Prescrizione del reato e confisca del prezzo e del profitto. Sull’applicabilità dei principi delle S.U. Lucci in caso di confisca facoltativa

Ciro Santoriello
06 Maggio 2019

Secondo la Corte d'Assise d'appello di Milano non vi è alcuna preclusione in ordine alla possibilità di applicare la confisca facoltativa del profitto del reato in un caso – come quello in esame – nel quale l'imputato è stato...
Massima

Il principio elaborato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 31617 del 2015, e in base al quale il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1 c.p., la confisca del prezzo e, ai sensi dell'art. 322-terc.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio, può operare anche riferimento all'ipotesi in cui la confisca del prezzo o del profitto sia prevista (non come obbligatoria, ma) come meramente facoltativa

Anche quando la confisca del profitto del reato è prevista come facoltativa, il giudice, nel ricorrere degli altri presupposti di legge, deve sempre procedere all'ablazione di tale profitto in ragione della pericolosità derivante dalla scelta di lasciare il risultato economico dell'illecito in capo al responsabile dello stesso, venendosi in tal modo ad offrire al reo un incentivo a delinquere. Tale considerazione non opera solo a fronte di precisi elementi concreti che, in termini inequivoci ed in ipotesi necessariamente marginali, permettano di disattendere, perché non giustificata nel caso concreto, la direttiva generale emergente dall'ordinamento, che impone sempre l'ablazione del profitto in attuazione della finalità special-preventiva dell'istituto (si può ipotizzare ad esempio il caso di beni di scarsissimo valore).

Il caso

Il provvedimento in commento rappresenta l'ennesima – e presumibilmente non definitiva – pronuncia giurisdizionale nell'ambito di un procedimento assurto anche alle cronache nazionali e relativo ad attività di dossieraggio ed utilizzo a fini patrimoniali di segreti d'ufficio posti in essere da investigatori privati che operavano per una primaria azienda di telecomunicazione italiana e che anche in virtù di tale rapporto di collaborazione hanno potuto procedere ad accesso ed intrusione illeciti in sistemi informativi di enti, aziende e privati cittadini.

Nell'ambito del procedimento, un particolare rilievo assumeva la decisione in ordine alle conseguenze patrimoniali dell'illecito. Infatti, il giudice di prime cure, ritenuta la fondatezza delle accuse, disponeva la confisca ai sensi dell'art. 240 c.p. dei beni e dei valori in sequestro: con particolare riferimento alla vicenda oggetto del provvedimento in commento, a carico di uno dei numerosi imputati, ritenuto fra i principali protagonisti della vicenda, veniva disposta la confisca di circa 12 milioni di euro giacenti su un conto corrente lussemburghese, circa 2 milioni di euro giacenti su un conto corrente svizzero e di una villa di sua proprietà dell'imputato, ritenendo che tali beni avrebbero rappresentato «parte del profitto» che l'imputato aveva direttamente tratto dal delitto associativo. In secondo grado, la Corte d'assise d'appello aveva riformato parzialmente la sentenza del primo giudice, dichiarando non doversi procedere per il reato di cui all'art. 416, commi primo e secondo, c.p. in quanto estinto per intervenuta prescrizione, e rideterminò di conseguenza la pena inflitta all'imputato, confermando però le statuizioni relative alla confisca, ritenendo che l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione non precluda al giudice dell'impugnazione la possibilità di disporre la misura patrimoniale, se l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come profitto è rimasto inalterato anche nel successivo grado di giudizio.

La difesa avanzò numerose censure innanzi alla Cassazione, la quale ne riconobbe la fondatezza con riferimento al profilo del provvedimento relativo alla confisca del profitto del sequestro. Riconosciuta la responsabilità dell'imputato con riferimento al delitto di associazione a delinquere, la Suprema Corte ritenne che la Corte d'appello aveva adeguatamente dimostrato che i beni oggetto del provvedimento ablatorio erano riconducibili alle attività di illecito “dossieraggio” poste in essere dall'imputato e che, pertanto, potevano considerarsi vantaggio direttamente derivante dal delitto di associazione per delinquere, ma al contempo riscontrò criticamente come le sentenze di merito non avesse chiarito lo specifico strumento ablatorio applicato nel caso concreto», essendosi limitate a ordinare la confisca ai sensi dell'art. 240 c.p. dei beni che costituiscono profitto dell'associazione a delinquere, senza però specificare se la confisca dovesse essere adottata ai sensi del primo o del secondo comma di tale disposizione, nonostante le diverse figure di confisca richiamate dall'art. 240 c.p. si fondano su presupposti applicativi differenti.

La questione

Per comprendere le riflessioni presenti nella decisione in commento occorre ricordare quanto asserito nella decisione delle Sezioni Unite n. 31617 del 2015, imputato Lucci, non a caso in più parti richiamata dalla Corte d'Appello.

Con questa decisione, le Sezioni Unite, nell'ottica dell'adozione di un provvedimento di confisca, provvidero a fornire una innovativa definizione dei concetti di pena e di condanna, definizione chiaramente improntata in senso sostanzialistico. Il ragionamento della Suprema Corte ha come principale presupposto la considerazione che «la confisca del prezzo del reato non presenti connotazioni di tipo punitivo, dal momento che il patrimonio dell'imputato non viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris» e quindi al provvedimento ablativo non può riconoscersi una finalità punitiva, «dal momento che l'acquisizione all'erario finisce per riguardare una res che l'ordinamento ritiene […] non possa essere trattenuta dal suo avente causa, in quanto […] non è mai legalmente entrata a far parte del patrimonio del reo». Una volta escluso che alla confisca del prezzo del reato possa essere riconosciuta natura sostanzialmente penale le Sezioni Unite ritengono che la confisca del prezzo del reato non presuppone un giudicato formale di condanna, ferma restando la necessità che la responsabilità del soggetto attinto dal provvedimento sia stata comunque giudizialmente accertata, anche se il processo non si è concluso con una definitiva sentenza di condanna.

Come è noto, le considerazioni in tema di confisca e prescrizione del reato valgono tanto con riferimento al prezzo che al profitto dell'illecito. Anche con riferimento al profitto, infatti, può svilupparsi la considerazione (indiscutibile quando riferimento all'ablazione del prezzo del reato) secondo cui la confisca del profitto del delitto è caratterizzata dalla «finalità ripristinatoria dello status quo ante … [volendosi] sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore».

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in esame rappresenta il nuovo intervento della Corte d'assise d'appello che ha dovuto, su sollecitazione della Cassazione, chiarire quale misura patrimoniale sia stata applicata in relazione ai beni dell'imputato e a verificare la sussistenza dei relativi presupposti. Nello svolgimento di tale compito, il giudice di merito conferma il provvedimento, qualificando lo stesso – come richiesto dalla Corte di legittimità – quale confisca facoltativa del profitto del reato ai sensi dell'art. 240, comma primo, c.p., e non come ipotesi di confisca obbligatoria, perché i beni oggetto dell'ablazione non costituiscono il prezzo del reato, né possono essere considerati cose utilizzate per commettere il reato o cose intrinsecamente illecite, e perché non vi sono altre disposizioni nel codice che abbiano introdotto ipotesi speciali di confisca applicabili in relazione al reato di associazione a delinquere.

La parte di interesse di tale decisione, tuttavia, è rappresentata dall'affermazione dei giudici di merito secondo cui non vi è alcuna preclusione in ordine alla possibilità di applicare la confisca facoltativa del profitto del reato in un caso – come quello in esame – nel quale l'imputato è stato condannato in primo grado e prosciolto per intervenuta prescrizione in secondo grado, e nel quale risulta comunque definitivamente accertata la sussistenza del reato che ha costituito la fonte del profitto, nonché la responsabilità dell'imputato per tale reato.

Tale conclusione, secondo la Corte d'Appello, sarebbe imposta in primo luogo da quanto asserito dalla decisione della Cassazione che ha annullato il precedente provvedimento disponendo il giudizio di rinvio: i giudici di legittimità, infatti, se avessero ritenuto che la confisca facoltativa del profitto del reato può essere disposta soltanto con una sentenza di condanna non avrebbe annullato la sentenza con rinvio, potendo decidere direttamente in ordine alle statuizioni relative alla misura patrimoniale, «posto che: a) qualificando la confisca come obbligatoria avrebbe dovuto confermarla, non richiedendo tale decisione l'esercizio di alcun potere discrezionale; b) qualificando la confisca come facoltativa, avrebbe dovuto annullarla, stante la mancanza di una sentenza di condanna».

In secondo luogo, la possibilità di disporre la confisca del profitto ai sensi dell'art. 240, comma primo, c.p. in caso estinzione del reato discenderebbe – secondo i giudici della Corte d'assise d'appello – dai principi affermati dalla Sezioni Unite nella sentenza n. 31617 del 26 giugno 2015 (su cui sopra) e in cui si è affermato che la confisca del prezzo del reato, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1 c.p., e la confisca del prezzo o del profitto, a norma dell'art. 322-ter c.p., può essere disposta dal giudice dell'impugnazione anche con una sentenza che dichiari la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, «sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell'imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato».

Secondo la Corte di appello il dictum della sentenza Lucci può operare anche nel caso in esame di confisca facoltativa del profitto, la quale condivide con le misure patrimoniali disciplinate dagli artt. 240, comma secondo, n. 1 c.p. e 322-ter c.p. analoga finalità preventiva-ripristinatoria. Infatti, nella decisione delle Sezioni Unite più volte citata la giustificazione della conclusione ivi assunta non trova fondamento nel carattere obbligatorio (e non facoltativo) della confisca del prezzo o del profitto del reato, ma viene valorizzata la «finalità special-preventiva» di dette ipotesi di confisca, sicché il principio affermato dalle Sezioni Unite è applicabile anche alla confisca facoltativa del profitto del reato, misura patrimniale «basata sulla stessa finalità special-preventiva, che si attua attraverso la “sterilizzazione” delle utilità del reato in capo al suo autore». Il tutto, secondo i giudici di secondo grado, conformemente all'evoluzione della normativa in tema di confisca del profitto del reato che si caratterizza per la sempre più evidente irrilevanza della distinzione tra confisca obbligatoria e confisca facoltativa, come reso evidente dal progressivo ampliamento dei casi per i quali è prevista l'applicazione obbligatoria della misura ablativa, tanto che «la norma di cui all'art. 240, comma primo, c.p., basata sulla facoltatività della confisca, ha finito per assumere un carattere marginale e residuale, posto che rispetto alla stragrande maggioranza dei reati produttivi di un profitto la legge prevede ora l'obbligatorietà della confisca», dimostrandosi così «nell'ordinamento si sia consolidata la scelta di politica criminale secondo la quale il profitto del reato non può essere lasciato nella disponibilità del suo autore e vada sempre confiscato (nullum crimen sine confiscatione)».

Ovviamente, per quanto si stiano sempre più affievolendo le differenze fra la confisca obbligatoria e la confisca facoltativa (anche se forse sarebbe più corretto affermare che, pur permanendo le differenze fra i due istituti, la seconda figura di confisca è divenuta sempre più marginale, come detto), rimane e va considerata la circostanza che nel caso di confisca facoltativa – a differenza della confisca obbligatoria – la scelta di procedere all'ablazione rimane discrezionale e gli indici sulla base dei quali il giudice deve decidere come procedere sono indeterminati e incerti. Il profilo è preso in considerazione dai giudici di appello i quali cercano per l'appunto di individuare i criteri che dovrebbero orientare il giudice nell'esercizio del potere discrezionale in ordine alla applicabilità della confisca ai sensi dell'art. 240, comma primo, c.p. In proposito, dall'asserita «natura special-preventiva» della confisca la decisione desume l'esistenza di un requisito implicito rappresentato dalla pericolosità della cosa, da intendersi come possibilità che la cosa, lasciata nella disponibilità dell'autore del reato, possa costituire per costui un incentivo a commettere ulteriori reati; tale requisito deve essere accertato in concreto dal giudice, anche se, secondo la pronuncia in esame (che in questo modo semplifica notevolmente l'onere probatorio dell'accusa), nell'ipotesi di confisca del profitto (o del prodotto) del reato la pericolosità della cosa deve considerarsi generalmente esistente in re ipsa, nel senso che si reputa di regola «pericoloso mantenere al colpevole il vantaggio economico direttamente conseguito dal reato (o il risultato empirico dell'esecuzione criminosa, nel caso del prodotto del reato)», giacché se l'ordinamento consentisse all'autore del reato di continuare a beneficare dei vantaggi economici tratti dalla propria attività delittuosa, offrirebbe al reo uno straordinario incentivo a delinquere (cosi sintetizzato nella decisione: «in futuro continua pure a delinquere, perché potrai sempre beneficiare del profitto derivante dal reato, anche perché di norma della sanzione principale non ti devi preoccupare più di tanto, essendo scarsissima la possibilità che essa venga effettivamente espiata; il “risultato sostanziale” del reato lo puoi comunque “salvare”»).

Osservazioni

La sentenza della Corte di Assise d'appello di Milano presenta diversi spunti di interesse.

In primo luogo, va sottolineata l'asserzione secondo cui la finalità assegnata dal legislatore allo strumento della confisca dei proventi del reato è – non di sanzionare anche sotto il profilo patrimoniale il responsabile dell'illecito, quanto – sottrarre dalla sua sfera patrimoniale benefici economici raggiunti mediante il ricorso ad attività criminali e tale considerazione può formularsi tanto con riferimento alla confisca obbligatoria che in relazione a quella facoltativa. Da tale tesi, tuttavia, ci sembra eccessivo far discendere la considerazione, che compare nella pronuncia, secondo cui la potenzialità criminogena che va riconosciuta al profitto del reato quando rimane in capo al colpevole imporrebbe al giudice di disporre sempre – a prescindere dalla qualificazione della ablazione come meramente facoltativa – la confisca di tali benefici economici salva la sussistenza di «precisi elementi concreti che, in termini inequivoci ed in ipotesi necessariamente marginali, permettano di disattendere, perché non giustificata nel caso concreto, la direttiva generale emergente dall'ordinamento, che impone sempre l'ablazione del profitto in attuazione della finalità special-reventiva dell'istituto (si può ipotizzare ad esempio il caso di beni di scarsissimo valore)». Ci sembra francamente un'affermazione non adeguatamente giustificata nella sua perentorietà, posto che finisce per tramutare un esito del procedimento, che il legislatore ha previsto espressamente come eventuale, in un'adozione obbligatoria di un determinato provvedimento.

In proposito, va considerato come, quand'anche si ritenga che confisca (tanto del prezzo, quanto del profitto) non ha carattere punitivo ma è uno strumento volto a privare il destinatario della misura dei vantaggi economici acquisiti mediante lo svolgimento dell'attività delittuosa, ne va comunque considerata la sua natura afflittiva e incidente su diritti fondamentali dell'individuo, sicché – come espressamente affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019 – la sua non può prescindere dal rispetto delle garanzie che la Costituzione e le Carte internazionali dei diritti umani accordano ai diritti in questione. In particolare, a nostro parere, non può obliterarsi il rispetto del principio di legalità, giusto il quale occorre rinvenire, a fondamento del provvedimento di ablazione, una previsione di legge che consenta al destinatario della misura limitativa del diritto di prevederne la futura possibile applicazione.

Riteniamo invece condivisibile la riaffermazione della tesi, suggerita dalla decisione della Cassazione che aveva disposto il rinvio del procedimento innanzi alla Corte di appello per un nuovo giudizio e formulata sulla scorta di una coerente rilettura della decisione delle sezioni unite del 2015 più volte citata, secondo cui la confisca del profitto del reato a norma dell'art. 240, comma primo, c.p. potrebbe essere disposta anche con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato. Tale conclusione infatti è coerente con la configurazione che tanto la Corte costituzionale che la Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza. 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri c. Italia, nota di DE LONGIS, Lottizzazione abusiva. La Corte Edu sulla natura della confisca del T.U. edilizia) hanno fornito della nozione di condanna, la quale sussiste allorquando nella decisione è comunque rinvenibile un pieno accertamento della responsabilità del suo destinatario, anche se le circostanze del caso (fuor di metafora e con riferimento al nostro paese: l'implacabile “tagliola” della prescrizione) hanno precluso che tale accertamento venisse esplicitato anche nel dispositivo della sentenza.

Guida all'approfondimento

Sulle Sezioni Unite Lucci:

LUMINO, La confisca del prezzo o del profitto del reato nel caso di intervenuta prescrizione, in Cass. Pen., 2016, 1384 ss.;

MELODIA, Prescrizione del reato e confisca: il “nodo” dell'accertamento processuale, in Arch. Nuova Proc. Pen., 2016, 407. Si vedano anche ROMEO, Alle Sezioni unite la questione della confisca di somme di danaro, sequestrate su conto corrente, costituenti prezzo di reato dichiarato prescritto, in Dir. pen. cont.;

GRASSIA, confisca e causa estintiva del reato: la misura sopravvive alla prescrizione solo se diretta e preceduta da sentenza di condanna, in Proc. Pen. Giustizia, 2015, 31;

DELLO RUSSO, Prescrizione e confisca. L'impossibile raggiungimento di un punto di equilibrio, in Arch. Pen. web, 2017;

PASCOTTO, Confisca e prescrizione del reato di lottizzazione abusiva: i soliti nodi giurisprudenziali e i pericoli per la presunzione di innocenza, in Dir. Pen. Proc., 2018, 785.

Sulla Corte cost. n. 24/2019:

MANES, La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza, in Cass. pen., 2015, 2195;

MONGILLO, La confisca senza condanna nella travagliata dialettica tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell'uomo. Lo “stigma penale” e la presunzione di innocenza, in Giur. cost., 2015, 391;

REPETO, Vincolo al rispetto del diritto CEDU “consolidato”: una proposta di adeguamento interpretativo, ibidem, 330

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