La confisca urbanistica senza condanna: per la Cassazione si può ma i dubbi restano tanti

25 Marzo 2019

La questione affrontata dalla Corte è quella della possibilità di applicare la confisca urbanistica in assenza di condanna. Il problema, da tempo noto alla giurisprudenza, origina a causa del dato testuale dell'art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che, anziché ricollegare la confisca alla sentenza di condanna, stabilisce che «la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni...
Massima

Il proscioglimento per intervenuta prescrizione maturato nel corso del processo non osta, sulla base di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, alla confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva, a condizione che il suddetto reato venga accertato, con adeguata motivazione, nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, posto che l'obbligo di accertamento imposto al giudice per l'adozione del provvedimento ablativo prevale su quello generale della immediata declaratoria della causa di non punibilità, ex art. 129 c.p.p.

Il caso

La Corte d'appello di Catania, con sentenza in data 10 novembre 2017, provvedendo in camera di consiglio sulle impugnazioni degli imputati nei confronti della sentenza del 30 dicembre 2015 del Tribunale di Siracusa, dichiarava non doversi procedere nei confronti degli appellanti per essere il reato di lottizzazione abusiva estinto per prescrizione e confermava nel resto la sentenza impugnata in relazione alle statuizioni sulla confisca adottate dal primo giudice.

I prosciolti, quindi, proponevano ricorso per cassazione, nel quale deducevano tre doglianze, una delle quali ritenuta dalla Corte assorbente e fondata.

Per la Suprema Corte, infatti, la Corte d'appello, pur in presenza di una causa di estinzione dei reati addebitati agli imputati, da rilevare e dichiarare immediatamente in mancanza di cause evidenti di proscioglimento, avrebbe avuto comunque l'onere, essendo stata disposta dal Tribunale la confisca dei fabbricati oggetto della lottizzazione abusiva, di accertare compiutamente, esaminando tutte le doglianze sollevate dagli imputati, la configurabilità del reato contestato e la conseguente possibilità di confermare la confisca delle opere nonostante l'estinzione del reato per prescrizione. Al contrario la Corte territoriale aveva pronunciato la declaratoria di prescrizione in camera di consiglio, con la conseguente violazione del principio del contraddittorio ed il mancato accertamento del fatto presupposto della confisca.

In accoglimento del ricorso, dunque, la sentenza impugnata è stata annullata, senza rinvio, e gli atti sono stati trasmessi alla Corte d'appello di Catania, affinché, sulla base del citato criterio interpretativo, provveda al giudizio sulle impugnazioni proposte dagli imputati.

La questione

La questione affrontata dalla Corte è quella della possibilità di applicare la confisca urbanistica in assenza di condanna.

Il problema, da tempo noto alla giurisprudenza, origina a causa del dato testuale dell'art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che, anziché ricollegare la confisca alla sentenza di condanna, stabilisce che «la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite». Facendo la disposizione un riferimento esplicito alla «sentenza definitiva del giudice penale che accerta» e non alla sentenza definitiva di condanna che accerta, in questa sua previsione ha generato il dubbio, per anni, sulla necessità o meno di una formale affermazione di colpevolezza, ovverosia di una condanna, per il ricorso alla misura ablativa.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ribadisce l'indirizzo giurisprudenziale – proprio della stessa Sezione – secondo il quale il proscioglimento per intervenuta prescrizione maturato nel corso del processo non osta, sulla base di una lettura costituzionalmente (cfr. Corte cost. 14 gennaio 2015, n. 49) e convenzionalmente orientata, alla confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva, a condizione che il suddetto reato venga accertato, con adeguata motivazione, nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, posto che l'obbligo di accertamento imposto al giudice per l'adozione del provvedimento ablativo prevale su quello generale della immediata declaratoria della causa di non punibilità, ex art. 129 c.p.p.

D'altronde, come si è precisato supra, il fatto che l'art. 44 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, faccia riferimento a una sentenza senza caratterizzarla come “di condanna” consente, secondo la giurisprudenza, l'applicazione della misura anche con una sentenza che dichiari la prescrizione ma che, nel contempo, accerti il fatto di reato sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

I giudici di legittimità ritengono, invero, che in presenza della prescrizione per il reato di lottizzazione abusiva – che se accertato impone la confisca – il giudice del dibattimento non abbia l'obbligo di una immediata declaratoria ex art. 129 c.p.p., ma debba procedere al necessario accertamento del reato nelle sue componenti, oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio, e a tal fine, pur in presenza della sopravvenuta prescrizione, è tenuta addirittura a proseguire l'istruttoria dibattimentale al fine esclusivo dell'accertamento della legittimità della confisca. In questo caso, secondo il Supremo Collegio, il parametro di giudizio e la conseguente completezza dell'istruttoria non subiscono modifiche rispetto a quanto necessario per giungere a una sentenza di condanna, posto che deve essere accertata la configurabilità del reato di lottizzazione abusiva al momento dell'esercizio dell'azione penale.

La Corte, infine, ricorda come la soluzione interpretativa originariamente seguita dalla giurisprudenza sia stata recepita dal legislatore mediante l'introduzione dell'art. 578-bis c.p.p. (inserito dall'art. 6, comma 4, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, sulla riserva di codice), rubricato Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione. Non solo: ritiene, il collegio, inoltre, che il quadro interpretativo non sarebbe comunque mutato dopo la pronuncia resa dalla Grande Camera della Corte EDU il 28 giugno 2018, nella causa G.I.E.M. S.r.l. e altri c/Italia, essendo stata, nel caso specifico, la confisca inizialmente disposta nei confronti di soggetti che hanno partecipato al processo concluso con l'accertamento da parte del primo giudice della loro responsabilità.

Osservazioni

A parere della III Sezione del Supremo Collegio, così come emerge da un orientamento consolidato seguito dal 2017 ad oggi, per applicare la confisca urbanistica non è necessaria una sentenza di condanna, potendosi procedere anche in caso di sopravvenuta prescrizione con la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere che contenga, però, un accertamento del fatto e della responsabilità dell'imputato.

Se l'affermazione oggi è supportata dal dato normativo, considerata la vigenza dell'art. 578-bis c.p.p. (nel caso della sentenza in commento inapplicabile ratione temporis), tale circostanza non vale a ritenere esente da censure l'interpretazione proposta dalla giurisprudenza. Ciò, in primo luogo, poiché la disposizione citata appare, comunque, in evidente contrasto con l'art. 27 Cost. e con l'art. 6 CEDU nella misura in cui una sentenza che non sia di condanna e che comunque applichi una pena lede la presunzione di non colpevolezza (o di innocenza, a seconda del parametro di riferimento); in secondo luogo poiché l'orientamento giurisprudenziale, al quale si ispira la sentenza in commento, va ben oltre il dato normativo, ammettendo la possibilità di disporre la confisca, in presenza di una sopraggiunta prescrizione, anche durante il primo grado di giudizio.

Si cercherà di evidenziare la fallacia dell'ermeneusi giurisprudenziale attraverso le due censure di cui sopra.

Quanto alla prima censura, essa si fonda proprio sui principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. e altri c/Italia, anche alla luce dei precedenti arresti giurisprudenziali della Corte EDU: su quello stesso provvedimento, dunque, che per la sentenza in commento non avrebbe mutato il quadro interpretativo.

Deve premettersi che con la sentenza del 29 ottobre 2013, Vàrvara c/Italia, la Corte EDU – confermando i principi in precedenza espressi nella sentenza del 20 gennaio 2009, Sud Fondi c/ Italia – aveva condannato l'Italia per violazione dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (in ciò ritenendo assorbita la violazione, anch'essa dedotta, dell'art. 6 per “non equità“ del processo) e per la violazione del diritto di proprietà di cui all'art. 1 Prot. 1 della Convenzione (in ragione della compressione di tale diritto ad opera di una sanzione penale illegittimamente applicata).

Secondo la Corte europea, infatti, la confisca, anziché una misura di natura amministrativa (come da sempre era stata considerata dalla giurisprudenza nazionale con un semplice mutamento di etichetta), doveva essere considerata una vera e propria pena, visti i suoi caratteri afflittivi e la rispondenza ai criteria indicati nelle note sentenze Engel c/ Olanda e Öztürk c/ Germania; in sostanza la Corte EDU ribadì quanto già affermato in precedenza, tra le tante, nelle sentenze 9 febbraio 1995, Welch c/ Regno Unito, 8 giugno 1995, Jamil c/ Francia, 20 gennaio 2009, Sud Fondi S.r.l. C/ Italia.

Muovendo dalla natura afflittiva della confisca, dunque, nella sentenza Vàrvara c/Italia la Corte affermò che l'art. 7 CEDU per punire – ovverosia per applicare una “pena” come la confisca – esige una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di irrogare la pena al suo autore, con la conseguenza che, in assenza di una affermazione di colpevolezza accertata in una sentenza di condanna, ogni applicazione della confisca rappresenterebbe una violazione dell'art. 7 della Convenzione.

La decisione della Corte europea ebbe effetti così dirompenti che fu presto chiamato a pronunciarsi sulla questione il giudice delle leggi: improbabili questioni di legittimità costituzionale chiesero alla Corte costituzionale di dirimere il problema circa la legittimità o meno dell'applicazione della confisca con una sentenza che dichiari la prescrizione. La pronuncia non si fece attendere: con la sentenza n. 49 del 14 gennaio 2015, che dichiarava inammissibile la questione sollevata, la Corte costituzionale instaurò un vero e proprio braccio di ferro con la Corte EDU. Affermando che l'orientamento seguito nel caso Vàrvara non proveniva dalla Grande Camera né era espressivo di un indirizzo consolidato ed evidenziando l'impossibilità di applicare in via generalizzata una pronuncia della Corte europea che, per sua natura, è influenzata dal singolo caso, la Corte ribadì che «nell'ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità», legittimando, di fatto, una confisca senza condanna.

Per tutta risposta, la medesima questione decisa nel caso Vàrvara, riproposta da alcuni ricorrenti, venne assegnata con il caso G.I.E.M. S.r.l. e altri c/Italia alla Grande Camera, che con grande ritardo ha depositato in data 28 giugno 2018 la propria decisione.

Come si è premesso, nonostante il ricorrente Vàrvara avesse lamentato la violazione della presunzione di innocenza prevista dall'articolo 6 § 2 della Convenzione ad opera di una confisca disposta nei suoi confronti con una pronuncia di non doversi procedere, la Corte, nell'occasione, aveva rilevato come il motivo di ricorso fosse strettamente legato ai fatti che l'avevano indotta a concludere per l'esistenza di una violazione dell'art. 7 CEDU, ritenendo, per tali ragioni, di non dover esaminare separatamente il motivo di ricorso relativo alla violazione della presunzione di innocenza (§ 77). Ebbene, nella sentenza G.I.E.M. S.r.l. e altri c/Italia la Corte inverte la rotta e se, nei confronti del signor Gironda, dichiara l'assenza di una violazione dell'art. 7 CEDUin ragione della ratio sottesa alla previsione della confisca, nei suoi confronti ritiene però certamente violato l'art. 6, § 2, CEDU.

La Corte di cassazione, con la sentenza in commento e – più in generale – con l'orientamento che essa esprime, ritiene che la Corte EDU abbia «chiarito che i principi di legalità e colpevolezza, contemplati dall'art. 7 CEDU, nonché la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 6 §2, non consentono che la confisca venga disposta in assenza di una sostanziale dichiarazione di responsabilità, pur se adottata in mancanza della pronuncia di una formale sentenza di condanna». A sostegno di tale conclusione, la Corte di cassazione cita un passaggio motivazionale della sentenza Vàrvara c/ Italia, secondo cui, ferma restando l'imprescindibile necessità di garantire il diritto di difesa nella sua massima esplicazione e secondo i parametri di cui all'art. 6 CEDU, «qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell'articolo 7, che in questo caso non è violato» (§ 261). Tale affermazione, contenuta nella motivazione in riferimento alla violazione dell'art. 7 CEDU nei confronti del signor Gironda, ha portato la Corte di Strasburgo ad affermare che «l'articolo 7 non è stato violato per quanto riguarda il sig. Gironda».

Merita, però, estrema attenzione quanto affermato dalla Corte EDU in relazione alla violazione dell'art. 6 CEDU nei confronti del medesimo ricorrente. Il signor Gironda, infatti, dopo essere stato condannato in primo grado, aveva proposto appello e la sentenza di condanna era stata riformata, con l'assoluzione dell'imputato; il pubblico ministero, quindi, aveva proposto ricorso per cassazione e la Corte aveva dichiarato il reato estinto per prescrizione ma aveva considerato il signor Gironda colpevole “in sostanza” e, pertanto, aveva applicato la confisca.

Ebbene, proprio di fronte a tale situazione la Corte europea ha riconosciuto porsi «un problema dal punto di vista dell'articolo 6 § 2 CEDU quando il giudice che pone fine al procedimento per prescrizione annulla contestualmente le decisioni di proscioglimento dei giudici di grado inferiore e si pronuncia sulla colpevolezza della persona interessata» (§ 316-317), ed ha conseguentemente affermato che «nei confronti del sig. Gironda è stato violato l'articolo 6 § 2 della Convenzione» (§ 318).

La vera questione diviene, dunque, comprendere se, dichiarata l'assenza di violazione dell'art. 7 CEDU, sia possibile, nel rispetto dell'art. 6 § 2 CEDU, dichiarare la colpevolezza di un soggetto senza pronunciare condanna e, per l'effetto, applicare comunque la confisca: ciò che, stando alle dissenting opinions di ben sette dei diciassette giudici della Grande Camera, non appare possibile.

La sentenza G.I.E.M. e altri C/Italia, infatti, non pare confermare la compatibilità con la Convenzione di una regola generale che consenta l'applicazione di sanzioni dopo un accertamento “sostanziale” della colpevolezza e nonostante la maturazione del termine di prescrizione: una confisca senza formale condanna, infatti, quand'anche ammessa ai sensi dell'art. 7 CEDU, urta pur sempre con la presunzione di innocenza di cui all'art. 6, § 2, CEDU.

Tale regola, d'altronde, dovrebbe essere fondata sulla distinzione tra “condanna formale” e “condanna sostanziale” e sull'idea che l'art. 7 CEDU non richieda la prima, essendo sufficiente l'esistenza della seconda: una distinzione illogica e antigiuridica.

Quale può essere, d'altronde, la differenza esistente tra una constatazione “sostanziale” di colpevolezza seguita dall'imposizione di una sanzione e una “condanna formale”? Nessuna.

Come affermato dalle dissenting opinions, dunque, la distinzione è solo linguistica: una “dichiarazione sostanziale” di colpevolezza con applicazione di una pena è identica ad una “condanna formale” perché come questa accerta che un fatto è stato commesso e che costituisce reato ed è seguita dalla imposizione di una sanzione: con la sola differenza che non è chiamata “condanna formale”.

Tutto ciò, peraltro, con l'assurda conseguenza che i termini di prescrizione non sarebbero di ostacolo alle dichiarazioni “sostanziali” di colpevolezza cui segua l'imposizione di una sanzione, ma solo all'etichetta “condanna formale”: se così fosse, la Corte EDU, che sempre ha combattuto le “truffe delle etichette”, avrebbe creato quella più colossale.

In realtà, in relazione alla concreta possibilità di applicare la confisca in caso di estinzione del reato per prescrizione, il limite della presunzione di innocenza rappresenta uno sbarramento insuperabile. Una dichiarazione “sostanziale” di colpevolezza con contestuale applicazione della confisca, che intervenga quando il reato sia prescritto, comporta pur sempre, infatti, una violazione della presunzione di innocenza di cui all'articolo 6, § 2, CEDU. D'altronde, la sentenza G.I.E.M. e altri c/Italia ricorda che l'art. 6, § 2, tutela il diritto di ogni persona di essere “presunta innocente fino a prova contraria secondo la legge” e non rappresenta una mera garanzia procedurale, ma ha uno scopo ben più ampio: quello di proteggere le persone che sono state assolte da un'accusa penale, o nei confronti delle quali i procedimenti penali si sono arrestati, dall'essere trattate come se di fatto fossero colpevoli del reato addebitato.

Come afferma la Corte, «senza la protezione destinata a far rispettare in ogni procedimento successivo una decisione di assoluzione o di archiviazione, le garanzie di un processo equo enunciate nell'articolo 6 § 2 rischierebbero di divenire teoriche e illusorie. Una volta concluso il procedimento penale, è in gioco anche la reputazione della persona interessata e il modo in cui essa è percepita dal pubblico» (§ 314): aspetti che solo un provvedimento di condanna formale può legittimamente coinvolgere.

***

Come indicato in premessa, la seconda censura è relativa al fatto che l'orientamento giurisprudenziale, del quale la sentenza in commento rappresenta espressione, va ben oltre il dato normativo ed ammette la possibilità di disporre la confisca, in presenza di una sopraggiunta prescrizione, anche durante il primo grado di giudizio.

Il principio affermato in motivazione, d'altronde, non è delimitato al giudizio di impugnazione che segua una pronuncia di condanna, affermando, con portata generalissima, che «il proscioglimento per intervenuta prescrizione maturato nel corso del processo non osta, sulla base di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, alla confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva, a condizione che il suddetto reato venga accertato, con adeguata motivazione, nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, posto che l'obbligo di accertamento imposto al giudice per l'adozione del provvedimento ablativo prevale su quello generale della immediata declaratoria della causa di non punibilità, ex art. 129 c.p.p.».

Se l'esegesi proposta, come indicato supra, urta con la presunzione di non colpevolezza, essa, nella sua indiscriminata applicazione in ogni grado di giudizio si palesa in contrasto con l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite del Supremo Collegio e fatto proprio, successivamente, dal legislatore.

A seguito dell'affermazione della Corte costituzionale secondo cui «nell'ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità», una prima applicazione del principio si ebbe ad opera del Supremo Consesso, che, con la sentenza Lucci (Cass. pen., Sez. unite, 21 luglio 2015, Lucci), ne delimitò l'ambito. La Corte, infatti, ammise la possibilità di ricorrere alla confisca “misura di sicurezza” – si trattava di un caso di confisca del prezzo o del profitto del reato – anche nell'ipotesi in cui fosse maturata la prescrizione, a condizione che fosse intervenuta «una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato».

In buona sostanza, il giudice di legittimità – escluso che la confisca del prezzo del reato fosse da trattarsi, per le sue caratteristiche, alla stregua di una pena – affermò come per l'applicazione di una tale misura non fosse assolutamente necessario un giudicato formale di condanna: per la Corte «ciò che risulta “convenzionalmente imposto”» – alla luce delle sentenze Sud Fondi e Vàrvara della CEDU – «e “costituzionalmente compatibile”, in ragione delle linee-guida tracciate dalla Corte costituzionale, in particolare nella già esaminata sentenza n. 49 del 2015, è che la responsabilità sia stata accertata con una sentenza di condanna, anche se il processo è stato definito con una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione».

Se le Sezioni Unite scelsero una soluzione di compromesso che cercava di far sì che il sistema “tenesse”, tale non è certamente quella successivamente propugnata dalla III Sezione della Suprema Corte: dalla necessità di una sentenza di condanna in primo grado per il mantenimento in essere della confisca in caso di sopraggiunta prescrizione, si passa alla superfluità di tale sentenza. Tutto ciò, peraltro, con conseguenze paradossali.

Secondo l'orientamento giurisprudenziale che si avversa, è sempre possibile applicare la confisca, anche in presenza di una causa di estinzione del reato che sia intervenuta all'inizio o durante la celebrazione del primo grado di giudizio: in tal caso, infatti, è necessario che il procedimento si svolga comunque o prosegua, consentendo l'assunzione delle prove e il diritto di difesa; e al termine, con la sentenza che dichiarerà l'estinzione del reato, ben potrà il giudice disporre la misura ablativa.

Non curandosi affatto della “natura di pena” tipica della confisca urbanistica (che le deriva non solo dal riconoscimento operato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, bensì dall'esplicita indicazione del legislatore, che nella legge l'ha pur sempre inserita tra le sanzioni penali), si sostiene un'interpretazione che, nel voler assurgere a regola contraria rispetto alle norme di sistema che disciplinano il processo, si caratterizza per essere priva di tenuta.

Da un lato, il dato testuale rappresentato dal fatto che l'art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 non richiami la sentenza di condanna rendendo possibile ricorrere al provvedimento ablativo anche in contesti differenti dalla formale affermazione di colpevolezza appare privo di qualsiasi rilievo se solo si considera che la disposizione venne scritta dal legislatore quando la misura in questione non era considerata alla stregua di una sanzione penale. Essendo oggi chiaro, invece, che il provvedimento ablativo ha certa natura afflittiva, la sua applicazione, trattandosi di pena, deve sottostare alle regole e alle garanzie tipiche del diritto penale: non può prescindersi, dunque, da una sentenza di condanna.

Ciò detto, dall'esame delle regole processuali ben si comprende come l'interpretazione de qua sia con esse in aperto contrasto: l'art. 129 c.p.p., infatti, contiene l'espressa previsione di un impedimento alla prosecuzione del giudizio, imponendosi addirittura al giudice l'obbligo di una immediata declaratoria della causa di estinzione del reato, come specificato nella rubrica dell'articolo. La Corte di cassazione dimostra di avvertire il problema, ma risolve il rapporto tra le due opposte previsioni in modo inappagante, affermando che il riconoscimento di «poteri di accertamento - finalizzati all'adozione di una misura che incide negativamente sulla posizione dell'imputato (seppur nella sola sfera patrimoniale dell'interessato) e che presuppone l'accertamento della penale responsabilità del soggetto» rende «recessivo il principio generale dell'obbligo di immediata declaratoria di una causa estintiva del reato rispetto al correlativo e coesistente obbligo di accertamento» (Cass. sez. III, 13 luglio 2017, n. 53692/17, Martino).

Si è in presenza, dunque, non solo di una nuova previsione di matrice giurisprudenziale, bensì dell'abrogazione di una norma da parte della giurisprudenza; il tutto, peraltro, in contrasto con l'interpretazione giurisprudenziale, confermata di recente anche dalle Sezioni Unite (Cass., sez. Un., 27 aprile 2017, Iannelli, in C.E.D. Cass., n. 269810), secondo cui l'art. 129 c.p.p. «si muove nella prospettiva di interrompere, allorché emerga una causa di non punibilità, qualsiasi ulteriore attività processuale e di addivenire immediatamente al giudizio, cristallizzando l'accertamento a quanto già acquisito agli atti».

Non solo, d'altronde, la prosecuzione del giudizio, pur in presenza della prescrizione, al fine di applicare comunque una sanzione è soluzione contraria ad ogni logica, prima tra tutte a quella che anima l'istituto della prescrizione; ma la soluzione adottata, in ogni caso, determina problematiche ulteriori. Si pensi, infatti, ad aspetti più materiali del giudizio, dei quali, però, è pur sempre necessario tener conto, come, ad esempio, i suoi costi: le spese di giustizia, ai sensi dell'art. 535 c.p.p., sono poste a carico del condannato con la sentenza di condanna; in un caso come quello in esame esse, invece, graverebbero inevitabilmente sul sistema, considerato che nell'accertamento compiuto in costanza di prescrizione non vi è un condannato, né vi è una sentenza di condanna, a pena di infrangere la presunzione di non colpevolezza.

Come si è detto, peraltro, l'orientamento giurisprudenziale che vorrebbe l'applicazione della confisca anche in caso di prescrizione in primo grado contrasta con il diritto positivo: la soluzione offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza Lucci (che la stessa III sezione della Suprema Corte dimostra comunque di seguire: cfr. Cass., sez. III, 14 luglio 2017, n. 34537, non massimata) è stata di recente fatta proprio dal legislatore, che, come spesso accade, rimane affascinato da alcuni interventi giurisprudenziali e li “converte” in norma. Il decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21 – uno dei decreti attuativi della c.d. legge Orlando – ha introdotto, infatti, l'art. 578-bis c.p.p., che, rubricato “Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione”, così prevede: «quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell'articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato».

Il legislatore, dunque, ha stabilito che se la prescrizione matura dopo una sentenza di condanna il giudice d'appello deve decidere «sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato»: e ciò vale anche in caso di confisca urbanistica (non a caso, nella sentenza in commento, la Corte cita la disposizione in esame come confermativa della possibilità, già in precedenza asseritamente esistente, di applicare la confisca dichiarando la prescrizione, come accaduto nel caso sottoposto alla sua attenzione).

In realtà, dall'inserimento nel sistema processuale dell'art. 578-bis c.p.p., può inferirsi che, contrariamente a quanto sostiene la terza sezione della Corte di cassazione, il legislatore, nell'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, non ritiene sufficiente in primo grado, per l'applicazione della confisca, una sentenza che accerti la lottizzazione abusiva, senza condanna, a fronte della prescrizione: in caso contrario la previsione del nuovo art. 578-bis sarebbe una previsione superflua, un inutile doppione. A ben vedere, invece, la nuova disposizione ha il valore di un'interpretazione autentica, in senso indiretto, dell'art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, poiché indirettamente ne delimita la portata. Nel sistema, pertanto, esiste la possibilità – normativamente prevista – di applicare la confisca con una sentenza dichiarativa della prescrizione solo a condizione che il giudizio penda in grado d'appello o di cassazione e sia intervenuta, in primo grado, una sentenza di condanna.

La conclusione, però, riporta l'attenzione alla prima censura, palesandosi evidenti profili di contrasto dell'art. 578-bis c.p.p. con l'art. 27 Cost. e l'art. 6 § 2 CEDU: perché una sentenza che, pur non condannando, applichi una pena rappresenta un'evidente violazione della presunzione di non colpevolezza.

Il problema, in definitiva, è ancora lontano dall'essere risolto.

Guida all'approfondimento

CIVELLO, La sentenza G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia: un passo indietro rispetto alla sentenza “Varvara”? Ancora sui rapporti fra prescrizione e confisca urbanistica,in Arch. Pen. Web, 2018, Fasc. n. 3

DELLO RUSSO, Prescrizione e confisca. L'ultima interpretazione abrogans della terza Sezione, in Arch. Pen. Web, 2017

DELLO RUSSO, Prescrizione e confisca. L'impossibile raggiungimento di un punto di equilibrio, in Arch. Pen. Web, 2017

DELLO RUSSO, Prescrizione e confisca. La terza Sezione pone ulteriori (ma non definitivi) paletti, in Arch. Pen. Web, 2018

DELLO RUSSO, Prescrizione e confisca. La Terza Sezione enuncia le ragioni dello scollamento dalle Sezioni unite, in Arch. Pen. Web, 2018

DELLO RUSSO – ADDANTE, Questioni di confisca e prescrizione: la necessità di una condanna (anche non passata in giudicato), in Arch. Pen. Web, 2018, Fasc. n. 2

GALLUCCIO, Confisca senza condanna, principio di colpevolezza, partecipazione dell'ente al processo: l'attesa sentenza della Corte EDU, Grande Camera, in materia urbanistica, in Dir. Pen. Cont. (web), 2018, fasc. n. 7

LO GIUDICE, Confisca senza condanna e prescrizione: il filo rosso dei controlimiti, in Dir. Pen. Cont. (web), 2018, fasc. n. 4

RANALDI, Confisca urbanistica senza condanna e prescrizione del reato: interrogativi sui rimedi processuali azionabili, dopo che la Grande Camera ha delineato un “equilibrio” possibile, in Arch. Pen. Web, 2018, Fasc. n. 3

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