É possibile la condanna dell’avvocato in solido con il cliente per il pagamento delle spese legali?

29 Marzo 2019

Il codice di procedura civile, agli artt. dal 91 al 98, regolamenta quella che viene identificata, nel linguaggio corrente, la “condanna alle spese”...

É possibile la condanna dell'avvocato in solido con il cliente per il pagamento delle spese legali?

Il codice di procedura civile, agli artt. dal 91 al 98, regolamenta quella che viene identificata, nel linguaggio corrente, la “condanna alle spese”.

Ivi sono previste diverse fattispecie che prendono in esame le differenti situazioni che si possono verificare all'esito di un giudizio.

Ad ogni modo, il principio generale è che “chi perde paga”, ovvero che colui il quale risulti soccombente, con una serie di distinguo che in questa sede non possono essere affrontati, sarà condannato anche al pagamento delle spese di lite.

Il codice di rito si riferisce, ovviamente, alla parte processuale e non all'avvocato che abbia patrocinato la causa, anche nella sua aveste professionale di procuratore della parte.

Senza poter ripercorrere tutta l'elaborazione sul punto, basti qui accennare al fatto che, nella dogmatica classica l'attività svolta dall'avvocato viene per così dire sdoppiata nella funzione propria di difesa, ove il professionista mette in campo la sua conoscenza al fine di sostenere la propria tesi e l'attività di procuratore ove egli svolga, come di fatto accade, un'attività processuale in nome e conto della parte rappresentata in giudizio.

Orbene, alcuna giurisprudenza di merito ha ritenuto che in questa sua seconda veste l'avvocato potrebbe essere passibile di condanna alle spese legali in applicazione dell'art. 94 c.p.c. che prevede che «Gli eredi beneficiati, i tutori, i curatori e in genere coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio possono essere condannati personalmente, per motivi gravi che il giudice deve specificare nella sentenza, alle spese dell'intero processo o di singoli atti, anche in solido con la parte rappresentata o assistita».

Su tale presupposto il tribunale di Cagliari, con sentenza n. 2247 del 19 giugno 2008, ha condannato, ai sensi dell'art. 94 c.p.c., l'avvocato difensore, in solido con il cliente, al pagamento delle spese processuali in favore della controparte, per aver intrapreso una lite senza la prudenza minima che impone l'art. 96 c.p.c.; la temerarietà consisteva nell'aver proposto una domanda giudiziaria nonostante la materia del contendere fosse già coperta dal giudicato di un decreto ingiuntivo definitivo.

Una pronuncia simile è stata emessa dal tribunale di Reggio Emilia 4 giugno 2007: «Il tenore letterale della disposizione di cui all'art. 94 c.p.c., che prevede la condanna alla rifusione delle spese dei rappresentanti e dei procuratori, non impedisce che, in presenza di determinate circostanze, la portata della disposizione venga estesa al difensore della parte, soprattutto quando il mandato alle liti gli conferisca poteri sostanziali di disporre della controversia quali il potere di conciliare, transigere, incassare somme, rilasciare quietanze, deferire il giuramento decisorio ecc.».

Tuttavia la costante giurisprudenza, anche di merito, è di parere opposto in quanto evidentemente la norma dettata dall'art. 94 c.p.c. non si riferisce al procuratore in senso tecnico quale può essere l'avocato incaricato del patrocinio di un giudizio per la parte.

Anche la Corte costituzionale ha avuto modo di esprimersi in tal senso nella sentenza 30 novembre 2007, n. 405 ove, valutando profili di incostituzionali degli artt. 82 e 91 c.p.c., ha stabilito che «per affermare l'irragionevolezza delle norme censurate, il rimettente opera una commistione tra ambiti diversi nei quali si collocano, da una parte, il rapporto tra cliente e difensore, regolato dalle norme civilistiche del mandato che prevedono, in caso di colpa del mandatario, un risarcimento del danno non commisurato necessariamente al solo costo del processo, e, dall'altra, il rapporto tra parte, difensore e giudice, strettamente funzionale alle esigenze proprie del giudizio, nel quale confluiscono aspetti pubblicistici riguardanti anche l'esigenza di assicurare la difesa tecnica e di garantire una equilibrata posizione delle parti in lite; che, proprio per questa netta distinzione di ambiti non è irragionevole la scelta del legislatore di mantenere separato il piano sostanziale del mandato alla lite da quello strettamente processuale della soccombenza; che non può essere evocato come tertium comparationis l'art. 94 c.p.c., in quanto esso concerne l'istituto – del tutto distinto dalla rappresentanza tecnica – della "parte in senso formale", che assume la qualità di parte per rappresentare quella "sostanziale" o per integrarne la capacità».

Sulla stessa lunghezza d'onda si è pronunciata, di recente, la Corte di cassazione, anche se su di un aspetto diverso, adottando, però, il medesimo principio: «In materia di spese processuali, la condanna di più parti soccombenti al pagamento in solido può essere pronunciata non solo quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ma pure nel caso in cui sussista una mera comunanza di interessi, che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute, ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi diretti a contrastare la pretesa avversaria. Ne consegue che la condanna in solido è consentita anche quando i vari soccombenti abbiano proposto domanda di valore notevolmente diverso, purché accomunate dall'interesse al riconoscimento di un fatto costitutivo comune, rispetto al quale vi sia stata convergenza di questioni di fatto e di diritto. (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la pronuncia con la quale la Corte d'appello, in sede di rinvio, aveva posto le spese processuali, in solido, a carico della parte condannata a corrispondere una somma a titolo di illegittima occupazione di un immobile, e dell'avvocato di quest'ultima, condannato a restituire le spese di lite percepite in qualità di antistatario, in ragione della cassazione e della riforma della sentenza impugnata)»- Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2018, n. 27476.

Stabilito quanto sopra, l'avvocato, quindi, non potrà essere condannato, in solido con la parte, al pagamento delle spese processuali.

Potrà, tuttavia, ritenersi responsabile nei confronti del cliente per violazione del mandato professionale qualora abbia svolto la propria attività difensiva senza utilizzare la dovuta accortezza, magari proponendo l'introduzione di un giudizio in modo del tutto avventato e temerario; in questo caso potrà anche essere passibile di sanzione disciplinare per la violazione delle norme deontologiche che impongono un prudente contegno nei confronti della parte assistita.

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