Sussurri e grida (aspettando la riforma del processo penale)

Antonella Marandola
20 Maggio 2019

Quando si parla oggi di riforma del processo penale, bisogna tener conto di alcune premesse. Sotto il profilo temporale la prospettiva è quella del 1° gennaio 2020 in relazione all'entrata in vigore della riforma della prescrizione alla quale risulta politicamente legata. Come è noto, a seguito della riforma di cui alla l. 3/2019, uno dei due contraenti del contratto di Governo affermò che la prescrizione così riformulata doveva...

Quando si parla oggi di riforma del processo penale, bisogna tener conto di alcune premesse.

Sotto il profilo temporale la prospettiva è quella del 1° gennaio 2020 in relazione all'entrata in vigore della riforma della prescrizione alla quale risulta politicamente legata. Come è noto, a seguito della riforma di cui alla l. 3/2019 uno dei due contraenti del contratto di Governo affermò che la prescrizione così riformulata doveva essere accompagnata da una riforma del processo penale, verosimilmente i cui contenuti dovevano essere concordati. L'assunto è stato smentito di recente sostenendo che le modifiche processuali verranno varate a prescindere da essa.

Sotto il profilo contenutistico, la riforma ipotizzata – al di là delle affermazioni iniziali che la volevano “epocale” –si muove in un orizzonte più circoscritto. Gestita a livello ministeriale, senza la predisposizione della classica commissione tecnica, la riforma costituisce il punto di convergenza “possibile” delle posizioni della magistratura e dell'avvocatura.

Abbandonate le “bandiere” di cui le due associazioni dichiaravano la necessità, si sta per approdare, con la mediazione del Ministro, a una ragionevole reciproca condivisione.

L'obiettivo prefissato era quello della durata ragionevole del processo di cui alla previsione costituzionale e a quella sovranazionale. Sul punto sembrerebbe preferibile parlare di necessità di un processo penale con una struttura integrata. Invece di configurare il processo come una successione separata e disarticolata di segmenti separati (indagini preliminari, udienza preliminare, dibattimento, appello, Cassazione) è necessario costruire il processo come una successione di momenti reciprocamente integrati, secondo una logica inserita nello stesso concetto di procedimento.

Sotto questa prospettiva, sarà anche possibile recuperare contenuti più precisi ai c.d. tempi morti che verrebbero riempiti di contenuti destinati al raccordo con i momenti processuali successivi.

Entro questa cornice. che configura il processo secondo i canoni della non regressione, della concentrazione e della progressione, la riforma dovrebbe – e per quanto è possibile sapere alla luce del tavolo di confronto tra A.N.M., U.C.P.I. e Ministero – articolarsi attorno ad alcune linee che non appare difficile individuare.

In primo luogo, si tratta di “decongestionare” il carico giudiziario, che stante il non modificabile – allo stato – principio di obbligatorietà dell'azione penale appare non sono elevato, ma addirittura sovrabbondante se si considerano i capi di imputazione formulati dall'accusa che, seppur destinati a un progressivo dimagrimento, richiede continui approfondimenti e decisioni motivate, anche se di segno negativo, e non escludono impugnazioni.

L'obiettivo può essere perseguito attraverso una varietà di strumenti che si possono così elencare: archiviazioni condizionate, trasformazione della non punibilità del fatto in motivo di improcedibilità, ampliamento delle ipotesi di sospensione e messa alla prova e di condotte riparatorie. Nell'impossibilità di procedere a una depenalizzazione sarà possibile operare secondo lo schema predisposto dall'Associazione Nazionale Magistrati che ipotizza una rimodulazione sanzionatoria pecuniaria preclusiva della informativa alla pubblica accusa.

Certamente, l'ampliamento – da definire – delle ipotesi del patteggiamento senza escludere riconsiderazioni – peraltro difficili – della recente riforma del rito abbreviato per i reati puniti con l'ergastolo, unitamente ad un rivisitato criterio della premialità potrebbe offrire un apporto non secondario a questo profilo della riforma.

Anche se la centralità del dibattimento – fondamento della riforma del 1988 – appare un dato difficile da recuperare, si deve impedire che il baricentro processuale sia collocato nella fase delle indagini preliminari.

Per mantenere un rapporto equilibrato tra indagini e dibattimento la riforma sembra prefigurare una più attenta considerazione dei tempi delle indagini non esclusa la verifica della loro durata attraverso vari strumenti di verifica in relazione alle decisioni del Gip sulle proroghe e sulla loro effettiva durata. Sotto quest'ultimo profilo, non può negarsi che le Sezioni Unite Squicciarino offrono un significativo contributo al tema. Il tutto si colloca in quella prospettiva da tempo definita come “finestre di giurisdizione”.

Gli snodi fondamentali in questa prospettiva sono costituiti per un verso da una possibile integrazione temporale e funzionale dei c.d. tempi morti e dalle regole di giudizio destinate a definire il passaggio dalla fase delle indagini all'udienza preliminare e quello della udienza preliminare rispetto al dibattimento.

Sotto il primo profilo, si dovrebbero per un verso definire i tempi della discovery di cui all'art. 415-bis c.p.p. e dell'avvio dell'udienza preliminare, dall'altro, non si dovrebbero escludere dopo l'emissione del decreto che dispone il giudizio, l'anticipazione di alcune attività collocate attualmente nella fase del predibattimento e comunque l'anticipazione di attività destinate a interrompere lo sviluppo del dibattimento.

La riferita riforma della prescrizione va piuttosto valutata da una prospettiva diversa; appare, infatti, definire i tempi entro i quali si potrà, rectius si dovrà, definire il giudizio di gravame, prospettandosi seriamente il rischio di uno scarso interesse del sistema di definire sia le decisioni di condanna sia quelle di proscioglimento. Vanno, infatti, considerate le diverse attese che le decisioni determinano comunque sia per i condannati che punta a rivedere la decisione sfavorevole, sia i prosciolti che desiderano vede definita irrevocabilmente la loro posizione. Il tutto senza considerare le aspettative delle parti civili e delle persone offese.

Sembra imporsi la fissazione di un tempo “ragionevole” di definizione dei gravami, la cui violazione potrebbe essere sanzionata o ristorata con indennizzi o sconti di pena.

La riflessione sul nuovo ruolo degli appelli potrebbe favorire l'eliminazione delle preclusioni al concordato e l'ampliamento delle situazioni di operatività del rito camerale, partecipato o non partecipato.

L'elemento probabilmente centrale della riforma, in quanto finalizzato a realizzare in concreto le riferite finalità strutturali, sistematiche, deflattive è costituito dalla fissazione delle regole di giudizio dell'archiviazione e della decisione di rinvio a giudizio. Al riguardo, appare necessario trasformare le valutazioni prognostiche in proposizioni valutative dei dati emergenti dalle indagini e dal contraddittorio in udienza proiettandola sul dibattimento. Sarebbe opportuno che la scelta dell'esercizio dell'azione penale sia ristretta soltanto quando positivamente gli elementi prospettino l'accoglimento dell'impianto accusatorio. Più difficile, per ragioni operative, applicare il canone della valutazione positiva all'esito dell'udienza preliminare, per la banale considerazione che il decreto che dispone il giudizio non va motivato, a differenza della sentenza di non luogo che sconta anche l'impugnabilità. Lo schema potrebbe essere quello dell'art. 631 c.p.p. in tema di istanza di revisione.

Proprio questo aspetto evidenzia come la riforma – qualsiasi riforma – non possa prescindere da una adeguata dotazione di mezzi e di personale.

L'incremento del ruolo del Gip/Gup – sia sotto il profilo del “filtro” valutativo all'esito dell'udienza sia in relazione alle finestre di giurisdizione – impone un rafforzamento dell'organico, attraverso la mirata ridistribuzione degli organici decisi dal Ministero di Giustizia.

Il rafforzamento dei criteri di valutazione dell'esercizio dell'azione penale e del “passaggio” alla fase del giudizio, nella misura in cui siano anticipatori – seppur allo stato degli atti – dell'esito processuale – che peraltro non è scontato nei termini in cui la difesa non abbia anticipato del tutto le proprie strategie argomentative – potrebbe porre in fibrillazione il successivo giudizio di appello, sotto vari profili. La decisione favorevole, suscettibile di smentire i due filtri (quello del P.M. e quello del Gip/Gup), assumerebbe una forte valenza processuale, tanto da richiedere solo il ricorso in Cassazione. Analoghe perplessità susciterebbe una decisione che confermasse a dibattimento gli assunti dell'accusa e del Gip/Gup.

Anche la difesa, a fronte di una più ampia possibilità di definire favorevolmente il processo, potrebbe valutare in modo più consapevole le iniziative da assumere nel corso dell'udienza preliminare, non escluse quelle del ricorso ai riti premiali.

Essendo stata sterilizzata dalla giurisprudenza, non risulta necessaria - seppur richiesta dalla magistratura e rigettata dall'avvocatura – l'abrogazione dell'art. 525, comma 2, c.p.p. Sarebbe, invece, opportuna la predisposizione di qualche ipotesi sanzionatoria per la violazione delle regole dell'esame incrociato: il dato non è tuttavia nel focus della riforma, mentre, appare agevole ipotizzare disposizioni incidenti sulla disciplina delle notificazioni correlata alla nomina del difensore.

Il riferito collegamento della riforma con la prescrizione impone alcune riflessioni sulle implicazioni di questo elemento che ne sospende il decorso con la pronuncia della sentenza di primo grado, sia di condanna, sia di proscioglimento.

Questo elemento, infatti, pone fine alla “polemica” relativa all'impugnazione come strumento teso a far maturare i tempi dell'estinzione del reato. Invero, sospeso il decorso del tempo l'impugnazione non può sortire questo effetto e quanto alle impugnazioni pretestuose soccorrono le verifiche di ammissibilità rese più stringenti dalla riforma Orlando, attraverso vari meccanismi sia in termini di legittimazione soggettiva, sia in relazione ai profili oggettivi degli appelli e dei ricorsi.

Un discorso a parte sembra richiedere il giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica. Si potrebbe trattare di un profilo non secondario, suscettibile – anche – di dimostrare come la realtà pratica delle udienze sia più forte della dogmatica.

Si segnala, infatti, da più parti come, stante una certa marginalità delle materie oggetto del giudizio, il processo sia svolto da V.P.O. e da GOT, cioè, da magistrati onorari, dove un ruolo significativo è svolto dalla parte civile (truffe informatiche ed appropriazioni indebite). Si ritiene, infatti, recependo le indicazioni della prassi già operanti nelle nostre aule di assegnare questi procedimenti a componenti singoli delle Corti d'Appello.

Sempre per questi procedimenti, resterebbe, comunque, da definire l'individuazione delle modalità, anche soggettive, attraverso le quali introdurre il “filtro” del passaggio a dibattimento, rispetto all'iniziativa del P.M. che non abbia optato per l'archiviazione.

Come anticipato in esordio e come emerge, in queste ore, dalla dialettica delle forze di Governo, il nodo della riforma è tutto politico, sia nei tempi, sia nei contenuti.

D'altro canto, la giustizia penale è un indicatore sensibile delle tensioni che toccano la società e le sue proiezioni istituzionali.

Comunque, sarà solo un ulteriore passaggio che non risolverà i problemi storici, culturali, strutturali, ideologici del processo penale italiano.

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