Rifiuto di sottoporsi all’alcoltest: il patteggiamento preclude al giudice di rilevare il mancato avviso di farsi assistere da un difensore

10 Aprile 2019

La richiesta di applicazione concordata della pena, presupponendo la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato, comporta che il giudice investito della stessa non possa rilevare, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. in caso di...
Massima

La richiesta di applicazione concordata della pena, presupponendo la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato, comporta che il giudice investito della stessa non possa rilevare, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. in caso di contestazione del reato di cui all'art. 186 cod. strada, sia in caso di effettuazione dell'esame che di rifiuto dello stesso, la mancanza dell'avviso ex art. 114 disp. att. c.p.p. della facoltà di farsi assistere da un difensore prima dell'alcooltest, trattandosi di nullità relativa sanata con la richiesta di patteggiamento.

Il caso

Il giudice per le indagini preliminari di Milano, a seguito di richiesta di applicazione della pena, dichiarava il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., in favore di un imputato tratto in giudizio per essersi rifiutato di sottoporsi al test alcoolemico.

Il giudice milanese fondava la propria decisione sulla circostanza che l'imputato, prima di manifestare il proprio rifiuto, non era stato preventivamente avvisato dagli agenti operanti della facoltà di farsi assistere da un difensore ex art. 114 disp. att. c.p.p.

La sentenza veniva impugnata dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano, il quale denunciava la violazione di legge sulla base che in relazione al rifiuto di sottoporsi agli accertamenti non ricorre l'obbligo degli agenti operanti di dare avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore.

Seppur in presenza di una richiesta di rigetto del ricorso espressa dallo stesso Procuratore Generale della Suprema Corte, la Cassazione annullava con rinvio la sentenza, stabilendo che, essendo suddetto avviso riconducibile nell'alveo delle c.d. nullità intermedie, la sua mancanza non può essere rilevata dal giudice, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., in quanto sanata con la richiesta di patteggiamento.

La questione

La sentenza in commento offre lo spunto sia per riaffrontare alcune tematiche già vagliate dalla Suprema Corte, sia per analizzare una decisione per così dire singolare.

In primo luogo, viene ribadito il principio secondo il quale, in tema di guida in stato di ebbrezza, l'avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore, ai sensi dell'art. 114 disp. att. c.p.p., deve essere rivolto al conducente del veicolo nel momento in cui viene avviata la procedura di accertamento del tasso alcoolemico, con la richiesta di sottoporsi al test ed anche nel caso in cui questi opponga il proprio rifiuto all'effettuazione dell'accertamento strumentale.

In secondo luogo, la Cassazione ribadisce che il mancato avvertimento è da considerarsi una nullità a regime intermedio e, pertanto, riconducibile, quanto alla sua rilevabilità e deduzione, alle disposizioni di cui agli artt. 180 e 182 c.p.p.

Infine, la Suprema Corte affronta le conseguenze processuali scaturenti dalla scelta del rito del patteggiamento, con implicita rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità e dunque precludendo al giudice del suo potere di rilevare d'ufficio le predette nullità anche quando costituiscono una causa di non punibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

Con il caso in esame, i giudici di legittimità mostrano di condividere l'orientamento prevalente, che trova conforto anche in una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Unite, n. 5396/2015, Bianchi), secondo cui, in tema di guida in stato di ebbrezza, «l'avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore, ai sensi dell'art. 114 disp. att. c.p.p., deve essere rivolto al conducente del veicolo nel momento in cui viene avviata la procedura di accertamento strumentale dell'alcolemia, con le richieste di sottoporsi al relativo test, anche nel caso in cui l'interessato opponga un rifiuto all'accertamento» (Cass. pen., Sez. VI, n. 34383/2017).

In particolare, la Corte trae le proprie argomentazioni dalla citata sentenza, nella quale emerge che l'art. 114 disp. att. c.p.p., in riferimento agli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone, di cui all'art. 354 c.p.p., è riferibile anche agli accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria relativi all'accertamento del tasso alcoolemico del conducente. Tale avvertimento, tuttavia, deve essere dato solo quando gli agenti operanti ritengono di desumere dalle circostanze di fatto un possibile stato di alterazione del conducente, sintomatico dello stato di ebbrezza, e, segnatamente, prima di procedere all'accertamento mediante etilometro.

Sulla scorta di tale principi si è affermato quindi che: «il sistema delle garanzie, delineato dal combinato disposto dell'art. 114 disp. att. c.p.p. e art. 354 c.p.p., scatta nel momento in cui la polizia giudiziaria procede all'accertamento, per via strumentale, del tasso alcolemico, invitando il conducente a sottoporsi alle due prove spirometriche, secondo le modalità indicate dall'art. 379 reg. esec. cod. strada tale sistema introduce, in sostanza, una verifica tecnica che prende avvio con la richiesta di sottoporsi al test strumentale e, in tale scansione, l'avvertimento del diritto all'assistenza del difensore costituisce presupposto necessario della relativa procedura, indipendentemente dall'esito della stessa e dalle modalità con le quali il test venga concretamente effettuato» (Cass. pen., Sez. VI, 9 febbraio 2018, n. 6526).

In altri termini, nei casi previsti dall'art. 186, comma 7, cod. strada, il sistema di garanzie delineato dall'art. 114 disp. att. c.p.p. e art. 354 c.p.p., viene in essere nel momento in cui gli agenti operanti procedono all'accertamento per via strumentale del tasso alcolemico e «l'invito a farsi assistere da un difensore di fiducia deve essere rivolto dagli organi di polizia nel momento in cui viene avviata la procedura, indipendentemente dal suo esito che potrebbe essere di rifiuto» (Cass. pen., Sez. VI, n. 29081/2018).

Ne consegue che un eventuale rifiuto all'accertamento è suscettibile di integrare la fattispecie di cui all'art. 186, comma 7, cod. strada, solo quando il soggetto sia stato preventivamente avvisato della facoltà di farsi assistere da un difensore.

Fermo quanto sopra, nella sentenza in commento, la Corte riafferma che il mancato avvertimento, alla persona da sottoporre al controllo alcoolemico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'art. 114 disp. att. c.p.p., è annoverabile fra le nullità di ordine generale a regime intermedio di cui all'art. 178 c.p.p. in quanto determina una inosservanza di norme che riguardano «l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato, nelle ipotesi non regolamentate dall'art. 179 c.p.p.» e che, in quanto tale«può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2, secondo periodo, c.p.p., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado» (Cass. civ. Sez. II, ord., 8 ottobre 2018, n. 24689).

Da ultimo, muovendo dal principio espresso da Cass. Pen., Sez. V nella sentenza n. 21287 del 2010 secondo cui «la richiesta di applicazione concordata della pena presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato», la sentenza in commento giunge ad affermare che il giudice milanese non poteva rilevare d'ufficio la suddetta nullità nemmeno ai sensi dell'art. 129 c.p.p., in quanto sanata con la richiesta di patteggiamento.

Osservazioni

La decisione espressa dalla Suprema Corte porta inevitabilmente ad affrontare alcune doverose riflessioni.

Il punto dolente della suddetta pronuncia, a parere di chi scrive, si incentra proprio sull'analisi della affermata preclusione per il Giudice, nascente dalla scelta dell'indagato di accedere al rito del patteggiamento, di rilevare d'ufficio una nullità intermedia costituente una causa di non punibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p.

Preliminarmente è opportuno ribadire che lo stesso art. 444 c.p.p. dispone che, in presenza di una concorde richiesta delle parti, il Giudice è chiamato sempre a verificare, oltre alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto e dell'applicazione delle circostanze prospettata dalle parti e alla congruità della pena, anche la ricorrenza di cause di proscioglimento ex art. 129, comma 1, c.p.p., (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2015, n. 1088, Sez. II, 27 gennaio 2015, n. 7683, Sez. IV, 7 giugno 2012, n. 27952) adottando, se del caso, una pronuncia assolutoria o di non doversi procedere quando riconosca che il fatto non sussiste, l'imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è preveduto come reato, il reato è estinto o manca una condizione di procedibilità.

È bene precisare che, secondo un consolidato orientamento, «il paradigma procedimentale che regola la cognizione del Giudice investito da una richiesta di applicazione della pena concordata dalle parti, assegna priorità alla verifica dell'insussistenza delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p., da compiersi aliunde, ossia indipendentemente dalla piattaforma negoziale, e precisamente sulla base degli atti del fascicolo del pubblico ministero. Soltanto in caso di negativa delibazione il Giudice può procedere alla valutazione dei profili di accoglibilità relativi alla correttezza della qualificazione giuridica, dell'applicazione e comparazione delle circostanze, ed alla congruità della pena concordata» (Cass. pen., Sez. VI, n. 5210/2019).

Pertanto, sussiste un obbligo di legge, espressamente disciplinato dallo stesso art. 444 c.p.p., che impone al Giudice adito di rilevare e valutare, preliminarmente alla verifica della correttezza del patteggiamento richiesto dalle parti, la presenza di eventuali cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; obbligo il cui assolvimento deve essere adeguatamente motivato: «In tema di patteggiamento, la motivazione della sentenza in relazione alla mancanza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p. può anche essere meramente enunciativa, poiché la richiesta di applicazione della pena deve essere considerata come ammissione del fatto ed il giudice deve pronunciare sentenza di proscioglimento solo qualora dagli atti risultino elementi tali da imporre di superare la presunzione di colpevolezza che il legislatore ricollega proprio alla formulazione della richiesta di applicazione della pena» (Cass. pen., Sez. II 6 ottobre 2015, n. 41785).

Ebbene, la decisione in commento pare stravolgere la ratio sottesa alla norma di cui all'art. 444 c.p.p., andando così a vanificare l'esistenza stessa della disposizione codicistica ed il potere attribuito al Giudice.

Peraltro, non può sottacersi il fatto che il principio estrapolato dalla sentenza n. 21287 del 2010 richiamata dalla Suprema Corte, a mente del quale «la richiesta di applicazione concordata della pena presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato», si riferisce ad una fattispecie totalmente diversa da quella esaminata dalla sentenza in commento, e cioè l'ipotesi in cui le parti che abbiano avuto accesso al rito speciale del patteggiamento impugnino la sentenza ex art. 444 c.p.p. per motivi attinenti alla qualificazione giuridica del fatto contestato.

Invero, la citata sentenza n. 21287 del 2010, afferma semplicemente che l'applicazione concordata della pena impedisce alle parti di poter dedurre eventuali nullità (anche assolute) con il ricorso in cassazione, ma certo non sottrae il Giudice dalla possibilità di rilevare ex officio una nullità intermedia ai sensi dell'art. 180 c.p.p. né, tantomeno, lo priva del suo potere/dovere previsto dall'art. 129 c.p.p. di valutare e rilevare la sussistenza di cause di proscioglimento: «Nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti (artt. 444 ss. c.p.p.), (queste) non possono prospettare con il ricorso per cassazione questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento formulata per il fatto contestato e per la relativa qualificazione giuridica risultante dalla contestazione, in quanto l'accusa come giuridicamente qualificata non può essere rimessa in discussione. L'applicazione concordata della pena, infatti, presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento e al consenso a essa prestato. Cosicché, in questa prospettiva, l'obbligo di motivazione del giudice è assolto con la semplice affermazione dell'effettuata verifica e positiva valutazione dei termini dell'accordo intervenuto tra le parti e dell'effettuato controllo degli elementi di cui all'art. 129 c.p.p. conformemente ai criteri di legge».

Del resto, in sede di convalida della richiesta di patteggiamento la sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. è prevista espressamente dal codice di rito come una delle possibili decisioni che il giudice può adottare.

Diversamente ragionando, si finirebbe, di fatto, per vanificare il richiamo all'art. 129 c.p.p. contenuto nell'art. 444 c.p.p. e per svilire completamente il potere di proscioglimento attribuito al giudicante.

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