Le violazioni del principio di competenza temporale

Vincenzo Busa
06 Maggio 2019

L'interesse erariale cui deve tendere l'azione di accertamento non coincide con la mera realizzazione dei tributi, bensì con la puntuale attuazione delle norme che declinano il precetto costituzione della capacità contributiva. In apparenza ovvio e scontato, tale assioma per lungo tempo è stato disatteso in nome dell'emergenza finanziaria e delle politiche di corto respiro che storicamente hanno condizionato l'evoluzione del sistema tributario. Un argomento significativo per testare la capacità di risposta degli apparati alle istanze evolutive del sistema è dato dall'applicazione del principio di competenza temporale, le cui vicende, molto più dei vuoti proclami del fisco amico, sono indicative della propensione ad affrontare in termini innovativi il tema degli interessi reali che muovono le politiche di controllo.
Premessa

L'interesse erariale cui deve tendere l'azione di accertamento non coincide con la mera realizzazione dei tributi, bensì con la puntuale attuazione delle norme che declinano il precetto costituzione della capacità contributiva. In apparenza ovvio e scontato, tale assioma per lungo tempo è stato disatteso in nome dell'emergenza finanziaria e delle politiche di corto respiro che storicamente hanno condizionato l'evoluzione del sistema tributario.

Un argomento significativo per testare la capacità di risposta degli apparati alle istanze evolutive del sistema è dato dall'applicazione del principio di competenza temporale, le cui vicende, molto più dei vuoti proclami del fisco amico, sono indicative della propensione ad affrontare in termini innovativi il tema degli interessi reali che muovono le politiche di controllo.

L'indagine che si propone attiene a uno dei canoni fondamentali dell'economia aziendale, ossia al frazionamento nel tempo della consistenza economico-patrimoniale che si traduce in adempimenti di tipo formale o strumentale, propedeutici all'attuazione del principio di periodicità del bilancio e strettamente funzionali all'esigenza di consentire verifiche e valutazioni di periodo, in applicazione di criteri contabili che in ogni caso non alterano la consistenza del patrimonio finale.

La misurazione delle grandezze e dei flussi economici assolve altresì all'esigenza di determinare la base imponibile ed assicurare il prelievo tributario in un determinato periodo d'imposta anziché in un altro. Se questa è la ratio delle disposizioni volte a quantificare e distribuire nel tempo la materia imponibile, ben può comprendersi come la violazione di esse dia luogo alla non corretta distribuzione temporale di un medesimo reddito e, quindi, all'assolvimento dell'obbligazione tributaria in un periodo d'imposta diverso da quello individuato dalla norma, in ogni caso senza incidere sulla determinazione del reddito finale né alterare la complessiva capacità contributiva delle aziende. La peculiarità delle disposizioni evocate emerge nettamente in occasione degli accertamenti fiscali che, nel ripristinare la corretta competenza di elementi reddituali, comunque dichiarati, realizzano un sostanziale spostamento di materia imponibile dando luogo a fenomeni di doppia imposizione.

Si pensi alle norme del Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR), approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che trattano della competenza temporale dei ricavi e dei costi, delle rimanenze, degli ammortamenti, della deduzione di spese di manutenzione e riparazione, della capitalizzazione di costi e di altre numerose disposizioni, la cui violazione ha come comune denominatore la distribuzione non corretta del reddito tra diversi periodi d'imposta, non certamente la definitiva sottrazione a tassazione della materia imponibile.

Ciò si riflette sul disvalore di tali violazioni e sulla definizione del relativo trattamento sanzionatorio, che dovrebbe saper distinguere, in relazione a fattispecie di infedeltà dichiarative analoghe sotto il profilo quantitativo, tra chi, ad esempio, ha erroneamente calcolato una maggiore quota di ammortamento e chi, invece, ha occultato i corrispettivi oppure portato in deduzione costi fittizi o non inerenti.

La sensibilità necessaria per valorizzare la peculiarità di tali norme incidenti su aspetti meramente contabili e formali, in altri paesi ormai consolidata da tempo, da noi è affiorata progressivamente mediante iniziative sporadiche che non è agevole ricondurre ad un disegno riformatore organico e sistematico.

In anni recenti il tema è stato interessato da rilevanti novità sul piano legislativo e dell'applicazione delle norme, che stimolano alcune interessanti riflessioni.

La competenza economica

Il principio della competenza economica costituisce uno dei postulati generali che guidano l'imprenditore nella predisposizione del bilancio, redatto nelle varie forme previste dal codice civile (cfr. artt. 2423, 2435-bis, e 2435-ter c.c.).

Ai fini civilistici, l'art. 2423-bis, primo comma, n. 3, c.c. dispone che nella redazione del bilancio, “… si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell'esercizio, indipendentemente dalla data dell'incasso o del pagamento …”.

Secondo il principio contabile OIC11 gli effetti delle operazioni devono essere rilevati contabilmente e i relativi ricavi attribuiti all'esercizio nel quale si verificano le seguenti due condizioni:

(i) il processo produttivo del bene o servizio è stato completato;

(ii) lo scambio è già avvenuto, con un passaggio sostanziale e non solo formale del titolo di proprietà.

L'imputazione dei ricavi guida anche l'imputazione dei costi, in virtù del principio di correlazione tra i costi e i ricavi di competenza, che può manifestarsi:

  • per associazione di causa ad effetto tra costi e ricavi,
  • per ripartizione dell'utilità o funzionalità pluriennale (ad esempio, negli ammortamenti) ovvero
  • per imputazione diretta di costi al conto economico dell'esercizio.

Stante il principio di derivazione affermato all'art. 83 del TUIR, secondo cui il reddito fiscale è determinato a partire dall'utile o dalla perdita risultante dal conto economico, cui vanno apportate le variazioni stabilite dalle norme tributarie, il principio della competenza economica rileva anche ai fini fiscali. Il legislatore tributario lo ribadisce all'art. 109, comma 1, del TUIR, nella previsione che “… i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi … concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza…”, con talune specificazioni necessarie per rimediare alla indeterminatezza della previsione civilistica, riguardanti, in particolare, il momento in cui si considerano conseguiti i corrispettivi delle cessioni di beni (data di consegna o spedizione e, per gli immobili, data di stipula dell'atto pubblico) e delle prestazioni di servizi (data di ultimazione).

Come da orientamento costante della giurisprudenza, le norme sulla competenza fiscale in linea di principio sono inderogabili in quanto rispondenti all'esigenza di non lasciare il contribuente arbitro dell'imputazione, in un periodo d'imposta o in un altro, degli elementi reddituali positivi e negativi (ex pluribus, cfr. Cass. n. 74774/2002; n. 6331/2007; n. 10981/2009; n. 7841/2015).

Implicazioni fiscali degli errori sulla competenza

Secondo i principi contabili (OIC 29 e IAS 8), è dato procedere alla correzione di errori che in esercizi pregressi abbiano dato luogo alla mancata rilevazione di componenti economiche positive o negative, mediante imputazione al conto economico dell'esercizio corrente di una sopravvenienza attiva o passiva di pari importo. L'emersione di tali sopravvenienze, che pure pone rimedio civilistico all'errore contabile, non rileva tuttavia ai fini fiscali: in assenza dei presupposti che ne legittimano la rilevanza ai sensi degli articoli 101 (sopravvenienze passive) e 88 (sopravvenienze attive) del TUIR, dette sopravvenienze non possono concorrere alla determinazione del reddito fiscale senza entrare in conflitto con le norme inderogabili che disciplinano la competenza fiscale. Da qui la legittimità degli accertamenti incentrati sul periodo d'imposta interessato dall'errore sulla competenza per recuperare a tassazione il componente positivo omesso ovvero neutralizzare il componente negativo indebitamente dedotto.

Questi accertamenti danno luogo però anche a un effetto duplicativo dell'imposizione, nell'eventualità che il ricavo o il costo, recuperato a tassazione con l'accertamento, dal contribuente sia stato rispettivamente assoggettato a tassazione in violazione della competenza ovvero non dedotto nel periodo d'imposta di competenza.

Si pensi, ad esempio, alla errata imputazione di un ricavo al conto economico 2019, anziché al 2018, che genera una infedeltà dichiarativa per il periodo d'imposta 2018; oppure alla infedeltà della dichiarazione propria del periodo d'imposta 2018, in ipotesi di errata imputazione al medesimo periodo di un costo di competenza del 2019.

Può notarsi come, in entrambi i casi, a fronte della dichiarazione nel periodo d'imposta 2018 di un reddito inferiore a quello dovuto, si abbia un maggior reddito di importo corrispondente erroneamente dichiarato nel periodo 2019, in relazione al quale è stata assolta una maggiore imposta.

Si consideri ancora l'erronea deduzione di una maggiore quota di ammortamento che abbia comportato una contrazione di reddito nel periodo assoggettato a controllo e, di riflesso, un corrispondente maggior reddito, per esaurimento dell'ammortamento, in un successivo esercizio.

Negli esempi proposti è evidente come l'eventuale recupero a tassazione della maggiore imposta relativa all'anno interessato dall'errore sulla competenza generi una doppia imposizione.

Per lungo tempo, degli effetti intertemporali di accertamenti volti a ripristinare la competenza, con effetti duplicativi dell'imposizione, l'organo di accertamento si è disinteressato, lasciando in balìa del proprio sconforto i contribuenti che, dopo aver riversato le somme dovute a titolo di maggiore imposta accertata, maggiorata di sanzioni e interessi, si vedevano costretti ad avviare un parallelo, defatigante procedimento di rimborso delle maggiori imposte assolte negli anni di competenza degli elementi di reddito recuperati a tassazione, peraltro non percorribile nei casi assai frequenti in cui fosse decorso il termine di 48 mesi dalla data del versamento, fisssato dall'art. 38 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602.

Si è posto quindi il problema di come evitare la doppia imposizione e, precisamente, come far valere concretamente il diritto affermato dalla Suprema Corte a ripetere il pagamento della maggiore imposta erroneamente corrisposta dal contribuente in violazione della competenza (cfr. Cass. n. 6331/2008 e n. 16023/2009).

Per rimediare a tale inconveniente si è rivelato inadeguato il riferimento al disposto dell'art. 110 del TUIR, secondo cui “La rettifica da parte dell'ufficio delle valutazioni fatte dal contribuente in un esercizio ha effetto anche per gli esercizi successivi. L'ufficio tiene conto direttamente delle rettifiche operate e deve procedere a rettificare le valutazioni relative anche agli esercizi successivi”.

Benché ispirata all'idea di porre rimedio alle doppie imposizioni, i circoscritti riferimenti di questa norma alle rettifiche delle valutazioni (di magazzino), che producano effetti peraltro solo in esercizi successivi e a condizione che anche quest'ultimi costituiscano oggetto di accertamento, di fatto ne hanno limitato l'applicazione a pochi casi.

L'affermazione del diritto al rimborso (Circolare 4 maggio 2010, n. 23/E)

Solo in epoca relativamente recente si è affermata l'esigenza di indagare sul disvalore di condotte in violazione della competenza, sottoponendo a revisione critica numerose pratiche amministrative ispirate da una visione conflittuale del rapporto con il contribuente più che dall'interesse ad affermare la giusta imposizione.

Una pietra miliare nel percorso evolutivo intrapreso dall'Amministrazione è stata posta con la Circolare n. 23/2010. Qua inizia la riflessione che ha progressivamente portato la stessa Amministrazione a farsi carico dell'esigenza di ponderare gli effetti applicativi del principio di autonomia del periodo d'imposta alla luce della effettiva capacità contributiva del contribuente, pervenendo alla conclusione che gli errori sulla competenza, laddove non ridondino a favore del contribuente, necessitano di un trattamento differenziato. In particolare, contestualmente al ripristino in sede di accertamento della corretta competenza di un componente di reddito, occorre considerare gli effetti duplicativi indotti, in ipotesi, dalla tassazione del medesimo reddito in un precedente periodo d'imposta, anche risalente nel tempo.

Il tratto innovativo della circolare si rinviene nel riconoscimento effettivo del diritto al rimborso, ammettendo la possibilità di presentare istanza di rimborso ben oltre i termini indicati dalla previgente impostazione di prassi, in tal modo contemperando il principio di autonomia dei periodi d'imposta con l'esigenza di evitare effetti duplicativi dei prelievi.

Afferma la circolare che nei casi in cui l'ufficio accertatore abbia attribuito un componente negativo di reddito alla competenza di un periodo d'imposta rispetto al quale il contribuente sia decaduto dalla possibilità di chiedere a rimborso la maggiore imposta versata, per decorrenza del termine di 48 mesi dalla data del versamento di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973, il rimborso può essere richiesto entro il termine di due anni “dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione ai sensi dell'art. 21, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Ciò indipendentemente dal formale rispetto del principio di previo transito al conto economico del componente negativo di reddito, enunciato all'art. 109, comma 4, del TUIR. È così scongiurato il pericolo che intervenga decadenza, consentendo al contribuente di recuperare l'imposta erroneamente assolta anche in periodi d'imposta per i quali siano spirati i termini per l'accertamento.

Si consideri che alla data di emanazione della circolare risultava poco praticabile la procedura di integrazione della dichiarazione ai sensi dell'art. 2, comma 8-bis del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, da avviare a pena di decadenza entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al successivo periodo d'imposta (anziché entro il più ampio termine per l'accertamento di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, come successivamente disposto dall'art. 5 del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito dalla l. 1 dicembre 2016, n. 255).

Nel presupposto che il rimborso è consentito non prima che la pretesa tributaria si sia resa definiva, chiariva la circolare che l'istanza di rimborso ai sensi del citato art. 21 possa essere presentata entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza confermativa dell'accertamento ovvero dalla data in cui la pretesa sia divenuta definitiva a qualsiasi titolo (per mancata impugnazione, acquiescenza, accertamento con adesione, mediazione tributaria o conciliazione giudiziale). La perentorietà del termine biennale per la presentazione dell'istanza di rimborso ai sensi del citato art. 21 è confermata dalla circostanza, evidenziata in circolare, che il più ampio termine decennale della prescrizione ordinaria può essere invocato soltanto ai fini della proposizione del ricorso, ai sensi dell'art. 19 del D.Lgs n. 546/1992, contro l'eventuale silenzio-rifiuto opposto all'istanza di rimborso.

L'affermazione del diritto alla compensazione (Circolare 2 agosto 2012, n. 31/E)

Merita rilievo anche la successiva Circolare n. 31/2012 che, ponendo termine alle pregresse pratiche di solve et repete, invita gli uffici a soprassedere alla riscossione della maggiore imposta conseguente al disconoscimento del costo dedotto in violazione del principio di competenza, dovendosi ammettere, invece, il diritto del contribuente a compensare detta imposta con il credito emergente dalla riliquidazione della dichiarazione cui il medesimo costo erroneamente non sia stato addebitato. Alla predetta riliquidazione l'ufficio procede direttamente, anche al di fuori del procedimento di accertamento, prestando “particolare attenzione alla presenza, ad esempio, di eventuali perdite, di differenze di aliquote e di diverse percentuali di deducibilità”. L'indicazione, in breve, è di attenersi alla prassi operativa in materia di liquidazione dei rimborsi, cui viene espressamente assimilata la compensazione del credito vantato dal contribuente, in ogni caso tenendo altresì conto di eventuali motivi ostativi tanto alla erogazione del rimborso quanto alla compensazione come, ad esempio, la presenza di carichi pendenti.

Da notare che la soluzione compensativa viene affermata in circolare nell'ambito dell'accertamento con adesione, come implicito incentivo a rinunciare al contenzioso. Gli uffici hanno tuttavia inteso correttamente la portata di tale affermazione che, sia pure ispirata all'interesse di incentivare la diffusione degli strumenti deflativi del contenzioso, indica la compensazione come rimedio generale contro le doppie imposizioni, che non può essere ristretto ai confini dell'accertamento con adesione né tanto meno ricondotto a valutazioni discrezionali dell'Amministrazione.

La circolare n. 31/E del 24 settembre 2013 ne dà ampia conferma.

Ulteriori profili applicativi del principio di competenza (Circolari 30 settembre 2012, n. 35/E e 24 settembre 2013, n. 31/E)

La soluzione individuata dalla circolare n. 23/2010 con riguardo ai componenti negativi di reddito, è stata estesa con Circolare n. 35/E del 2012 anche all'ipotesi di non corretta imputazione temporale di componenti positivi, ripresi a tassazione dall'ufficio accertatore in un periodo d'imposta anteriore o successivo rispetto a quello in cui hanno concorso erroneamente alla determinazione del reddito. Anche in tal caso infatti si realizza un fenomeno di doppia imposizione che deve essere evitato.

Il valore aggiunto della circolare n. 31/2013 sta tuttavia nell'avere attribuito rilevanza generale ai menzionati rimedi contro le doppie imposizioni, i quali pertanto possono trovare applicazione non solo in ipotesi di intervenuta rettifica della dichiarazione, ma anche nei casi in cui il contribuente abbia inteso rimediare autonomamente ai propri errori contabili facendo applicazione dei corretti principi contabili.

I menzionati documenti di prassi non avevano trattato il caso in cui, nel periodo d'imposta di corretta imputazione del componente negativo, il contribuente abbia esposto, in luogo dell'imposta suscettibile di rimborso, una perdita oppure un incremento della perdita dichiarata o un credito d'imposta.

Vi ha posto rimedio la Circolare n. 31/2013 evidenziando, con ampia argomentazione, come anche in questo caso si ponga l'esigenza di evitare la doppia imposizione.

Si pensi a un costo di competenza del 2016 erroneamente dedotto nel 2015 e, quindi, recuperato a tassazione in sede di accertamento; qualora l'esercizio 2016, cui va correttamente imputato il costo, per effetto del ripristino della competenza evidenzi una perdita, questa deve poter trovare riconoscimento fiscale coerentemente con quanto affermato nella circolare n. 23/2010. A tal fine, avendo presente che la deduzione del componente negativo genera una corrispondente maggiore perdita suscettibile di riporto in avanti e utilizzo in compensazione, nella Risoluzione n. 87/E del 28 novembre 2013 si afferma che il contribuente potrà evidenziare la maggiore perdita in apposita dichiarazione integrativa (di quella in cui avrebbe potuto utilizzare la maggior perdita), da presentare ai sensi dell'art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322/1998, entro il termine previsto per l'accertamento; e una volta decorso tale termine, potrà chiedere a rimborso la maggior imposta versata (non tenendo conto della maggiore perdita) secondo le modalità indicate nella circolare n. 23/2010 (v. precedente par. 4).

Aspetti controversi della trattazione amministrativa

A) Nelle riflessioni sul tema non ha trovato fin qui spazio un'analisi ad ampio spettro dei fenomeni di doppia imposizione indotti anche indirettamente dalla errata applicazione del principio di competenza temporale. In genere le trattazioni non vanno oltre l'imputazione dei costi e dei ricavi. Eppure il motivo ispiratore del principio di competenza è alla base anche del processo di ammortamento, della capitalizzazione dei costi, della quantificazione delle rimanenze, della deduzione degli accantonamenti, delle spese di manutenzione e riparazione, delle perdite sui crediti nelle procedure concorsuali e di altre fattispecie similari, tutte accomunate dalla finalità di distribuire nel tempo, secondo determinati criteri, la materia imponibile.

Anche in relazione a questi istituti potrebbero presentarsi, in sede di accertamento, fenomeni di doppia imposizione che impattano direttamente sui principi di affidamento e reciproca collaborazione enunciati nello

Statuto dei diritti del contribuente

, approvato con

Legge 27 luglio 2000, n. 212

. Anch'essi necessiterebbero pertanto di trattamenti in grado di contemperare il principio di autonomia dei periodi d'imposta con il divieto delle doppie imposizioni.

B) Il riconoscimento del diritto al rimborso o alla compensazione è stato affermato, nelle Circolari nn. 23/2010 e 31/2012, come rimedio contro le doppie imposizioni, tenendo in ogni caso “ferma l'applicazione delle sanzioni e degli interessi in relazione all'erronea imputazione temporale della competenza”.

Per quanto riguarda gli interessi, l'indicazione fornita è di calcolare nei modi ordinari quelli dovuti sulla maggiore imposta accertata e disconoscere, invece, gli interessi a favore del contribuente commisurati alla corrispondente imposta ammessa in compensazione. Ciò in base alla motivazione, recata dalla Circolare n. 31/2012, che “ ... l'ammontare rimborsabile riferito all'anno di corretta imputazione del componente negativo è immediatamente corrisposto, mediante la compensazione, nel momento stesso in cui sorge il diritto alla sua restituzione, ossia all'atto della definizione del procedimento di adesione.” Sembra riecheggiare in tale motivazione l'idea che la compensazione sia espressione non di un diritto ma di una iniziativa discrezionale dell'Amministrazione, così da collocare il credito del contribuente su un piano inferiore al debito da accertamento. La conclusione è ancora meno condivisibile ove si consideri che nella diversa, ma speculare ipotesi di ammissione del credito a rimborso, anziché in compensazione, le procedure automatizzate in uso presso l'Amministrazione verosimilmente liquidano a favore del contribuente, assieme al tributo, anche gli interessi. In ogni caso, non convince che, a fronte di un ipotetico errore sulla competenza, con imputazione, ad esempio, di un costo all'esercizio 2017 anziché al 2016 e conseguente recupero della maggiore imposta sul 2017, vengano liquidati gli interessi a favore dell'erario a decorrere dal 2018 (anno in cui il contribuente avrebbe dovuto versare la maggiore imposta relativa al 2017), senza considerare che lo stesso contribuente, privatosi della deduzione, ha indebitamente versato un'imposta di ammontare corrispondente già nel 2017 (anno di liquidazione delle imposte 2016).

C) Come si dirà in seguito, con il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 il legislatore ha inteso porre rimedio alla palese sproporzione delle sanzioni in precedenza applicabili, rispetto al disvalore delle violazioni del principio di competenza,.

Possibili estensioni applicative dei nuovi orientamenti sulla competenza

La soluzione compensativa indicata dall'Amministrazione, come rimedio generale contro le doppie imposizioni, può invocarsi non solo per le violazioni della competenza fiscale, ma anche per errori commessi dai titolari di redditi di lavoro autonomo che, in violazione del diverso criterio di cassa, abbiano dedotto un costo oppure omesso di dichiarare un compenso. Ovviamente, sempre che l'errore abbia indotto il pagamento di una maggiore imposta che duplica quella recuperata in sede di accertamento.

Si ritiene che il diritto al rimborso o alla compensazione, così come riconosciuto in presenza di errori che abbiano interessato l'imputazione dei ricavi o dei costi, possa essere ammesso anche a fronte della errata applicazione, con effetti duplicativi del prelievo, di altre disposizioni che allo stesso modo, come si è detto al precedente par. 7, siano finalizzate alla distribuzione del reddito d'impresa tra più periodi d'imposta (errori su ammortamenti, rimanenze, spese di riparazione e manutenzione eccedenti il cinque per cento, ecc.).

A ben guardare i nuovi orientamenti sull'applicazione del principio di competenza “allargata” offrono spunti utili per declinare in concreto i principi di affidamento e collaborazione sanciti dallo Statuto del contribuente, a iniziare dalla definizione dei contenuti del tanto atteso regolamento che, ai sensi dell'art. 8, comma 8, dello stesso Statuto, dovrà disciplinare “l'estinzione dell'obbligazione tributaria mediante compensazione…”.

La circostanza attenuante delle infedeltà dichiarative

Le soluzioni indicate dall'Amministrazione nelle circolari n. 23/2010 e n. 31/2012 per evitare le doppie imposizioni, si presentavano tuttavia inadeguate sotto il profilo delle trattamento sanzionatorio degli errori sulla competenza, stante la determinazione di applicare comunque, senza deroghe o attenuanti, le sanzioni ordinarie previste per l'infedele dichiarazione.

Inadeguata allo scopo si è rivelata anche la causa di non punibilità di cui all'art. 6, comma 1, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che esclude l'applicazione di sanzioni quando il contribuente, pur commettendo un errore sulla competenza fiscale, abbia osservato i principi contabili, ossia quando abbia omesso di apportare in dichiarazione una variazione in aumento del risultato economico del bilancio, necessaria per marcare la non coincidenza dei criteri civilistici con quelli fiscali. Tale rimedio non è applicabile infatti a fattispecie interessate da errori sulla competenza, normalmente commessi in violazione dei predetti principi contabili.

La stessa circolare n. 23/2010 ribadiva pertanto la necessità di tenere ferma l'applicazione della sanzione commisurata alla maggiore imposta accertata, determinata in misura variabile dal 100 al 200 per cento (ora dal 90 al 180 per cento) dell'imposta, così come previsto per la generalità delle dichiarazioni infedeli e indipendentemente dalle motivazioni sottostanti.

La questione di recente è stata affrontata dal legislatore. Nel presupposto che punire l'infedeltà oggettiva delle dichiarazioni, prescindendo dal disvalore delle violazioni che le hanno generate, non aiuti a migliorare i rapporti con i contribuenti né a incrementare il tasso di credibilità del sistema tributario, il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 ha inteso innovare il regime delle sanzioni applicabili alle fattispecie di erronea imputazione temporale dei componenti reddituali, con l'obiettivo di differenziarne il trattamento rispetto a più gravi violazioni come, ad esempio, l'occultamento dei ricavi o la deduzione di costi fittizi o non inerenti.

Il nuovo comma 4 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997, come novellato dal citato D.Lgs. n. 158/2015, prevede che la sanzione ordinaria per infedele dichiarazione, determinata nella nuova misura dal 90 al 180 per cento della maggior imposta accertata, venga ridotta di un terzo (così applicandosi dal 60 al 120 per cento) “quando…l'infedeltà è conseguenza di un errore sull'imputazione temporale di elementi positivi o negativi di reddito”, rilevante come circostanza attenuante della infedeltà dichiarativa.

In attuazione del principio del favor rei, le nuove disposizioni sanzionatorie si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2016 anche con riferimento a violazioni commesse in precedenza.

La riduzione opera al di fuori delle ipotesi di condotte fraudolente (“di cui al comma 3”) e a condizione che “il componente positivo abbia già concorso alla determinazione del reddito nell'annualità in cui interviene l'attività di accertamento o in una precedente”. Per quanto riguarda i costi - spiega la relazione illustrativa - è sufficiente che gli stessi non siano dedotti più volte.

L'attenuante in argomento scatta in presenza di errore sulla competenza temporale che, ad esempio, abbia indotto il contribuente a imputare un ricavo al conto economico e, quindi, al periodo d'imposta 2016, qualora l'ufficio accerti, contestualmente all'errore sul 2016, che lo stesso elemento non è stato dichiarato nel periodo di competenza 2017. Nell'esempio è soddisfatta la condizione, richiesta dalla norma, che il ricavo oggetto di accertamento (relativo al 2017) abbia concorso in precedenza (nel periodo d'imposta 2016) alla formazione del reddito.

La sanzione fissa in assenza di danno erariale

All'ultimo periodo del citato comma 4 è poi prevista la sanzione fissa di 250 euro qualora l'errata imputazione temporale del componente di reddito non abbia comportato un «danno per l'Erario». L'applicazione della sanzione in misura fissa, anziché proporzionale, dipende quindi dalle conseguenze dannose o meno della condotta tenuta dal contribuente, ossia da un evento, quale è il “danno per l'Erario”, che in assenza di criteri forniti dalla norma, dovrebbe valutarsi alla stregua dei parametri elaborati dalla giurisprudenza contabile ai fini della responsabilità amministrativa per danno erariale.

Al riguardo, la relazione illustrativa afferma che «si tratta esclusivamente delle ipotesi in cui l'anticipazione o la posticipazione dell'elemento reddituale non abbia prodotto alcun vantaggio nei confronti del contribuente», riportando l'esempio di chi anticipi erroneamente un componente positivo di reddito in un'annualità in perdita, così riducendo la perdita di periodo senza evidenziare alcun debito d'imposta. Laddove invece – prosegue la relazione - tale elemento positivo, nell'annualità di corretta imputazione, dia luogo a una maggiore imposta dovuta, deve ritenersi sussistente un danno erariale, con la conseguenza che la sanzione sarà applicata nella misura proporzionale ridotta di un terzo.

La relazione governativa non sembra risolvere tutte le difficoltà che l'applicazione della norma comporta. Non tanto perché dà rilievo al “vantaggio” per il contribuente e non al “danno per l'Erario” previsto dalla legge (nella relazione intesi evidentemente come eventi tra loro complementari), quanto per una inadeguata ponderazione degli effetti sostanziali della condotta del contribuente.

Sarebbe stato sicuramente più interessante riferire l'esempio citato in relazione all'errore commesso da un contribuente IRES, incidente su redditi assoggettati a imposta proporzionale, per sapere se anche in questo caso, a fronte della compensazione disposta in conformità alla Circolare n. 31/2012 e senza apprezzabili differenze nella situazione reddituale rispetto all'esercizio oggetto di accertamento, sia configurabile o meno un danno per l'erario.

Parimenti utile sarebbe stato considerare, sempre nell'esempio citato in relazione, che in assenza di errore sulla competenza, sarebbe emersa una maggiore perdita suscettibile di riporto in avanti, con la conseguenza che l'imponibile dell'esercizio successivo, pure incrementato del componente positivo, si sarebbe ridotto di un importo pari alla maggiore perdita riportata. Da qui la neutralità, anche in questo caso, dell'errore ai fini della quantificazione del debito d'imposta.

Sicuramente conferenti ai fini dell'applicazione della sanzione in misura fissa si presentano errori di competenza “ad impatto zero” riguardanti, ad esempio, acquisti di fine anno non venduti né aconsumati al 31 dicembre 2017, che siano erroneamente contabilizzati per la prima volta nell'esercizio 2018. In tal caso è evidente come l'omissione contabile non produca effetti sulla determinazione del reddito 2017, trattandosi di un costo sì di competenza del 2017, ma che il contribuente avrebbe dovuto “sospendere” mediante imputazione a rimanenza di un importo corrispondente.

Non sembra caratterizzata da un errore sulla competenza temporale, invece, la fattispecie esaminata nella circolare dell'allora Ministero delle finanze n. 180/E del 10 settembre 1998 che, nel commentare il disposto del richiamato art.6, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997, tratta propriamente delle violazioni che “in ogni caso non si considerano colpose” in quanto correlate a “rilevazioni eseguite nel rispetto della continuità dei valori di bilancio e secondo corretti criteri contabili …”. Pur nella difficoltà interpretativa indotta dalla non felice formulazione della norma che, come si è detto al par. 9, sembra riferirsi a violazioni di norme tributarie comunque consumate in applicazione dei corretti principi contabili, in quella circostanza il Ministero ebbe ad affermare che “il significato che [a dette violazioni] si può attribuire, in concreto, è quello di rendere non sanzionabili, ad esempio, le violazioni consistenti in inosservanza del principio di competenza temporale nella determinazione del reddito d'impresa, ossia l'errata imputazione a un esercizio, piuttosto che a un altro, di costi o ricavi determinati, sempreché siano stati applicati corretti principi contabili e sia stata rispettata la continuità dei valori di bilancio”.

Nella valutazione degli effetti dannosi o meno della condotta, merita rilievo il particolare trattamento degli interessi delineato nella circolare n. 31/2012, che si risolve in un vantaggio per l'erario, di per sé apprezzabile ai fini dell'attenuazione o esclusione del danno erariale (v. par. 7).

Per il caso dei costi dichiarati in via posticipata, si è pronunciata recentemente la CTP Bergamo nella sentenza 19 giugno 2017, n. 334/2017, che ha rigettato la tesi dell'ufficio, secondo cui, in caso di violazione della competenza fiscale, il danno erariale sarebbe in re ipsa. Al riguardo la Commissione ha chiarito che, ai fini del regime sanzionatorio in esame, “(…) il legislatore ha inteso promuovere una visione del rapporto tributario di tipo diacronico, obbligando ad estendere la disamina ad esercizi diversi da quello cui si riferisce l'accertamento (…)”; pertanto, non sussiste danno erariale quando, ad esempio, un determinato costo sia imputato a un esercizio successivo a quello di competenza, in quanto se è vero che in detto esercizio il contribuente avrebbe dovuto corrispondere una maggiore imposta è anche vero che nel precedente esercizio di competenza il contribuente stesso ha diritto a richiedere il rimborso della maggiore imposta indebitamente versata (in conseguenza della mancata imputazione dello stesso costo), venendosi così a “compensare” integralmente la partita di debito/credito verso l'Erario. Ha osservato pertanto la Commissione che, a voler accogliere la tesi dell'ufficio, “la relativa norma, che è stata dettata proprio con specifico riferimento a tale ipotesi, si risolverebbe in una vuota affermazione di principio, priva di concreto significato, e, dunque, del tutto inutile”.

Come per l'attenuante, anche per la sanzione fissa si riscontrano obiettive difficoltà nel definire l'ambito di applicazione della norma di riferimento. Al riguardo è auspicabile che, in considerazione anche della delicatezza dell'argomento, si consolidi al più presto l'orientamento della giurisprudenza tributaria, cui l'organo di accertamento possa fare univoco riferimento.

In ogni caso resta ferma l'esigenza di assicurare la proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore delle condotte, avendo presente che l'eventuale impiego di sanzioni improprie, non ispirate dall'interesse a contrastare pratiche di sottrazione al prelievo dei redditi, finirebbe per ostacolare il percorso evolutivo in atto del sistema dei controlli.

Gli errori sulla competenza nella valutazione del legislatore penale

Le implicazioni del principio di competenza hanno richiamato l'attenzione anche del legislatore penale, suggerendo una nuova definizione delle soglie di punibilità del reato di infedele dichiarazione di cui all'art. 4 del D.Lgs 10 marzo 2000, n. 74, orientata da una realistica valutazione del disvalore della condotta tenuta dal contribuente.

Per effetto delle modifiche apportate dal D.Lgs n. 158/2015, entrambe le soglie di punibilità di cui al comma 1 del citato articolo 4, come individuate alle lettere a) (“imposta evasa superiore … a euro centocinquantamila”) e b) (“ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante di indicazione di elementi passivi inesistenti, … superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque … superiore a euro tre milioni”), vanno ora determinate senza tener conto, tra l'altro, degli effetti indotti dalla “violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza”. In tal modo gli errori sull'applicazione del principio di competenza fanno ingresso nella norma penale, assumendo rilievo scriminante limitatamente agli effetti che possano aver prodotto sui parametri della punibilità. Considerato che per i motivi ampiamente illustrati nei precedenti paragrafi, non è configurabile alcuna connessione con il parametro degli “elementi passivi inesistenti”, gli errori in grado di riflettersi sui predetti parametri sono essenzialmente quelli che incidono sugli “elementi attivi” di competenza del periodo oggetto di accertamento e, sotto questo profilo, sugli esiti della dichiarazione. Occorre procedere pertanto a una sorta di “riliquidazione a fini penali” dell'avviso di accertamento che, passando attraverso la rideterminazione dei maggiori “elementi attivi” recuperati a tassazione, da assumere al netto di quelli indotti da errori sulla competenza (parametro sub b)), ridetermini di conseguenza anche la base imponibile e la relativa “imposta evasa (parametro sub a)).

La punibilità del reato dovrà infine valutarsi sulla base degli esiti di tale riliquidazione.

La valutazione penale sembra soffermarsi dunque solo su alcuni aspetti del complesso fenomeno degli effetti connessi con le violazioni del principio di competenza, di fatto attribuendo rilevanza penale soltanto agli errori che si riflettono su elementi attivi di reddito, come ad esempio i ricavi, le sopravvenienze attive e le rimanenze. Non trova apparente giustificazione in particolare la mancata valorizzazione ai fini penali di errori che cadono, invece, sulla imputazione a periodo di elementi negativi di reddito e che, allo stesso modo delle violazioni relative ai ricavi, evidenziano obiettivamente un ridotto grado di colpevolezza, specialmente nei casi in cui gli stessi componenti negativi, recuperati a tassazione in quanto erroneamente dedotti, non abbiano concorso alla formazione del reddito nel periodo di competenza.

Si osserva l'asimmetria della norma in esame rispetto alla disposizione commentata al par. 9 che prevede l'attenuazione della sanzione amministrativa per infedele dichiarazione, in presenza di errori sull'imputazione temporale di elementi sia positivi che negativi di reddito.

Il ravvedimento operoso come rimedio agli errori sulla competenza

L'Agenzia delle Entrate, nella Risoluzione n. 131/E del 23 ottobre 2017, ha fornito chiarimenti in merito alla possibilità di beneficiare, in sede di ravvedimento operoso, della circostanza attenuante prevista all'art. 1, comma 4, del D.Lgs. n. 471/1997(v. par.9), con conseguente riduzione di un terzo della sanzione amministrativa, nel caso di infedele dichiarazione derivante dalla violazione del principio di competenza.

Nella risoluzione si afferma che la riduzione del terzo opera solo in sede di accertamento, “con la conseguenza che il contribuente non può tenerne autonomamente conto per determinare la sanzione in caso di ravvedimento operoso. E ciò perché presupposto per la piena operatività della riduzione sanzionatoria è la presenza di un'attività di controllo […] volta a verificare che l'infedeltà commessa dal contribuente sia caratterizzata dall'elemento soggettivo della colpevolezza, dall'assenza di frode e costruita attraverso la condotta non insidiosa per l'Amministrazione finanziaria. In altre parole, solo l'ufficio può effettuare un'analisi ponderata di tutte le irregolarità riscontrate al fine di verificare l'esiguità della violazione e la scarsa insidiosità della condotta posta in essere.”.

Premesso che la competenza fiscale implica valutazioni tecniche e non di tipo discrezionale sulla natura della violazione, deve ammettersi che l'insieme delle menzionate valutazioni di competenza dell'ufficio, finalizzate alla determinazione in concreto della sanzione, vadano effettuate nei confronti della generalità delle violazioni, ivi comprese quelle che comportano l'infedeltà della dichiarazione. Nessuno dubita tuttavia della possibilità di integrare la dichiarazione infedele, con il beneficio delle sanzioni ridotte in applicazione del ravvedimento operoso, ferma restando la potestà dell'ufficio di rivedere il trattamento delle sanzioni autonomamente applicate dal contribuente e, se del caso, denegare la riduzione a seguito dell'accertamento di eventuali più gravi violazioni conseguenti, ad esempio, a condotte fraudolente. In breve, non sembra possa negarsi al contribuente la possibilità di procedere alla regolarizzazione della violazione, i cui effetti sono comunque subordinati al positivo esito dei riscontri che l'ufficio potrà comunque eseguire sui relativi presupposti.

Sotto tale aspetto, la regolarizzazione del contribuente, che abbia commisurato la più tenue sanzione da ravvedimento al 60 per cento della maggiore imposta versata (corrispondente al minimo edittale ridotto di un terzo), potrà dirsi corretta e definitiva solo all'esito di una verifica che confermi, tra l'altro, la effettiva configurazione della violazione attenuata di infedele dichiarazione (anziché di una violazione più grave) cui il contribuente ha inteso riferite la sanzione ridotta in sede e per effetto del ravvedimento.

Non si spiegherebbe diversamente l'apertura della stessa risoluzione che, in relazione alla reiterazione (ipotizzata e non accertata) negli esercizi successivi dell'errore sulla competenza, ne ammette l'“autonoma regolarizzazione”, tutto sommato in conformità alla ratio dell'istituto del ravvedimento, implicitamente riservandosi la possibilità di verificarne i presupposti (teoricamente mutevoli nel tempo) nella successiva eventuale fase di accertamento, in ossequio al principio di autonomia dei periodi d'imposta. Come per la generalità dei ravvedimenti, invero, anche in questo caso la regolarizzazione autonoma è stata ammessa pur sempre in assenza di accertamento.

Riflessi del tema sulla riqualificazione delle politiche di controllo

Il trattamento degli errori sulla competenza temporale, come si è visto, assume un ruolo di centrale importanza nel percorso evolutivo delle tecniche e delle politiche dei controlli, proponendosi come snodo determinante per evitare doppie imposizioni e realizzare significative economie di risorse operative, oltre che come tema fondativo del rapporto tra fisco e contribuente prefigurato dallo Statuto del 2000.

Le soluzioni indicate dall'Amministrazione, per quanto incomplete e suscettibili di approfondimenti, segnano un punto di non ritorno sulla strada che lascia definitivamente alle spalle le pregresse tendenze a non indugiare su fattispecie di rimborso e privilegiare, invece, la realizzazione delle entrate come obiettivo fine a sé stesso dell'azione di accertamento.

Complementare all'esperienza maturata nella gestione del principio di competenza e, pertanto, meritevole di segnalazione quale iniziativa allo stesso modo coerente con gli obiettivi istituzionali dell'Amministrazione finanziaria, è la revisione dei criteri di assegnazione del compenso incentivante la produttività del proprio personale. È nota la querelle che aveva accompagnato l'erogazione di premi al raggiungimento di determinati obiettivi quantitativi, legati all'entità delle maggiori somme introitate per effetto dell'azione di controllo al netto dei rimborsi eseguiti, nel presupposto implicito che i recuperi fossero assistiti da una presunzione di legittimità, invero tutta da dimostrare.

Da qualche anno, infatti, il premio è legato al raggiungimento di una serie di obiettivi di tipo anche qualitativo, che meglio e più direttamente esprimono la qualità e legittimità dell'azione amministrativa, quale si manifesta, in particolare, a seguito della capacità dei controlli di superare il vaglio di legittimità delle Commissioni tributarie. Non vi è dubbio come anche questa iniziativa, al pari di quelle che offrono soluzione agli errori sulla competenza, valga a sospingere correttamente l'azione di controllo verso obiettivi centrati sulla giusta imposizione.

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