Confisca di prevenzione: gli scenari possibili dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019

Ferdinando Brizzi
08 Maggio 2019

La sistematica reimmissione di capitali di provenienza non lecita, derivanti da appropriazione indebita aziendale nonché da continuative condotte di evasione fiscale, di rilievo penale, costituisce elemento rilevante al fine del vaglio in ordine all'inquadramento del soggetto nella categoria di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non inciso dal recente intervento della Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019).
Massima

La sistematica reimmissione di capitali di provenienza non lecita, derivanti da appropriazione indebita aziendale nonché da continuative condotte di evasione fiscale, di rilievo penale, costituisce elemento rilevante al fine del vaglio in ordine all'inquadramento del soggetto nella categoria di cui all'art. 1, comma 1,lett. b), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non inciso dal recente intervento della Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019).

Il caso

Con decreto del 10 gennaio 2018 il Tribunale di Torino, sezione misure di prevenzione, rigettava la proposta della locale Questura di sottoposizione del proposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza nonché di sequestro e confisca di beni specificamente indicati.

Il Pubblico ministero interponeva ricorso, rigettato dalla Corte d'appello di Torino con decreto depositato il 12 ottobre 2018.

Contro la decisione della Corte d'appello, il Procuratore Generale proponeva ricorso per cassazione deducendo che la Corte di merito non avrebbe vagliato le risultanze della consulenza contabile, redatta dal consulente del Pubblico ministero, da cui si sarebbero dovute desumere una documentata e sistematica evasione di rilievo penale e il reimpiego di capitali illeciti: elementi sintomatici di pericolosità sociale.

In particolare, secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che da tale elaborato, contenente la ricostruzione contabile approfondita di ogni aspetto patrimoniale afferente al proposto e alle sue società anche con riferimento all'origine dei capitali e al reimpiego degli stessi, emergerebbe che "caratteristica costante del modus operandi economico/finanziario del XX sarebbe proprio la reimmissione di capitali di provenienza non lecita", derivanti da appropriazione indebita aziendale nonché da condotte di evasione fiscale sistematiche, di rilievo penale.

Di conseguenza, si sarebbe dovuta affermare la pericolosità sociale del proposto, in linea con l'orientamento del giudice di legittimità, secondo cui colui che è dedito in modo continuativo a condotte di evasione degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosità sociale, che lo colloca nella categoria di cui all'art. 1 lett. b) d.lgs. 159/2011.

La questione

La questione preliminarmente affrontata dai Supremi Giudici ha riguardato la limitazione, nel procedimento di prevenzione, del ricorso per cassazione al solo caso della violazione di legge, secondo il disposto dell'art. 10, comma 3, d.lgs. 159/2011: ne consegue che, in sede di legittimità, non è deducibile il vizio di motivazione, a meno che questa non sia del tutto carente o presenti difetti tali da renderla meramente apparente e in realtà inesistente, traducendosi perciò in violazione di legge per mancata osservanza, da parte del giudice, dell'obbligo, sancito dal comma nono dell'art. 4, di provvedere con decreto motivato.

Si è precisato che la motivazione è inesistente anche quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo ai fini della pronuncia sul punto, oggetto di ricorso.

È evidente, infatti, che, se il giudice ha l'obbligo di motivare il decreto a pena di nullità, la delimitazione del contenuto del dovere argomentativo non può essere rimessa all'insindacabile valutazione del decidente. In particolare, la previsione dell'obbligo di motivazione non può non implicare il dovere di confrontarsi con gli elementi che sono stati prospettati dalle parti processuali e che, singolarmente considerati, sarebbero tali da poter determinare un esito opposto del giudizio.

Secondo la Corte di cassazione, di tali principi non hanno correttamente tenuto conto i giudici di merito

Difatti, con il gravame proposto, il Procuratore Generale aveva evidenziato che dalla consulenza tecnica si desumeva che caratteristica costante del modus operandi economico/finanziario del proposto era proprio la reimmissione di capitali di provenienza non lecita, in quanto derivanti da appropriazione indebita aziendale nonché da sistematiche condotte, di rilievo penale, di evasione fiscale.

Le soluzioni giuridiche

A fronte di siffatte deduzioni, la Corte territoriale ha affermato che la consulenza tecnica aveva evidenziato "l'opacità delle risorse utilizzate dal XX per gli acquisti, oggetto di richiesta di confisca"; ha aggiunto che, però, dalla mera sproporzione non poteva desumersi la pericolosità sociale del proposto, essendo indefettibile, a quest'ultimo fine, il previo inquadramento del proposto in una delle categorie di pericolosità sociale, previste dalla legge.

Così argomentando, tuttavia, la Corte distrettuale, benché sollecitata in proposito dal Procuratore appellante, ha sostanzialmente omesso di valutare la consulenza tecnica al fine del giudizio in merito alla pericolosità sociale del proposto.

Difatti, la predetta Corte ha richiamato la menzionata consulenza solo per ritenere che la sproporzione, in essa evidenziata, avrebbe potuto assumere rilievo per i provvedimenti patrimoniali, senza però vagliare – come invece era suo precipuo compito – se da essa potessero desumersi elementi atti a consentire di inquadrare il soggetto in una delle categorie di pericolosità sociale, previste dalla legge.

In altri termini, ad avviso dei giudici di legittimità, premesso che non vi è dubbio che la sproporzione reddituale non può essere addotta a giustificazione della pericolosità sociale, dovendo il soggetto essere giudicato pericoloso aliunde, il giudice d'appello non ha dato risposta alla deduzione secondo cui dalla consulenza de qua si sarebbero potuti desumere argomenti idonei a qualificare il proposto come soggetto pericoloso, collocandolo in una delle categorie previste dalla legge.

Né si può ritenere che il contributo, offerto dalla consulenza tecnica, fosse ictu oculi irrilevante, sì da stimare ininfluenti le conclusioni della consulenza tecnica ai fini del giudizio di pericolosità sociale e da rendere inammissibile il motivo, in quanto l'eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass. pen., Sez. II, 16 dicembre 2014, n. 10173, Rv. 263157).

E invero, secondo la prospettazione sviluppata nel ricorso del Procuratore generale, nella consulenza tecnica il professionista è pervenuto ad affermare che "caratteristica costante del modus operandi economico/finanziario del XX era proprio la reimmissione di capitali di provenienza non lecita", derivanti da appropriazione indebita aziendale nonché da condotte di evasione fiscale sistematiche, di rilievo penale.

Essendo state indicate attività delittuose, oltre che sistematiche, a carico del proposto, ad avviso dei supremi giudici, appare evidente che trattasi di elementi rilevanti al fine del vaglio in ordine all'inquadramento del soggetto nella categoria di cui all'art. 1, comma 1,lett. b), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non inciso dal recente intervento della Corte costituzionale, successivo alla nota sentenza De Tommaso della Corte EDU (sent. n. 24 del 2019).

E ciò pur ad aderire al più rigoroso orientamento espresso in recenti pronunce di legittimità (Cass. pen., Sez. V, 14 dicembre 2017, n. 12374, Rv 272608), che ha ritenuto che, in tema di misure di prevenzione, il mero status di evasore fiscale non sia sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima l'applicazione della misura. Si è ritenuto, in particolare, che la condizione di «evasore fiscale» non si sovrappone necessariamente ed automaticamente a quella di chi debba ritenersi «abitualmente dedito a traffici delittuosi» e «viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» e sia, quindi, sottoponibile alle misure di prevenzione.

Le locuzioni usate, infatti, devono considerarsi di stretta interpretazione e implicano quindi l'accertamento della commissione di delitti, ai quali deve essere collegata o conseguente l'attività del proposto, mentre il fenomeno della sottrazione agli adempimenti tributari, indubbiamente illecito in tutte le sue forme, dà però adito a diverse risposte da parte dell'ordinamento (sanzioni di carattere amministrativo e sanzioni penali, a loro volta distinguibili in ipotesi contravvenzionali e ipotesi delittuose, solo queste ultime rilevanti ex artt. 1 e 4 del codice delle misure di prevenzione).

Il decreto della Corte d'appello di Torino 12 ottobre 2018 è stato così annullato con rinvio ad altra Sezione.

Osservazioni

Dal tenore della sentenza non è dato comprendere quale fosse il tipo di pericolosità sociale contestata ab origine al proposto, generica o specifica, né se, laddove si fosse trattato di pericolosità generica, essa fosse da ascrivere alla lettera a) o b) del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

In ogni caso, la Corte di cassazione ha ritenuto che la pericolosità del proposto fosse da ricondurre a quella di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, “sopravvissuto” all'intervento caducatorio della Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019).

Tale parte della motivazione consente di svolgere alcune considerazioni in merito ai limiti entro cui il giudice della prevenzione può autonomamente riqualificare il tipo di pericolosità originariamente contestata: potere che, ad avviso di chi scrive, non può essere illimitato. Se questo potesse esplicarsi ad libitum sarebbero vanificati gli esiti della sentenza della Corte costituzionalen. 24 del 2019.

È pacifico che nel procedimento di prevenzione il giudice di merito possa riqualificare, in sede di decisione, la "tipologia" di pericolosità sociale ravvisata in concreto e di conseguenza, fermo restando la sempre necessaria valutazione della sua attualità, ritenere un soggetto portatore di pericolosità c.d. "generica" (d.lgs. n. 159 del 2011, art. 1 e art. 4, comma 1, lett. c)) a fronte di una proposta impostata su profili di pericolosità c.d. "qualificata" (D.Lgs. n. 159 del 2011, ex art. 4, comma 1, lett. a)); detto diverso inquadramento della condotta pericolosa non comporta alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e decisione stante la fluidità degli addebiti tipica del giudizio di prevenzione. Deve però essere sempre garantito il contraddittorio sugli elementi fattuali sintomatici della pericolosità sociale; ciò implica che detti elementi non possono essere individuati dal giudice, ma devono essere introdotti nel procedimento già in sede di formulazione della proposta e che al proposto, una volta apertosi il procedimento, deve essere sempre consentito di controdedurre.

Pur non operando nel procedimento di prevenzione i principi della nota decisione emessa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo in data 11 dicembre 2007 (caso Drassich) e non essendo, quindi, necessario che la difesa sia “chiamata ad esprimersi” prima della decisione sulle diverse ipotesi di qualificazione del reato, il giudice può legittimamente ritenere una “categoria normativa” di pericolosità in cui inquadrare il soggetto diversa da quella originariamente ipotizzata, facendo applicazione del generale principio cui è sottesa la formulazione dell'art. 521 c.p.p., comma 1, solo se la nuova definizione giuridica sia fondata sui medesimi elementi fattuali posti a fondamento della proposta e se su tali elementi sia stato assicurato lo sviluppo di un contraddittorio effettivo e congruo rispetto alla decisione finale.

Scopo del procedimento di prevenzione è, in prima battuta, accertare se il proposto sia inquadrabile in una delle categorie di pericolosità tipizzate nel d.lgs. n. 159 del 2011, artt. 1 e art. 4, sulla scorta degli elementi fattuali oggetto di contraddittorio tra le parti; di conseguenza la decisione finale, che comprende anche la valutazione prognostica sulle future condotte offensive, è inficiata se il nuovo inquadramento risulta fondato su elementi fattuali sui quali il diritto di difesa è stato esercitato in modo parziale ed incompleto.

Tali principi sono stati ribaditi da ultimo da Cass. pen. Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 8038.

Laddove, però, non sia possibile tale riqualificazione della pericolosità, e sia stata disposta in via definitiva la confisca in riferimento alla pericolosità di cui all'art. 1, comma 1,lett. a), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, dichiarata incostituzionale, di quali strumenti giuridici dispone il sottoposto per ottenere la revoca di una misura ablativa fondata su un presupposto soggettivo ormai caducato?

Una puntuale “rassegna” degli strumenti giuridici che consentono l'intervento in sede di esecuzione nel procedimento di prevenzione si riviene in Cass. pen. Sez. I, n. 40765/2018, ove le parti private avevano introdotto un incidente di esecuzione avente ad oggetto la domanda di sospensione degli effetti di una confisca disposta in via definitiva.

Tale tipologia di procedimento, secondo i supremi giudici, non è espressamente presa in esame nel sistema procedurale delle misure di prevenzione, sistema che conosce una pluralità di procedimenti tipizzati, successivi al giudicato e nel cui ambito – peraltro – l'organo esecutivo è identificato, in prima battuta, nel Questore, ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, art. 11, comma 1.

I procedimenti in questione sono:

a) la domanda di revoca o modifica della misura personale di cui all'art. 11, comma 2, con competenza attribuita all' organo che ha emanato il provvedimento personale;

b) le autorizzazioni ad allontanarsi dal comune di residenza o dimora abituale, con competenza attribuita al Presidente del Tribunale individuato per la fase di cognizione;

c) la revocazione della confisca definitiva, prevista dall'art. 28, con competenza attribuita alla Corte di Appello individuata ai sensi dell'art. 11 c.p.p.;

d) la riabilitazione prevista dall'art. 70, con competenza attribuita alla Corte di Appello nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria che ha disposto la misura di prevenzione;

e) le domande di tutela del credito inciso da confisca di cui alla l. 228 del 2012, attribuite alla competenza del giudice dell'esecuzione presso il Tribunale che ha disposto la confisca.

Dunque, da un lato, non può negarsi l'affermazione del generale principio per cui la “competenza esecutiva”, intesa come titolarità del potere/dovere di regolamentare eventuali questioni interpretative del giudicato che incidano su diritti soggettivi, è da riconoscersi anche nel sistema della prevenzione, in quanto attributo coessenziale alla funzione giurisdizionale; dall'altro, al contempo, non può riconoscersi l'applicabilità al settore tipico della prevenzione delle singole disposizioni procedimentali contenute nel codice di rito penale in tema di esecuzione, posto che il rinvio alle previsioni di cui all'art. 666 c.p.p. (in quanto compatibili) è dettato dal legislatore del codice antimafia per la fase della cognizione (art. 7, comma 9) e non riguarda, pertanto, la fase esecutiva (sul tema v. Sez. I, n. 4001/2014).

In punto di competenza, pertanto, le previsioni di legge “di settore” vanno applicate in riferimento ai loro contenuti tipici, che portano ad individuare il giudice titolare del potere di esaminare la domanda in riferimento all'oggetto della medesima (revoca della misura personale, revocazione della confisca, autorizzazioni, riabilitazione) e che vedono l'intervento in prima istanza della Corte di Appello solo nelle ipotesi di revocazione della confisca (art. 28), riabilitazione (art. 70) o nel particolare caso in cui la misura personale di cui si chiede la revoca o modifica (art. 11) sia stata disposta dalla Corte di Appello per la prima volta (a seguito di accoglimento della impugnazione proposta dall'organo dell'accusa).

In tutti gli altri casi la competenza spetta al Tribunale che ha emesso la misura di prevenzione, pur se il contenuto del provvedimento sia stato parzialmente modificato in secondo grado (si veda tra le molte, sulla previgente disciplina della l. 1423/1956, art. 7, Cass. pen., Sez. I, n. 3140/2011).

E' stata così disattesa la doglianza dei ricorrenti in quanto fondata – di contro – sulla tesi della piena applicabilità al settore delle misure di prevenzione della disposizione contenuta all'art. 665 c.p.p., comma 2, norma che risulta dettata per il solo procedimento penale.

Può dunque affermarsi che la via percorribile per ottenere la revoca della confisca, a seguito del venire meno del presupposto soggettivo conseguente al recente intervento della Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019) è quella dell'incidente di esecuzione innanzi al Tribunale che ha emesso la misura di prevenzione, sia pure negli stretti limiti indicati dal Supremo collegio.

Potrebbe, per altro, percorrersi la via della revocazione non ex art. 28, comma 1, bensì ai sensi del comma secondo cui in ogni caso, la revocazione può essere richiesta al solo fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l'applicabilità della misura.

In dottrina si è parlato di “inutilità” di tale prescrizione dal momento che né la morte del sottoposto né la cessazione della sua pericolosità inciderebbero sull'an della confisca.

Tuttavia, proprio per individuare uno spazio di applicazione a tale norma si potrebbe pensare che essa sia destinata a trovare applicazione proprio in casi come quelli descritti, in cui, a prescindere dall'integrazione delle specifiche cause di cui al comma 1, sia dimostrabile per fatti sopravvenuti la carenza originaria dei presupposti della confisca.

Guida all'approfondimento

G. LUPARELLO, in Commentario breve al Codice antimafia e alle altre misure di prevenzione, di G. SPANGHER e A. MARANDOLA, Milano, 2019

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