine compiuti dopo il provvedimento di archiviazione, con la preclusione dell'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto di reato, da parte dello stesso ufficio del pubblico ministero. Ciò vale anche con riguardo al caso in cui sia contestato un reato permanente, come nell'ipotesi di specie, in cui si contesta l'associazione di stampo mafioso, in quanto l'archiviazione non seguita dalla autorizzazione alla riapertura delle indagini non preclude lo svolgimento di nuove investigazioni con riguardo allo stesso illecito con riferimento ai comportamenti successivi a quelli oggetto del provvedimento di archiviazione, con eventuale applicazione di una misura cautelare per tali fatti ulteriori e, in tali casi, la sanzione di inutilizzabilità derivante dalla violazione dell'art. 414 c.p.p. colpisce solo gli atti che riguardano lo stesso fatto oggetto dell'indagine conclusa con il provvedimento di archiviazione, e non anche fatti diversi o successivi, benché collegati con i fatti oggetto della precedente indagine.

Con riguardo, invece, alla questione relativa agli effetti del giudicato assolutorio, la Suprema Corte, in sentenza, conclude nel senso che tale giudicato, sia nella parte in cui esclude la configurabilità nelle attività di un determinato gruppo o famiglia di condotte punibili ex art. 416 bis c.p. o l'inserimento del soggetto in una organizzazione criminale pur esistente, costituisce un ostacolo preciso alla valutazione della sussistenza di esigenze cautelari attuali che può essere superato solo provando rigorosamente che, dopo il periodo coperto dall'assoluzione, la condotta del soggetto precedentemente assolto è proseguita attraverso altri atti e/o fatti di precisa caratura delittuosa, posti in essere nell'interesse di quel preciso gruppo, e altresì, che la struttura criminale, esclusa nel giudizio assolutorio, abbia intrapreso e proseguito la propria attività di realizzazione del programma delinquenziale di cui al citato art. 416-bis c.p.

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