La Consulta espunge dal sistema le misure di prevenzione nei confronti dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”

28 Marzo 2019

Con la pronuncia in commento la Consulta tende a delineare, una volta e per tutte, una sorta di statuto generale delle misure di prevenzione, ricostruendone la natura giuridica e i presupposti alla luce dei parametri, in parte nuovi, emergenti dal contesto convenzionale e costituzionale; lo fa prendendo le mosse dall'analisi delle principali tappe che ne hanno caratterizzato l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale, non sempre lineare e intimamente coerente.
Massima

La Corte Costituzionale:

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto2010, n. 136), nella parte in cui consente l'applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1);

2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 della legge 22 maggio 1975, n.152 (Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico), nel testo vigente sino all'entrata in vigore del d.lgs. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell'art. 1, numero 1), della legge 1423 del 1956;

3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs.159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell'art. 1, lettera a);

4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 del d.lgs. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell'art. 1, comma 1, lettera a);

5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 5della legge 1423 del 1956, dell'art. 19 della legge 152 del 1975, e degli artt.1, 4, comma 1, lettera c), 6 e 8 del d.lgs. 159 del 2011, sollevate, tutte con riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo in Italia con decreto del Presidente della Repubblica n. 217 del 14 aprile 1982, dalla Corte d'appello di Napoli con l'ordinanza indicata in epigrafe (r. o. n. 154 del 2017);

6) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 5della legge 1423 del 1956, e degli artt. 1, 4, comma 1, lettera c), 6 e8 del d.lgs. 159 del 2011, sollevate, tutte con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, dal Tribunale ordinario di Udine con l'ordinanza indicata in epigrafe (r. o. n. 115 del 2017);

7) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt.1,6,8,16,20 e24 del d.lgs. 159 del 2011, con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, e all'art.25, terzo comma, Cost., nonché degli artt. 20 e24 del d.lgs. 159 del 2011, con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, tutte sollevate dal Tribunale di Padova con l'ordinanza indicata in epigrafe (r. o. n. 146 del 2017).

Il caso

All'attenzione della Corte Costituzionale sono state poste tre ordinanze di rimessione, tutte provenienti da giudici di merito, aventi a oggetto – su alcuni temi in modo praticamente sovrapponibile – la compatibilità con la Costituzione e con la CEDU del sistema prevenzionale relativo alla cd. “pericolosità semplice” e, quindi, la possibilità di irrogare misure di prevenzione personali e patrimoniali nei confronti dei soggetti di cui all'art. 1, lett. a) e b),del decreto legislativo 159/2011 che sul punto ha pedissequamente recepito la previgente legge 1423/1956, art. 1.

Con ordinanza del 15 marzo 2017 (r. o. n. 154 del 2017), la Corte d'appello di Napoli ha, infatti, censurato la legittimità costituzionale degli artt. 1,3 e 5della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (che consentiva l'applicazione delle misure di prevenzione personali ai citati soggetti), dell'art. 19 dellalegge 22 maggio 1975, n. 152 (che permetteva di disporre sequestro e confisca di prevenzione nei riguardi dei pericolosi cd. “semplici” o “generici”, categoria distinta rispetto ai pericolosi cd. “qualificati”, responsabili di reati di mafia e terrorismo), nonché degli artt. 1,4, comma 1, lettera c), 6 e 8 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, riproduttivi della precedente normativa).

Ancora, è stata denunciata la contrarietà del solo art. 19 della legge 152 del 1975 all'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e all'art. 42 Cost.

Tale formulazione dei quesiti, apparentemente ripetitiva e frammentata, è collegata al fatto che il codice antimafia, all'art. 117, ha stabilito che le nuove disposizioni non si applicano ai procedimenti nei quali - alla data di entrata in vigore della legge (13 ottobre 2011) - fosse già stata formulata proposta di applicazione di misure di prevenzione, procedure per le quali continuano ad applicarsi le norme previgenti, ovvero la legge 1423/1956 e la legge 575/1965, pur espressamente abrogate dal codice antimafia.

Emerge, quindi, un doppio regime: per le procedure nate da proposte depositate prima del 13 ottobre 2011 opera una sorta di reviviscenza delle citate leggi del 1956 e del 1965, mentre per i procedimenti originatisi da proposte successive a tale data vige il codice antimafia.

L'articolo 19 della legge 152/1975, invece, è stato coinvolto in quanto trattasi della disposizione che, come accennato, ha esteso la facoltà di disporre misure di prevenzione patrimoniali ai soggetti di cui all'art. 1, numeri 1) e 2), della legge 1423/1856, poi riconfluiti nell'art. 1 del codice antimafia.

Il giudice a quo era stato investito dell'impugnazione avverso un decreto del Tribunale di Napoli con il quale erano state applicate, nei confronti di una persona ritenuta portatrice di cosiddetta "pericolosità generica", la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di quattro anni, con obbligo di soggiorno nel territorio del Comune di residenza, nonché la misura di prevenzione patrimoniale della confisca, ai sensi appunto dell'art. 19 della legge 152 del 1975, di numerosi beni mobili e immobili.

La censura si incentrava sull'asserito contrasto delle norme citate con l'art. 117, primocomma, della Costituzione, in relazione all'art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), nonché – in riferimento all'art. 19 della legge 152/1975 - in relazione all'art. 1 del Prot.addiz. CEDU («Protezione della proprietà») e con l'art. 42 Cost.

Con ordinanza del 4 aprile 2017 (r. o. n. 115 del 2017), il Tribunale ordinario di Udine ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1,3 e 5 dellalegge 1423 del 1956, e degli artt. 1,4, comma 1, lettera c), 6 e 8 del d.lgs.159 del 2011, tutti con riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, nell'ambito di un giudizio originato da un'istanza di revoca di una misura di prevenzione personale.

Le questioni sono identiche a quelle sollevate con l'ordinanza della Corte d'appello di Napoli, con l'unica differenza che il Tribunale di Udine limita le proprie censure alla disciplina relativa alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e non anche alla normativa che costituisce il presupposto applicativo della misura patrimoniale della confisca di prevenzione alle medesime fattispecie di "pericolosità generica".

Infine, con ordinanza del 30 maggio 2017 (r. o. n. 146 del 2017), il Tribunale ordinario di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt.1,4, comma 1, lettera c), 6,8,16,20 e 24 del d.lgs. 159 del 2011, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, nonché con l'art. 25, terzo comma, Cost. e con l'art. 13 Cost.;ha anche censurato di incostituzionalità gli artt. 16,20 e 24 del d.lgs. 159del 2011 per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 1Prot. addiz. CEDU.

Le questioni - che prendono spunto da un giudizio di prevenzione volto all'applicazione delle misure della sorveglianza speciale e della confisca nei confronti di una persona inquadrata tra i soggetti di cui all'art. 1, comma 1, letterea) e b), del d.lgs. 159 del 2011 - sono in gran parte analoghe a quelle sollevate dalla Corte d'appello di Napoli, con le seguenti differenze: a) per ragioni di rilevanza temporale, nel giudizio principale sono state censurate solamente le norme del vigente d.lgs. 159 del 2011 (e non anche quelle delle previgenti leggi n.1423 del 1956 e n. 152 del 1975); b) vengono invocati, nell'ambito delle questioni attinenti alle misure personali di prevenzione, anche i parametri costituzionali di cui all'art. 25, terzo comma, Cost. e 13 Cost.; c) vengono impugnati, nell'ambito delle questioni attinenti alle misure patrimoniali di prevenzione, anche gli artt.16,20 e 24 del d.lgs. 159 del 2011.

La questione

La Corte ha preliminarmente disposto la riunione dei tre ricorsi, dal momento che le questioni prospettate - non identiche tra loro quanto a petitum e a parametri invocati, ma tutte afferenti ai presupposti che legittimano l'applicazione di misure di prevenzione personali e, in due casi, patrimoniali - si fondavano su argomenti in larga misura analoghi.

Al netto delle numerose censure dichiarate inammissibili, osserva la Consulta che il vero fulcro delle problematiche poste alla sua attenzione è l'allegato difetto di precisione di due fattispecie astratte, previste dai numeri 1) e 2) dell'art. 1 della legge 1423 del 1956, nella versione modificata dalla legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), poi riprodotte in termini pressoché identici nelle lettere a) e b) dell'art. 1 del d.lgs. 159 del 2011 che – come visto - trova applicazione con riferimento alle proposte di misure di prevenzione depositate a partire dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo stesso (13 ottobre 2011).

Tali disposizioni consentono l'irrogazione - da un lato - della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, e - dall'altro - delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, a due categorie di destinatari: coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi (art. 1, numero 1, della legge 1423 del 1956, riprodotto in modo pressoché identico dall'art. 1, lettera a, del d.lgs. 159 del 2011), e «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» (art. 1, numero 2, della legge 1423 del 1956; art. 1, lettera b, del d.lgs. 159 del 2011).

Resta, pertanto, estraneo al giudizio della Corte il quesito se le previsioni in parola possano legittimamente operare anche quale presupposto applicativo di altre misure tuttora di competenza dell'autorità di polizia (in particolare, il foglio di via obbligatorio e l'avviso orale).

Tale difetto di tassatività e determinatezza è stato di recente stigmatizzato dalla sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo pubblicata il 23 febbraio 2017, pronunciata nel procedimento n. 43395/09, de Tommaso contro Italia, in cui la Corte EDU ha affermato che le previsioni degli artt. 1,3 e 5 della legge 1423 del 1956 si pongono in contrasto con l'art. 2del Prot. n. 4 CEDU proprio in quanto non presenterebbero i requisiti di chiarezza, precisione e completezza precettiva richiesti dalla Convenzione EDU e precluderebbero pertanto al cittadino di comprendere «quali condotte debba tenere e quali condotte debba evitare per non incorrere nella misura di prevenzione» e quali integrino la «violazione delle prescrizioni connesse all'imposizione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza».

Il citato vizio si riverbererebbe, quanto alle misure patrimoniali, anche nel contrasto con l'art.1 del Prot. addiz. CEDU che, al secondo comma, afferma che nessuna privazione della proprietà può avvenire se non alle condizioni «previste dalla legge».

L'incompatibilità delle norme censurate con i parametri convenzionali evocati determinerebbe l'illegittimità costituzionale delle stesse per contrasto con l'art.117, primo comma, Cost., non sussistendo a parere dei giudici a quibus alcuna via interpretativa per adeguare le disposizioni delle norme citate alla norma convenzionale, dovendo a tal fine il giudice comune procedere a una riformulazione complessiva delle disposizioni di legge in contestazione che, tuttavia, è riservata esclusivamente al Legislatore.

Inoltre, il citato precedente della Corte EDU avrebbe una portata precettiva tale che, sebbene non vincolante sul piano formale, si pone sul piano sostanziale quale criterio per l'interprete, anche suggerendo una rivisitazione dell'esplicazione del principio di legalità in materia di misure di prevenzione la cui osservanza in concreto - sotto il profilo della determinazione dei comportamenti tipici tali da determinare la sussunzione dell'individuo in soggetto connotato dalla cosiddetta "pericolosità generica" - viene demandata al giudice di merito.

Le soluzioni giuridiche

La Corte, al fine di risolvere le questioni postele, parte da una – necessariamente sintetica – ricostruzione dell'evoluzione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, analizzandone la genesi, risalente alla legislazione di polizia ottocentesca, e i successivi fondamentali passaggi in sede legislativa e giurisprudenziale; in particolare, si dà conto delle più importanti leggi susseguitesi nel tempo (la legge 1423/56, la legge 575/1965, la c.d. “legge Reale” n. 152/1975, la legge 327/1988, i due “pacchetti sicurezza” del 2008-2009 e infine il d.lgs. 159/2011) e delle pronunce con cui la Corte Costituzionale (sono citate, ad esempio, le sentenze n. 2/1956 e n. 11/1956 e soprattutto la sentenza n. 177/1980 che dichiarò l'incostituzionalità della categoria personologica dei “proclivi a delinquere” proprio per la sua eccessiva ampiezza e genericità) e la Corte EDU (qui il riferimento è alla sentenza Guzzardi c. Italia del 1980, relativa alla possibilità di applicare l'obbligo di soggiorno in un comune diverso da quello di residenza, poi eliminata con la citata legge 327) hanno cercato, nel corso degli anni, di adeguare il sistema alle sempre più sentite esigenze di “tassativizzazione” delle fattispecie prevenzionali e di giurisdizionalizzazione del relativo procedimento applicativo.

Da ciò, tuttavia, non deriva – la Corte lo ribadisce con chiarezza – che tali misure abbiano natura sanzionatoria o rientrino nella “materia penale” che impone il rispetto delle garanzie di cui agli articoli 6 e 7 della Convenzione EDU; le misure personali, invero, presentano natura preventiva e funzione dissuasiva, mentre quelle patrimoniali assumono carattere «meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell'illecita acquisizione del bene» oggetto di ablazione, del quale si presume pertanto la genesi “inquinata”.

Quanto alle misure personali, la Corte precisa che esse in tanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l'art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale (riserva assoluta di legge rinforzata, stante l'esigenza di predeterminazione legale dei «casi e modi» della restrizione, e riserva di giurisdizione).

Invero, la giurisprudenza costituzionale italiana attribuisce un livello di tutela ai diritti fondamentali dei destinatari delle citate misure che è superiore a quello assicurato in sede europea: la riconduzione delle misure in parola all'alveo dell'art. 13 Cost. comporta, infatti, che alle garanzie (richieste anche nel quadro convenzionale) a) di una idonea base legale delle misure in questione e b) della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema nell'ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell'autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell'individuo) debba affiancarsi l'ulteriore garanzia c) della riserva di giurisdizione, non richiesta in sede europea per misure limitative di quella che la Corte EDU considera come mera libertà di circolazione, ricondotta in quanto tale al quadro garantistico dell'art. 2 Prot. n. 4 CEDU.

In ordine alle misure patrimoniali, la Consulta chiarisce che, pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU).

Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui segnatamente: a) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della "base legale" della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU); b) l'essere la restrizione "necessaria" rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU) e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell'ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell'individuo, alla luce dell'art. 3 Cost.; nonché c) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che - pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni "giusto" processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta.

Proprio la peculiare natura della materia in analisi ha comportato che la stessa Corte Costituzionale abbia sempre escluso che nel giudizio di prevenzione operino meccanismi propri del giudizio penale, quali quelli tratteggiati dagli artt. 25, comma 2, 27, 111 e 112 Cost.

Così ricostruito il contesto storico-giuridico e precisato in modo netto l'ubi consistam degli strumenti in esame, la Consulta analizza i tentativi della giurisprudenza di legittimità di riempire di significato univoco le nozioni più problematiche (e, nel contempo, più importanti) del sistema, quali quelle di “abitualità” nella commissione di attività illecite, di “traffici delittuosi” e di “provento” che da tali condotte deriva.

Proprio la constatazione dell'insufficienza di tali (pur commendevoli) sforzi interpretativi, in uno con la necessaria distinzione tra tassatività sostanziale (che attiene al rispetto del principi di legalità inteso come garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie) e tassatività processuale, concernente invece il quomodo della prova e le modalità di accertamento probatorio, rappresentano il punto di partenza del percorso (parzialmente) demolitorio condotto dal giudice delle leggi.

Tale iter si consolida alla luce degli altri due macro-temi sui quali si fonda la decisione della Corte: l'apporto della sentenza EDU De Tommaso c. Italia e il contrasto, rinvenuto all'interno della giurisprudenza di legittimità, in merito alla definizione del concetto di “traffici delittuosi”, necessaria per valutare la compatibilità convenzionale delle ipotesi di cui alla lettera a) dell'art. 1 del codice antimafia.

In ordine al primo aspetto, si sottolinea come la Corte di Strasburgo abbia colà ritenuto che le disposizioni in parola non soddisfino gli standard qualitativi - in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – che deve possedere ogni norma che costituisca la base legale di un'interferenza nei diritti della persona riconosciuti dalla CEDU o dai suoi protocolli; in particolare, la Corte ha affermato che «né la legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le "prove fattuali" o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione».

La Corte europea ha pertanto ritenuto che la legge in questione non contenesse «disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società» (paragrafo 117), ribadendo altresì che le disposizioni sulla cui base era stata adottata la misura di prevenzione che aveva attinto il ricorrente «non indicasse[ro] con sufficiente chiarezza la portata o la modalità di esercizio della ampissima discrezionalità conferita ai tribunali interni, e non fosse[ro] pertanto formulat[e] con sufficiente precisione in modo da fornire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e consentire al ricorrente di regolare la propria condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l'applicazione di misure di prevenzione» (paragrafo 118).

In conclusione, si è affermato che le misure di prevenzione disciplinate nell'ordinamento italiano - dopo la scomparsa, nel 1988, dell'obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello di residenza, che aveva dato luogo alla condanna dell'Italia nella citata sentenza Guzzardi - costituiscono misure limitative della libertà di circolazione, sancita dall'art. 2 Prot.n. 4 CEDU; in quanto tali, esse sono legittime a patto che sussistano le condizioni previste dal paragrafo 3 della norma convenzionale in questione (in particolare: idonea base legale, finalità legittima, "necessità in una società democratica" della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti).

Il secondo profilo concerne, invece, l'incertezza interpretativa tuttora esistente in seno alla Corte di Cassazione in merito alla nozione di “traffici delittuosi”: da un lato, ad esempio, la sentenza n. 11846 del 2018 fa riferimento, sul punto, a «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti [...]», mentre dall'altro la pronuncia n. 53003 del 2017 si riferisce più specificamente al «commercio illecito di beni tanto materiali [...] quanto immateriali”.

La disamina di questi diversi passaggi conduce alle soluzioni enucleate dalla Corte: alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso, si ritiene oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell'art. 1, numero 2), della legge 1423 del 1956, poi confluita nell'art. 1, lettera b), deld.lgs. 159 del 2011, in modo da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» - oltre che in quali «modi» - essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.

La locuzione coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose è suscettibile, infatti, di essere riempita di contenuti mediante il riferimento a specifiche “categorie” di reati, che il giudice nel caso concreto individuerà - appunto in base ad “elementi di fatto” e non a congetture o illazioni - alla luce dei requisiti richiesti dalla legge (ovvero, il dato dell'abitualità nella commissione di illeciti, il fatto che tali condotte abbiano effettivamente generato profitti in capo al soggetto proposto e la circostanza che i citati proventi abbiano costituito l'unico reddito di costui, o quanto meno una componente significativa di esso).

Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l'esigenza - sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea – di individuazione dei «tipi di comportamento» assunti a presupposto della misura.

Ciò non vale, al contrario, per l'altra fattispecie di cui all'art. 1, numero 1), della legge 1423 del 1956, poi confluita nell'art. 1, lettera a), del d.lgs. 159 del 2011, che alla Consulta appare invece affetta da radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza de Tommaso.

Alla giurisprudenza nazionale, infatti, non è stato possibile riempire di significato certo, e ragionevolmente prevedibile ex ante per l'interessato, il disposto normativo in esame; prova ne sia l'oscillazione della Cassazione in ordine alla, centrale, nozione di traffici delittuosi che rende impossibile selezionare in maniera chiara le condotte la cui perpetrazione possa costituire il ragionevole presupposto per un giudizio di pericolosità del potenziale destinatario della misura e, parallelamente, consentire l'irrogazione di misure ablative, difettando qui la presunzione (relativa) di ragionevole origine criminosa dei beni, che invece costituisce la ratio delle misure di prevenzione patrimoniali.

Pertanto, le norme in questione non soddisfano le esigenze di precisione imposte tanto dall'art. 13 Cost. quanto (in riferimento all'art. 117, comma primo, Cost.) dall'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali, né quelle imposte dall'art. 42 Cost. e (in riferimento all'art. 117, comma primo, Cost.) dall'art. 1 del Prot. addiz. CEDU in ordine alle misure patrimoniali.

Da ciò consegue l'illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni che consentono di applicare le misure di prevenzione personali e patrimoniali ai soggetti indicati nell'art. 1, numero 1), della legge 1423 del 1956, poi confluito nell'art. 1, lettera a), del d.lgs. 159 del 2011coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi»).

Per le ragioni espresse innanzi, tali disposizioni si sottraggono invece alle censure di illegittimità costituzionale nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell'art. 1, numero 2), della legge 1423 del 1956, poi confluito nell'art. 1, lettera b), del d.lgs. 159 del 2011coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»).

Osservazioni

Con la pronuncia in commento la Consulta tende a delineare, una volta e per tutte, una sorta di statuto generale delle misure di prevenzione, ricostruendone la natura giuridica e i presupposti alla luce dei parametri, in parte nuovi, emergenti dal contesto convenzionale e costituzionale; lo fa prendendo le mosse dall'analisi delle principali tappe che ne hanno caratterizzato l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale, non sempre lineare e intimamente coerente.

Una volta chiariti i punti nodali e individuate le criticità del sistema, il giudice delle leggi risolve le questioni poste alla sua attenzione ragionando su due linee ermeneutiche distinte: da una parte la necessità di confrontarsi con la giurisprudenza euro-unitaria e, in specie, con l'autorevole precedente costituito dalla sentenza De Tommaso c. Italia, e dall'altra la constatazione dell'insufficienza degli sforzi ermeneutici portati avanti di recente dalla giurisprudenza nazionale di legittimità a colmare un deficit di tassatività e determinatezza insito nel testo della norma e non superabile in via d'interpretazione.

La sentenza appare particolarmente “dirompente” proprio in relazione a questi due aspetti specifici, ponendosi in contrapposizione netta con i più recenti arresti della Suprema Corte in materia sia riguardo alla portata della più volte menzionata sentenza De Tommaso, che in merito all'efficacia dell'interpretazione adeguatrice operata dalla Cassazione.

Né sfugge una certa contrapposizione, sia pur non dichiarata, rispetto alle conclusioni pur recentemente raggiunte dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015.

Sotto il primo profilo, non può infatti disconoscersi che gran parte del dibattito interno, all'indomani della pubblicazione della pronuncia di Strasburgo, è stato incentrato proprio sulla valenza del richiamato precedente (se esso, in altri termini, costituisse solo una “sentenza pilota”, ovvero fosse espressione di un “orientamento consolidato” tale da vincolare l'interprete nazionale); né va sottaciuto che la Consulta, nella sentenza in analisi, giunge a conclusioni molto diverse da quelle cui erano addivenuti alcuni giudici di merito e la stessa Cassazione.

Ad esempio, va ricordato che il Tribunale di Milano, Sezione Misure di Prevenzione (decreto del 7 marzo 2017) aveva sostenuto che la sentenza De Tommaso, pur provenendo dalla Grande Camera, non integrasse un precedente consolidato nei termini descritti dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49/2015 laddove si era affermato il principio secondo cui «solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea» vincola il giudice interno anche nel sollevare la questione di costituzionalità qualora non sia possibile un'interpretazione “conforme”.

Al contrario, nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo; rilevano, in tal senso, anche le «modalità organizzative del giudice di Strasburgo. Esso infatti si articola per sezioni, ammette l'opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera” e si precisa di converso che “Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento… vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale».

Seguendo tali parametri i giudici milanesi avevano sostenuto la compatibilità del sistema con la CEDU e il carattere isolato della pronuncia in esame: ciò, in primis, per la novità della questione (mai specificamente affrontata dalla Corte EDU) e per il costante flusso della giurisprudenza convenzionale prima costante nel ritenere, anzi, conforme alla CEDU il sistema italiano delle misure di prevenzione e nell'individuare, piuttosto, le ragioni di eventuali violazioni nell'applicazione concreta delle norme che disciplinano le misure e non già nella loro formulazione; inoltre, per gli sforzi della giurisprudenza nazionale (in primo luogo della Corte Costituzionale e della Cassazione) nel senso di ricostruire l'impianto prevenzionale nazionale in termini di piena compatibilità con la Convenzione, in uno con il numero e la solidità delle opinioni dissenzienti (su questo punto, di cinque giudici, compreso il presidente).

Ma, soprattutto, era stato ritenuto rilevante sottolineare come la Corte, in quanto chiamata a giudicare un caso specifico di applicazione della ormai abrogata legge 1423, sia stata condizionata dal riferimento (nel decreto), ai fini dell'imposizione della misura, al soggetto sottoposto di non meglio precisate “tendenze criminali” piuttosto che di condotte specifiche, non essendo così posta in condizione di apprezzare in pieno i tratti peculiari delle norme vigenti, «posto che l'art. 1 del d.lgs. 159/2011 ha sì ripreso gli elementi costitutivi della pericolosità personale cd. “generica”, contemplati dalla norma abrogata, di cui è stata ritenuta l'inadeguatezza, proiettandoli però in una cornice sistematica diversa che contribuisce a precisare la fattispecie, aprendo nuovi spazi interpretativi sia ai giudici nazionali che a quello convenzionale».

Anche il Tribunale di Roma (decreto del 3 aprile 2017) e il Tribunale di Palermo (decreto del 28 marzo 2017), nell'applicare le misure di prevenzione personali, avevano parimenti ritenuto che la menzionata sentenza della Corte EDU non fosse d'ostacolo all'irrogazione delle citate misure e ciò in virtù di un'interpretazione convenzionalmente orientata delle norme del codice antimafia.

Dette pronunce chiarivano come la sentenza della Corte di Strasburgo fosse pur sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata e che, per altro verso, essa non può essere ritenuta un precedente consolidato per le ragioni già innanzi esposte funditus.

Da segnalare, infine, un interessante arresto della Suprema Corte (Cass. pen., Sez. I, 21 luglio 2017, n. 36258 ric. Celini e altri) che, ponendosi nel solco ermeneutico dei ricordati precedenti di merito, pareva affermare - sia pur non in modo esplicito - che la sentenza De Tommaso non costituisse espressione di un orientamento consolidato in seno alla Corte di Strasburgo, presentandosi invece quasi come una “sentenza pilota”.

Ciò in quanto essa si discosta significativamente dalle pronunce precedenti, che avevano sempre ritenuto il sistema prevenzionale italiano conforme alla Convenzione.

Inoltre – e questo passaggio conduce alla disamina dell'altro aspetto considerato fondamentale dalla Corte nella sentenza n. 24/2019 - si era osservato che il vulnus sotto il profilo della tipicità stigmatizzato in quella circostanza ben avrebbe potuto essere colmato dai giudici nazionali attraverso un'interpretazione particolarmente rigorosa in punto di valutazione della pericolosità sociale.

Il principio è stato ribadito ancora più recentemente da Cass. pen., Sez. I, 9 gennaio 2018, n. 349, ove è stata dichiarata manifestamente infondata la stessa questione di legittimità che oggi, invece, la Corte Costituzionale ha accolto.

La Suprema Corte aveva colà osservato che la valutazione della Corte EDU, nella più volte citata sentenza De Tommaso c. Italia, sulla “cattiva qualità” della legge in materia era certamente individuabile come un segnale di “sofferenza” del sistema della prevenzione, che sempre più tende a porsi come alternativa rispetto a quello delle sanzioni penali tradizionali.

Tuttavia tale giudizio, senza dubbio influenzato da uno specifico caso concreto (peraltro risalente al 2008, allorché il panorama normativo e giurisprudenziale sul tema era certamente diverso e più “arretrato”), non poteva «atteggiarsi in modo demolitorio nei riguardi dell'intera piattaforma legislativa in subiecta materia, che peraltro la stessa Corte europea ha più volte ritenuto convenzionalmente legittima».

D'altro canto, così si cercava di valorizzare quell'atteggiamento interpretativo - espresso dai giudici di legittimità - già teso a riconoscere, anche prima della menzionata pronuncia europea, portata tassativa alla fase cd. constatativa del giudizio di prevenzione, con necessario rispetto della portata di “connotazione” delle scelte linguistiche operate dal legislatore laddove ha richiesto che la pericolosità sociale fosse comunque desunta da “fatti” e non da mere congetture, illazioni o da vaghi sospetti.

In altre parole, si era affermato che, alla stregua dell'interpretazione della disciplina relativa alle misure di prevenzione emergente dalla giurisprudenza di legittimità, l'iscrizione del proposto in una categoria criminologica tipizzata poteva aver luogo sulla base non già di meri sospetti, bensì esclusivamente di un giudizio di fatto che ricostruisse le condotte materiali del medesimo, onde successivamente valutarle ai fini della verifica della sua pericolosità sociale.

Da ciò conseguiva che la legge interna non incorreva «in alcun difetto di chiarezza, determinatezza, precisione e prevedibilità degli esiti applicativi, integrante un vizio di qualità avente rilievo convenzionale».

Nello stesso senso anche Cass. Pen., Sez. VI, 11 ottobre 2017, n. 2385 (Rv. 272230) in tema di compatibilità degli artt. 1, comma 1, lett. a) e b), 4, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, con l'art. 117 Cost. in relazione all'art. 2, Prot. 4 CEDU, come interpretato dalla Grande Camera della Corte Edu con la sentenza del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, poiché, sulla base degli attuali canoni interpretativi della disciplina vigente, il giudizio di pericolosità generica non si fonda su meri sospetti, ma sulla verifica, obiettivamente riscontrabile, della consumazione abituale, o, comunque, non episodica, di condotte criminose qualificabili come delitti, fonte di illeciti arricchimenti, nonché, per la sola ipotesi di cui alla lett. b) dell'art. 1, della successiva destinazione di tali proventi al mantenimento del proposto.

La Corte Costituzionale ha ragionato in modo completamente diverso e, anzi, si può osservare che uno dei punti nodali sui quali si fonda la decisione è quello della inidoneità degli sforzi ermeneutici della giurisprudenza di legittimità a colmare il difetto di precisione della norma sui “pericolosi generici”; non si dimentichi, infatti, che proprio questo costituisce il discrimine tra l'eccesso di indeterminatezza e la mancanza di adeguata prevedibilità, che conducono alla declaratoria di incostituzionalità, e la compatibilità con i principi costituzionali e convenzionali invocati.

Invero, laddove la giurisprudenza è riuscita a riempire di contenuto le norme agganciandole a specifiche categorie di reato e consentendo, quindi, di individuare dei tipi di comportamento (types of behaviour) assunti a presupposto della misura in virtù dei requisiti previsti dalla legge (abitualità della condotta, generazione di profitti in capo all'autore e possibilità di ritenere che costui abbia vissuto in tutto o in parte con i citati proventi), la Corte ritiene costituzionalmente (e convenzionalmente) legittima la norma, disattendendo la questione pur sollevata dai giudici di merito.

Dove, al contrario, si registra il permanere di incertezze e oscillazioni in giurisprudenza ciò è considerato come spia di una struttura normativa che - anche a causa del “peccato originale” che he ha accompagnato la genesi nella forma di misure di polizia – appare irrimediabilmente vaga e imprecisa e, in quanto tale, contrastante con il principio di legalità come prima declinato.

Questo è proprio il caso dell'esempio riportato dalla Corte, allorché si sofferma sulla nozione che costituisce il fulcro delle norme dichiarate incostituzionali evidenziando come persino in seno ai giudici di legittimità non sia affatto chiaro cosa debba intendersi per “traffici delittuosi” atteso che parte della giurisprudenza aveva adottato una linea interpretativa piuttosto ampia, sostenendo (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 30 gennaio 2013, n. 19995) che tale espressione designasse qualsiasi attività delittuosa che comportasse illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti, mentre altrove (più recentemente Cass. Pen., Sez. II, 19 gennaio 2018, n. 11846 si era affermato che potessero assumere rilevanza non solo le condotte delittuose riconducibili a una tipica attività trafficante, ma anche quelle connotate dalla finalità patrimoniale o di profitto che si caratterizzano per la spoliazione, l'approfittamento o l'alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili. Ancora, in altre pronunce (Cass. Pen. Sez. VI, 21 settembre 2017, n. 53003) la nozione di traffici delittuosi era stata circoscritta alle «ipotesi di commercio illecito di beni tanto materiali (in via meramente esemplificativa: di stupefacenti, di armi, di materiale pedopornografico, di denaro contraffatto, di beni con marchi o segni distintivi contraffatti, di documenti contraffatti impiegabili a fini fiscali, di proventi di delitti in tutte le ipotesi di riciclaggio) quanto immateriali (di influenze illecite, di notizie riservate, di dati protetti dalla disciplina in tema di privacy, etc.) o addirittura concernente esseri viventi (umani, con riferimento ai delitti di cui al d.lgs. 286 del 1998 o di cui agli artt. 600 e segg. cod. pen. ed animali, con riferimento alla normativa di tutela di particolari specie) nonché a condotte lato sensu negoziali e intrinsecamente illecite (usura, corruzione) ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto (anche se non di contravvenzione)».

La lettura della sentenza n. 24 consente, forse, di sostenere che la decisione riposa più sulla valutazione dei limiti interni al sistema italiano della prevenzione, limiti intimamente collegati con la sua genesi e ritenuti non emendabili in via interpretativa, che non sulla portata realmente demolitrice della giurisprudenza della Corte EDU; ciò anche perché - si noti - la Consulta non si sofferma affatto sulla valenza (“sentenza pilota” oppure espressione di un “orientamento consolidato”) da attribuire al precedente pure citato, bypassando tutto il dibattito che aveva affannato su questo tema i giudici di merito e di legittimità e senza confrontarsi con le regole di valutazione espresse nella sentenza n. 49 dalla stessa Corte Costituzionale.

Insomma, evidentemente la soluzione viene fatta discendere non tanto e non solo dal sopravvenire della sentenza De Tommaso c. Italia, quanto più in generale dalla necessità di valutare la legge nazionale alla luce degli standard emergenti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea; la pronuncia de qua viene, invero, analizzata soprattutto come base fondante le diverse questioni di legittimità vagliate e come “pietra di paragone” rispetto alla quale valutare la bontà degli sforzi interpretativi della giurisprudenza nazionale.

In conclusione, occorre prendere atto di una decisione senza dubbio fortemente innovativa e attenderne i possibili sviluppi: potrebbe, infatti, accadere che il Legislatore, resosi conto del fatto che il sistema della prevenzione cd. “semplice” resta ormai in qualche modo “monco” e sbilanciato, intenda colmare il “vuoto” lasciato dalla sentenza in esame e lo faccia introducendo una disciplina più precisa, finalmente rispondente ai canoni di legalità imposti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea.

Potrebbe darsi, invece, che un intervento del genere non vi sia e, pertanto, l'interprete debba “rassegnarsi” a un meccanismo prevenzionale abbastanza depotenziato e ormai sempre più proteso verso la prevenzione antimafia, soprattutto sul versante patrimoniale.

Resta, inoltre, irrisolta la significativa aporia logica prodottasi nel sistema lasciando intatta la possibilità di applicare misure di prevenzione personali di competenza del Questore (in particolare, il foglio di via obbligatorio e l'avviso orale) anche ai soggetti abitualmente dediti alla commissione di traffici delittuosi, per i quali è stata invece esclusa la praticabilità delle misure di prevenzione di competenza dell'autorità giudiziaria (cfr. articoli 2 e 3 del codice antimafia che si riferiscono, in generale, al precedente articolo 1 nella sua interezza).

Infine, non può sottacersi che la sentenza in esame pare aprire la strada a numerose richieste di revoca di misure, personali e patrimoniali, disposte alla stregua della lettera a) dell'articolo 1 del codice antimafia, ovvero del previgente articolo 1 della legge 1423/56, e divenute definitive.

Tali provvedimenti potrebbero essere rimuovibili – per il venir meno di uno dei presupposti sui quali si era fondata la valutazione del tribunale - attraverso lo strumento dell'articolo 11 del decreto n. 159/2011, riproduttivo del vecchio articolo 7 della legge del 1956, in quanto il meccanismo della revocazione della confisca, disciplinato dall'articolo 28 del codice antimafia, oltre ad essere limitato alle sole misure patrimoniali e vincolato al rispetto di termini stringenti, risulta circoscritto al ricorso di precisi requisiti di ammissibilità che richiamano l'istituto della revisione delle sentenze penali di condanna e dai quali appare estranea la sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma giustificatrice della misura.

Né parrebbe esperibile il rimedio della cd.“revisione europea” introdotto con la sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 113/2011, correlato alla necessità di “conformazione” dell'ordinamento interno ai contenuti di sentenze definitive emesse dalla Corte di Strasburgo e il cui “contenitore” procedimentale è dato dagli articoli 11, comma 2, e 28 del codice antimafia, giacchè in questo caso non occorre confrontarsi con gli effetti di una pronuncia della Corte EDU definitiva, quanto con gli esiti di un vero e proprio pronunciamento della Corte Costituzionale, che ha rimosso dal sistema alcune disposizioni.

Allora, probabilmente la via da seguire in questi casi sarà quella – in presenza di misure ormai divenute definitive - dell'incidente di esecuzione quale strumento idoneo a eliminare una situazione non più conforme alla legge vigente, in presenza appunto di una decisione dichiarativa dell'illegittimità costituzionale di una norma di diritto sostanziale incidente sul giudicato.

Guida all'approfondimento

A. CAIRO-C. FORTE, Codice delle misure di prevenzione, II ed., NelDiritto, 2018-2019; R. MAGI, Per uno statuto unitario dell'apprezzamento della pericolosità sociale, n. 3/2017, su www.penalecontemporaneo.it; A. M. MAUGERI, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte Europea condanna l'Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, su www.penalecontemporaneo.it, 6 marzo 2017; F. MENDITTO, La sentenza della Corte Edu De Tommaso c. Italia: un'occasione da non perdere per la modernizzazione e la compatibilità convenzionale del sistema della prevenzione, in www.penalecontemporaneo.it, 28 aprile 2017; F. VIGANO', La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, su www.penalecontemporaneo.it, 3 marzo 2017; Corte d'appello di Napoli, ord. 14 marzo 2017, con nota di F. VIGANO', Illegittime le misure di prevenzione personali e patrimoniali fondate su fattispecie di pericolosità generica? una prima ricaduta interna della sentenza De Tommaso, in www.penalecontemporaneo.it, 31 marzo 2017.

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