Femminicidio e rilevanza dello stato passionale. Dalla “tempesta emotiva” alla tempesta mediatica

Pierpaolo Martucci
25 Marzo 2019

La sentenza d'appello che a Bologna ha dimezzato la pena per un caso di femminicidio, riconoscendo le attenuanti generiche per lo stato emotivo del reo, ha suscitato critiche violente. L'Autore evidenzia come la decisione vada collegata alle più recente giurisprudenza di legittimità sugli stati emotivi e passionali...
Abstract

La sentenza d'appello che a Bologna ha dimezzato la pena per un caso di femminicidio, riconoscendo le attenuanti generiche per lo stato emotivo del reo, ha suscitato critiche violente. L'Autore evidenzia come la decisione vada collegata alle più recente giurisprudenza di legittimità sugli stati emotivi e passionali, a sua volta espressione di una ampia riflessione in atto sui concetti penalistici e criminologici di autodeterminazione e di responsabilità, influenzata dai più innovativi contributi della psichiatria e delle neuroscienze.

Il fatto

Nella prima mattina del 6 ottobre 2016, in un appartamento di Riccione, Michele Castaldo strangolava Olga Matei, la donna con la quale aveva un rapporto sentimentale. Poche ore dopo i carabinieri, allertati da una segnalazione, reperivano l'assassino in casa sua, in stato soporoso; accanto a lui un manoscritto in cui confessava l'omicidio della donna e manifestava l'intenzione di togliersi la vita. In realtà si era limitato ad assumere vino mescolato a un banale antinfiammatorio, un gesto teatrale e palesemente inadeguato. Rapidamente ristabilitosi rendeva subito ampia confessione al pubblico ministero.

La relazione fra i due risaliva a poco più di un mese prima e non si era tradotta in una convivenza, né ancora in progetti di vita in comune. La sera del 4 ottobre, sul cellulare della Matei era arrivato il messaggio di un amico di quest'ultima, dal contenuto peraltro innocente. Tanto era bastato a infiammare la gelosia del Castaldo, che lamentava il fallimento del precedente matrimonio, dovuto ai tradimenti della moglie. In un crescendo di discussioni, riappacificazioni e nuovi litigi, la sera del 5 ottobre la coppia era giunta a un ultimo, animato confronto presso la casa della donna. Di fronte alla freddezza di quest'ultima e all'intenzione di interrompere il loro colloquio, Castaldo aveva asseritamente “perso la testa perché lei non voleva più stare con me”: strettale le mani al collo, l'aveva soffocata.

La sentenza di primo grado

Nel corso del processo di primo grado il giudice disponeva perizia psichiatrica, anche alla luce dei trascorsi dell'imputato che in due occasioni (nel 2013 e nel 2014), dopo la fine del matrimonio e dopo la rottura di una successiva relazione sentimentale, aveva fatto ricorso a cure psichiatriche, incluso un ricovero e un TSO, peraltro senza che i sanitari riscontrassero specifici quadri patologici.

Anzi, la valutazione neuropsicologica con somministrazione di test, aveva evidenziato nell'uomo prestazioni nella norma, o superiori, rispetto alla capacità di controllare le reazioni impulsive.

Al termine delle sue valutazioni il perito concludeva per la piena capacità di intendere e di volere al momento del fatto, in quanto l'imputato non presentava patologie psichiatriche strutturali né chiari segni di disturbo della personalità. Il delitto era scaturito da un turbamento alimentato da delusioni precedenti, da gelosia e dalla rabbia per la freddezza percepita nella compagna, descritto come soverchiante tempesta emotiva e passionale, peraltro priva di implicazioni rilevanti in termini di psicopatologia. Una scelta lessicale ridondante, particolarmente infelice per la sua intrinseca ambiguità, quasi evocativa della “forza irresistibile” ricorrente nella letteratura penalistica ottocentesca. Ad ogni modo il giudizio veniva condiviso anche dal consulente tecnico della difesa, che riconduceva egli pure l'omicidio ad una violenta alterazione emotiva e passionale, non incidente sull'imputabilità.

L'11 dicembre 2016, al termine del giudizio, il Gup del Tribunale di Rimini riconosceva Michele Castaldo responsabile dell'omicidio aggravato da futili motivi di Olga Matei e lo condannava alla pena dell'ergastolo, con la riduzione a trent'anni di reclusione per il rito abbreviato, e al risarcimento dei danni alle parti civili.

Nella limpida motivazione il giudice, richiamata l'ininfluenza sull'imputabilità delle componenti emotive, chiariva che l'infondata gelosia e l'assoluta sproporzione della reazione dell'omicida a fronte del normale comportamento della vittima ben configuravano l'aggravante dei motivi abbietti e futili, mentre mancavano circostanze apprezzabili per la concessione delle attenuanti generiche.

Il difensore proponeva appello, richiedendo l'esclusione delle aggravanti o comunque il riconoscimento delle attenuanti generiche e in generale l'applicazione di una pena più mite, stante anche l'incensuratezza dell'imputato.

La sentenza di appello e la “soverchiante tempesta emotiva”

Il nuovo processo tenutosi presso la Corte d'Assise d'appello di Bologna si concluse il 14 novembre 2018, con sentenza depositata l'8 febbraio 2019: con parziale riforma delle determinazioni del Gup di Rimini, venivano concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata aggravante e di conseguenza rideterminata la pena in anni 16 di reclusione.

Il rilievo dato alla sentenza dai canali giornalistici che enfatizzavano il richiamo nelle motivazioni alla già citata soverchiante tempesta emotiva ha scatenato una quantità di reazioni negative e commenti indignati. Tanto da indurre l'Associazione Nazionale Magistrati dell'Emilia Romagna a intervenire (abbastanza) a gamba tesa lamentando «un clamore ingiustificato, che rischia di delegittimare l'operato dell'autorità giudiziaria, rappresentandolo come arbitrario e misogino».

In realtà è tendenza piuttosto costante nella nostra giurisprudenza mitigare le determinazioni di primo grado, quasi si trattasse di dover applicare una valutazione più ponderata e distaccata nel tempo. La “tempesta mediatica” scatenatasi sui giudici bolognesi si spiega soprattutto perché si intreccia col tema del femminicidio, vero nervo scoperto della nostra società. Ricordiamo che il termine femminicidio (o anche “femicidio”) fu creato nel 1974 dalla scrittrice americana Carol Orlock e utilizzato nel 1976 dalla femminista Diana Russell innanzi al Tribunale Internazionale dei Crimini contro le Donne di Bruxelles. Come è noto, non si tratta (per ora) di una categoria giuridica, ma fenomenologica e criminologica, riferita a tutte le uccisioni il cui movente è fondamentalmente riconducibile a motivi di avversione, odio, risentimento verso vittime di sesso femminile; il caso di Riccione vi rientra senz'altro.

Tuttavia dalla lettura delle motivazioni della sentenza di secondo grado non emerge alcuna affermazione riconducibile alla tramontata categoria del delitto d'onore o comunque squalificante nei confronti delle donne.

Il ragionamento che ha indotto i giudici dell'appello a concedere le attenuanti negate in primo grado valorizza pro reo tre elementi: la piena confessione non tanto del fatto (la responsabilità del Castaldo era quanto mai evidente) ma delle pulsioni all'origine dello stesso, e quindi dei futili motivi che vengono contestati; il tentativo (peraltro tecnicamente fallito) di risarcire la figlia della vittima; infine lo stato emotivo (qui il richiamo alla “soverchiante tempesta”), legato anche a “poco felici esperienze di vita” dell'omicida, stato emotivo che viene definito “inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell'imputato” ma adeguato “a influire sulla misura della responsabilità penale”.

Rispetto alla fragilità dei primi due, è il terzo in sostanza il fattore di maggior peso. La sua valutazione si inscrive in una tendenza riscontrabile anche in altre sentenze (ultima quella del Tribunale di Genova del 6 dicembre 2018 su un altro caso di femminicidio, essa pure occasione di polemiche violente) e che è conseguenza di importanti pronunzie della Corte di Cassazione, esplicitamente richiamate nelle motivazioni della Corte d'assise di Bologna.

Gli orientamenti della Cassazione in tema di stati emotivi e passionali

L'irrilevanza sull'imputabilità degli stati emotivi e passionali sancita dall'art. 90 c.p. è stata nel tempo ribadita nelle pronunzie di legittimità (fra le altre, Cass. pen., 16 gennaio 2013, n. 9843; Cass. pen., 20 gennaio 2011, n. 1730; Cass. pen., 9 novembre 2006, n. 37020, quest'ultima in tema di gelosia). Tuttavia nella sentenza n. 7272 del 5 aprile 2013 i giudici della Suprema Corte hanno affermato che tali stati, “pur non escludendo né diminuendo l'imputabilità, possono comunque essere considerati ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto essi influiscono sulla misura della responsabilità penale”. La giurisprudenza successiva è stata costante nel ribadire tale orientamento: Cass. pen., 7 luglio 2016, n. 27932; Cass. pen., 29 gennaio 2018, n. 4149; Cass. pen., 5 febbraio 2018, n. 5299. Si può dire che la Corte ha mantenuto gli stati emotivi e passionali fuori dalla porta dell'imputabilità, ma li ha fatti rientrare dalla finestra della responsabilità.

In effetti questi “assestamenti” sono segnali di una riflessione assai più ampia in atto sui concetti penalistici e criminologici di autodeterminazione e di responsabilità, sotto la spinta delle più recenti acquisizioni scientifiche

Novità sono giunte dagli studi di genetica forense sui fattori di vulnerabilità tesi in particolare a individuare la presenza di polimorfismi (c.d. “gene guerriero”, “genoma wide” ) che regolano la neurotrasmissione ovvero il sistema ormonale legati al controllo dell'escalation dell'aggressività e aumentano nel soggetto portatore il rischio di sviluppare malattie psichiatriche e disturbi del comportamento, ma soprattutto dal contributo delle neuroscienze, che, grazie a sofisticate tecniche di osservazione neuroradiologiche (brain imaging) studiano in tempo reale il comportamento del cervello, tracciando l'andamento dell'irrigazione ematica e le variazioni biochimiche cerebrali.

Ebbene, alcuni esiti della ricerca neuro scientifica sembrano aver innescato una crisi del concetto di libero arbitrio, quasi rievocando – seppur in una prospettiva aggiornata e del tutto particolare – certe visioni materialistiche tipiche del positivismo e della scuola di ispirazione lombrosiana, che paiono rivivere nelle correnti riduzionistiche sostenitrici di un “neurodiritto” su basi bio-deterministiche.

La realtà che sembra emergere dai nuovi riscontri su singoli aspetti del funzionamento del cervello contraddice consolidate convinzioni ed evidenzia il peso di componenti emotive inconsapevoli anche in scelte morali apparentemente fondate su basi del tutto razionali (il caso del celebre “dilemma del trolley”, classico esperimento di neuroscienza normativa o neuroetica).

È stato affermato che si sta via via delineando l'immagine di un uomo dominato dalle passioni, irrazionale, istintivo, soggetto a una gamma di condizionamenti più ampia di quelli conseguenti a fattori meramente traumatici o patologici.

Di questo per certi versi drammatico mutamento di paradigma si trova traccia tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, dove la nozione di infermità si è andata progressivamente affrancando da quella di malattia mentale stricto sensu.

Un confine indefinito

L'orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, in passato, riteneva di escludere dal computo dei fattori suscettibili di scemare o escludere l'imputabilità del reo quegli stati anomali non riconducibili a una patologia organica e privi di una connotazione precisa, che si pongono nella “terra di mezzo” tra malattia e normalità, e che l'attuale classificazione psichiatrica fa rientrare nella categoria dei disturbi di personalità (il riferimento obbligato è al DSM 5, la più recente versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Quando si giudicava la responsabilità di un soggetto che manifestava questi disturbi dai confini incerti, la tendenza era quella di reputarli naturali stati emotivi o passionali e considerarli irrilevanti ex art. 90 c.p.

Questa impostazione è stata messa in discussione, da quando quello che taluno definiva “il matrimonio forzato” fra processo e psichiatria è entrato in crisi. Il legame particolare che storicamente si è affermato in ambito penale - attraverso gli istituti della consulenza e della perizia - si è mantenuto molto saldo sino a che sono sopravvissute le certezze ereditate dai modelli organicisti ottocenteschi, per poi incrinarsi profondamente con il mutamento della concezione della malattia mentale successiva alla “rivoluzione antipsichiatrica” degli anni Settanta: non più “patologia del cervello”, ma “condizione esistenziale”, esito di conflittualità e deprivazione sociale, che porta a sofferenza e ad emarginazione. Da allora si sono moltiplicati i modelli interpretativi del disagio psichico ed è mutato il ruolo dello psichiatra, sempre più insofferente ad assolvere a mandati di controllo sociale e restio ad esprimersi su quesiti attinenti a diagnosi predittive di pericolosità, ritenute scientificamente insostenibili. Si è così giunti al radicale cambiamento sancito dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2005 n. 9163 (caso Raso).

Nella pronuncia la Suprema Corte affermò che anche i disturbi della personalità, come le altre anomalie psichiche non inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono costituire causa idonea a escludere o scemare grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere di un soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa. Questo orientamento consolidato (si veda ad esempio Cass. n. 45156/2015) non riconosce alcun rilievo ad altre anomalie caratteriali o alterazioni o disarmonie della personalità prive dei caratteri predetti, nonché agli stati emotivi e passionali che non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità. E tuttavia, come si è ricordato, in altre pronunzie questi ultimi vengono dichiarati idonei ad influire sulla misura della responsabilità penale.

In realtà a nostro parere è possibile individuare un legame latu sensu concettuale fra questo doppio ordine di sentenze, considerandole come epifenomeno di una riflessione assai più ampia. Che sia richiamata esplicitamente (come nella sentenza Raso) oppure no, la sempre più accentuata relativizzazione del concetto di normalità psichica (i cui confini sono elastici ed evanescenti) finisce per riflettersi sui due profili della risposta penale, l'imputabilità e la misura della responsabilità. Una fluidità che rende più permeabile il campo del giudizio a vicissitudini psichiche sempre più ampie, ma che evoca anche tipici rischi di slippery slope o “china scivolosa”.

Ed è significativo - per tornare alla vicenda in discussione - che nelle motivazioni del giudizio di appello per il femminicidio di Rimini si richiamino le “passate infelici esperienze di vita” dell'omicida, nelle quali vi erano stati ricoveri e accertamenti psichiatrici, dove le manifestazioni di disagio psichico non erano state nosograficamente ricondotte a definiti quadri patologici, ma a “disturbi di personalità non specificati”. Da cui, per i giudici bolognesi, un'imputabilità piena ma una responsabilità “diminuita” dal turbamento emotivo presente nel reo.

In conclusione

L'esito del giudizio d'appello sul femminicidio di Rimini è stato occasione di polemiche durissime, il cui tema più ricorrente è stato il timore di un ritorno alla categoria del delitto d'onore, espunta dal codice penale nel 1981. In realtà, come si è rilevato, una disamina spassionata delle motivazioni della sentenza porta a escludere ogni suggestione argomentativa in tal senso. Basti considerare la conferma dell'aggravante contestata, ritenuto il carattere “abietto o futile” della gelosia manifestata dal reo, in quanto non collegata a un profondo desiderio di vita in comune ma piuttosto “espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l'insubordinazione”.

La concessione delle attenuanti generiche si è fondata su altre considerazioni e specialmente su una rivalutazione dei fattori emotivi – analoga a quelle comparse in altre recentissime pronunzie di merito – che riflette il mutamento di ampia portata sulla valutazione dei fattori psichici (costituenti o meno infermità) nella criminogenesi, come evidenziato nella più recente giurisprudenza della Suprema Corte. Comunque il risultato fattuale suggerisce qualche ulteriore riflessione.

Senza dubbio considerazioni di politica criminale e sociologia del diritto non possono entrare - se non latu sensu - nel percorso motivazionale di una sentenza. Ma quanto accade nel caso in esame (e in numerosi altri simili) è che la decisione interviene sull'assetto già fortemente premiale del rito abbreviato, per cui pochi passi di una dialettica giuridica formalmente ineccepibile implicano un esito comunicativo drammatico: la discesa lineare dall'ergastolo a sedici anni di reclusione, con ogni probabilità ulteriormente ridotti in sede di esecuzione. Le implicazioni in termini di seconda vittimizzazione dei familiari e soprattutto di vulnus alla percezione sociale della funzione giudiziaria sono potenzialmente pesanti.

Il problema di fondo deriva da una verità che la magistratura giudicante sembra spesso eludere: il fatto cioè che l'esito definitivo della vicenda processuale ormai non segna più il destino ultimo del reo. Da parecchi anni, in conseguenza delle innovazioni introdotte nell'ordinamento penitenziario, la pena ha dimesso la sua rigidità per assumere una natura essenzialmente negoziale che può portare a modificarla e ridurla significativamente, nel solco di un percorso dialettico, in conseguenza della condotta e delle scelte poste in essere dal condannato. Ne deriva che, almeno nei casi di delitti particolarmente gravi sotto il profilo sociale e criminologico, potrebbe essere più ragionevole dimettere alla fase dell'esecuzione valutazioni pro reo che proprio in un contesto di protratta osservazione nel tempo possono trovare più affidabile fondamento prognostico e offrire più forti motivazioni alle legittime aspirazioni di reinserimento sociale.

Guida all'approfondimento

Barbieri, Una verosimile chiave di lettura del c.d. reato d'impeto: la causalità come “gnommero”, in Rassegna italiana di criminologia, 2017, 96 ss.; Corsa, Disagio psichico e devianza, in Martucci, Riponti, Nuove pagine di criminologia, Assago (MI), 2017, 65 ss.; Martucci, Neuroscienze e processo penale. Profili applicativi e giurisprudenziali, Vicalvi (FR), 2015.

In giurisprudenza sugli stati emotivi e passionali in relazione alla responsabilità penale: Cass., 5 aprile 2013, n. 7272; 7 luglio 2016, n. 27932; 5 febbraio 2018, n. 5299.

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