Il danno da recesso anticipato va valutato sul canone registrato e non su quello effettivo dissimulato

Maurizio Tarantino
19 Aprile 2019

Chiamata ad accertare la legittimità del risarcimento danni a causa del recesso anticipato del conduttore per fatti compiuti da terzi, la Corte di Cassazione ha evidenziato che un introito illecito, derivante da un canone maggiore...
Massima

In tema di azione per il recupero dei danni subiti dal locatore a causa del recesso anticipato del conduttore, dovuto a causa del terzo (infiltrazione di acqua e umidità provenienti da altro immobile), non può integrare un danno la maggior misura pattuita tra le parti con l'accordo dissimulatorio, conseguendone che, in tale situazione, il giudice valuterà il risarcimento solo sulla base del canone effettivamente registrato.

Il caso

Tizia e Caia (proprietari e locatori), a causa dei danni subiti al proprio appartamento dalle infiltrazioni provenienti dall'immobile sovrastante di Sempronio, nonché del danno economico a titolo di recesso anticipato dei conduttori, chiedevano al giudice la condanna del convenuto al risarcimento dei danni subiti. Costituendosi in giudizio, Sempronio, resistendo alla pretesa, otteneva la chiamata in causa della società costruttrice dell'immobile deducendo che, in tesi, il danno sarebbe stato da imputare alla stessa. Il Tribunale accoglieva la domanda nei confronti del convenuto, con obbligo della costruttrice a tenerlo indenne. Successivamente, la sentenza era stata in parte riformata dalla Corte d'Appello di Catanzaro, la quale distingueva tra responsabilità custodiale, per le parti in proprietà esclusiva di Sempronio, e responsabilità per difetti di costruzione, riferiti, a loro volta, sia alle parti comuni che a quelle in dominio singolo. Su tale ultimo aspetto, la Corte condannava in solido il convenuto e la terza chiamata. Inoltre, la Corte territoriale aveva rideterminato il risarcimento del danno da anticipato recesso dei conduttori.

Avverso tale decisione, i ricorrenti locatori hanno proposto ricorso in cassazione eccependo, tra i vari motivi, che la Corte d'Appello avrebbe errato nella quantificazione del danno, atteso che il minor canone, risultante dal contratto registrato, era diverso rispetto agli accordi pattuiti dalle parti contrattuali. Invero, in relazione a tale ultimo aspetto, secondo i ricorrenti locatori, la Corte d'Appello avrebbe errato nell'omettere di considerare che il contratto di locazione era del 2003 e, quindi, era inapplicabile la norma introdotta dall'art. 1, comma 346, della l. 30 dicembre 2004, n. 311, sulla nullità degli accordi contrattuali locativi non registrati; sicché, tenuto conto dell'indipendenza dei profili tributari da quelli civili, i giudici del gravame avrebbero dovuto dar rilievo al canone maggiore effettivamente pagato, desumendolo dalle prove raccolte in giudizio.

La questione

La questione in esame è la seguente: integra un danno ingiusto il mancato guadagno di una parte del canone non dichiarato?

Le soluzioni giuridiche

In tal vicenda, gli odierni ricorrenti avevano ammesso la riscossione di un canone maggiore di quello dichiarato nel contratto registrato; quindi, secondo la Suprema Corte, l'entità del rateo locatizio rappresentava un fatto costitutivo della pretesa risarcitoria (dei danni da anticipato recesso dei conduttori). Ciò posto, secondo gli ermellini, la Corte d'Appello aveva “correttamente” escluso che potesse integrare un danno la maggior misura pattuita con accordo dissimulatorio del prezzo nullo.

In tema, l'orientamento giurisprudenziale ha chiarito che, nella locazione immobiliare ad uso abitativo, la nullità prevista dall'art. 13, comma 1, della l. n. 431/1998, sanziona esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di procedimento simulatorio; resta valido, invece, il contratto registrato rimanendo dovuto il canone apparente, fermo che il patto occulto, in quanto nullo, non è sanato neppure dall'eventuale registrazione tardiva (qui non accertata), fatto extra negoziale inidoneo a influire sulla validità civilistica (Cass. civ., sez. un., 17 settembre 2015, n. 18213). Il principio esposto è stato applicato anche al contratto in oggetto; difatti, era del tutto irrilevante la prospettiva dei ricorrenti della stipula del contratto nel 2003 e, quindi, dell'inoperatività dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004.

Quanto all'indipendenza dei profili tributari da quelli civili, i giudici di legittimità hanno precisato che le citate Sezioni Unite hanno supportato la conclusione della nullità del solo patto occulto anche con ragioni storiche e sistematiche rimarcando, sul punto, l'inferenza reciproca tra i profili tributari e quelli civili; invero, anche se, nella fattispecie scrutinata, le Sezioni Unite si sono riferite ai profili negoziali, è altrettanto vero che lo hanno fatto attribuendo alla ricostruzione dei rapporti, tra regime tributario e civile, una valenza generale il cui corollario, necessario per evitare antinomie, non può che essere l'operatività del principio anche in un ambito extra negoziale quale quello qui vagliato. Di conseguenza, in maniera legittima, la Corte ha escluso che “un introito illecito” fosse sussumibile, come tale, quale danno ingiusto (recesso anticipato dei conduttori). Per le suesposte ragioni, il ricorso è stato rigettato.

Osservazioni

La pronuncia in oggetto è interessante in quanto si presta ad alcune precisazioni in merito alla questione del danno ingiusto da recesso anticipato del conduttore.

In argomento, giova ricordare che al momento della stipula del contratto di locazione vengono indicate sia la data di inizio che la data di cessazione del contratto, ma può capitare che il conduttore (inquilino) richieda il recesso anticipato. Invero, in un contratto di locazione, sia ad uso abitativo che ad uso diverso, il conduttore può recedere dal contratto:

a) alla scadenza dell'annualità, dandone comunicazione con almeno sei mesi di preavviso, se stabilito nel contratto stesso;

b) anticipatamente, se ricorrono gravi motivi, inviando al locatore una raccomandata con ricevuta di ritorno sempre con sei mesi di preavviso (motivata con la ragione grave che consente il recesso).

In proposito, in assenza di una definizione normativa di “grave motivo”, per identificarne il significato è necessario far riferimento alla giurisprudenza. Oggi, in modo sostanzialmente unanime, si afferma che «i gravi motivi che consentono, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, il recesso del conduttore dal contratto di locazione, devono essere determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendergli oltremodo gravosa la sua prosecuzione» (Cass. civ., sez. III, 30 maggio 2014 n. 12291). Quindi, un motivo è grave quando: si sostanzia in un fatto estraneo alla volontà del conduttore; è sopravvenuto alla conclusione del contratto; rende oltremodo gravosa in termini economici, materiali o psicologici la prosecuzione del rapporto locatizio. Di certo, come nel caso di specie, costituisce grave motivo la presenza di problemi strutturali dell'immobile che il proprietario non affronta o affronta poco e male.

Proprio in tema di problemi strutturali, in altro precedente di merito, il conduttore recedeva dal contratto a causa delle condizioni di insalubrità dell'appartamento affetto da infiltrazioni di cui erano responsabili il proprietario dell'immobile sovrastante e il condominio. Per tali motivi, il locatore conveniva in giudizio i convenuti per ivi sentirli condannare al risarcimento del danno costituito da: canoni mensili non percepiti e spese di esecuzione delle opere necessarie per riparare la causa dei danni. Il giudice, in questo caso, ha escluso il risarcimento poiché l'immobile, oggetto di contenzioso per problemi infiltrativi, era stato, nelle more del giudizio, riproposto in locazione; difatti, l'attore (locatore) si era limitato a prospettare un giudizio di insalubrità dell'appartamento, senza mai dedurre, oltre che provare, che il medesimo fosse non utilizzabile (Trib. Roma 2 novembre 2018, n. 20996).

Dunque, dall'analisi di tale precedente, è possibile dedurre che il danno da perdita del canone di locazione è un danno da lucro cessante inteso come il mancato guadagno che si sarebbe prodotto se l'inadempimento non fosse stato posto in essere. Entrambi i concetti di danno emergente e lucro cessante, rappresentano le due componenti cui si fa comunemente riferimento per fornire la definizione unitaria del danno patrimoniale, ossia la forma di danno ingiusto che colpisce direttamente la sfera economico-patrimoniale del danneggiato.

Premesso ciò, è importante soffermarsi sulla c.d. ingiustizia del danno. In argomento, l'art. 2043 c.c. dispone che il soggetto responsabile è colui che cagiona ad altri un danno ingiusto. Secondo alcuni autori, il concetto di danno ingiusto, ove l'ingiustizia deve essere riferita al danno e non al fatto, assume un ruolo nodale nella qualificazione del fatto illecito e rappresenta il presupposto per la risarcibilità di ogni tipo di danno, sia patrimoniale che non patrimoniale. La condotta deve essere tale da cagionare un danno che si concretizza in una lesione di interessi, anche non necessariamente patrimoniali, meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico. Si è soliti affermare che il nostro sistema della responsabilità civile si regge sul principio dell'atipicità dell'illecito poiché i fatti illeciti si concretizzano attraverso la clausola generale dell'ingiustizia del danno. Tuttavia, non ogni danno è ingiusto; quindi, il vero punto di passaggio, consiste nell'identificare che cosa si deve intendere per ingiustizia del danno.

La responsabilità extracontrattuale è, infatti, responsabilità da danno ingiusto ed è quindi risarcibile solamente il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia. Allo stato attuale dell'evoluzione sistematica e giurisprudenziale, che comunque si mantiene sempre attenta e vivace, è possibile affermare che la responsabilità extracontrattuale sorge per l'avvenuta lesione di un interesse giuridico tutelato dall'ordinamento, che spetta al giudice di volta in volta selezionare ed individuare.

A questo punto, alla luce della citata ricostruzione, dobbiamo riflettere su quanto accaduto nella vicenda e, nel caso, capire quanto possa essere considerato ingiusto il mancato profitto, di un canone fittizio, in spregio delle norme sulla locazione. In argomento, abbiamo visto che, ai sensi dell'attuale art. 13, co. 1, l. n. 431 del 1998, nel caso di locazione a uso abitativo, il contratto resta valido per il canone apparente, mentre l'accordo “sottobanco”, per il pagamento del sovrapprezzo - quello cioè non dichiarato all'atto della registrazione all'Agenzia delle Entrate - è completamente nullo (Cass. civ., sez. un., 17 settembre 2015, n. 18213).

Il principio di diritto affermato supera, dunque, il precedente orientamento che aveva escluso la riconducibilità della simulazione parziale del contratto di locazione relativa alla misura del canone, all'art. 13 della legge citata, sul presupposto che la disposizione in esame doveva riferirsi al solo caso in cui, nel corso di svolgimento del rapporto, venisse pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario.

Pertanto, alla luce di quanto argomentato, oggi, se l'inquilino viene costretto dal locatore a firmare un contratto che indica un importo inferiore rispetto a quello reale (pattuito), ben può limitarsi - senza neanche agire in causa - a corrispondere solo quanto riportato sulla scrittura privata regolarmente registrata. Diversamente, qualora il locatore intendesse procedere giudizialmente nei suoi confronti, non avrebbe alcuna arma a propria difesa: per quella parte di canone nascosto, non potrebbe sfrattarlo né potrebbe avanzare un decreto ingiuntivo, visto che l'accordo “sottobanco” è come se non fosse mai stato siglato (è, cioè, inesistente anche per il diritto). Perciò, in merito all'ingiustizia del danno a causa del mancato guadagno del vero canone reale (nella fattispecie il danno era stato calcolato solo sul canone fittizio), a parere di chi scrive, la Corte non ha fatto altro che applicare i principi che sorreggono la disciplina locatizia: la tutela rafforzata per la parte debole del contratto, quella cioè costretta a non dichiarare un prezzo pur di poter restare dentro l'immobile.

C'è anche da dire che il contratto registrato con un canone apparente, seppur presenta un indubbio (e illecito) vantaggio per il padrone di casa, derivante dall'evasione fiscale, si risolve, poi, (come in questo caso), in un beneficio per l'inquilino il quale, in caso di morosità, non potrebbe essere condannato al pagamento di una somma diversa da quella risultante dal contratto; così, allo stesso modo, il locatore, in caso di eventuale danno da lucro cessante, non potrebbe richiedere una somma maggiore rispetto a quella registrata nel contratto: l'abuso del diritto non legittima la tutela di un diritto.

Da ultimo, giova anche ricordare che nei casi di nullità relativi all'importo del canone di cui ai commi 1 e 4 dell'art. 13 della l. n. 431/1998, il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può chiedere la restituzione delle somme indebitamente corrisposte in misura superiore al canone risultante dal contratto di locazione (comma 2, non toccato dalla legge di stabilità del 2016, e nuovo comma 6 corrispondete all'originario comma 5 dell'art. 13).

Guida all'approfondimento

Petrelli, Patti locatizi contrari alla legge, in Condominioelocazione.it;

Frivoli - Tarantino, Le invalidità della locazione ad uso abitativo, Milano, 2017, 143;

Celeste, Affitti in nero, canone apparente e registrazione tardiva, in Consulente Immobiliare, maggio 2016, fasc. 998, 830;

Inzitari - Piccinini, La responsabilità civile. Casi e materiali, Torino, 2009, 4.

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