Contestazione di reato concorrente in corso di dibattimento e richiesta di applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p.

24 Maggio 2019

L'art. 517 c.p.p. consente la contestazione durante il dibattimento di una circostanza aggravante o di un reato concorrente che non siano menzionati nel decreto che dispone il giudizio, qualora questi emergano nel corso dell'istruzione dibattimentale: si parla, in questo caso, di nuova contestazione tempestiva o “fisiologica” onde distinguerla da quella...
Massima

Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale nella parte in cui, nel caso di contestazione di reato concorrente emerso nel corso del dibattimento che formi oggetto di nuova contestazione, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p. relativamente al reato oggetto della nuova contestazione.

Il caso

La Corte Costituzionale è stata chiamata a decidere dal Tribunale di Alessandria che ha messo in dubbio, con ordinanza del 25 ottobre 2017, la compatibilità coi principi costituzionali dell'art. 517 c.p.p. nella parte in cui non prevede che quando, nel corso del dibattimento, viene contestato un reato concorrente emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale l'imputato possa chiedere di definire il processo mediante richiesta di applicazione della pena.

Nel caso di specie, all'imputato era stato originariamente contestato il reato di illecita detenzione di arma comune da sparo previsto dagli artt. 2 e 7 della legge 2 ottobre 1967 n. 895 relativamente a tre fucili; all'esito di perizia tecnico balistica svolta in corso di dibattimento, emergeva che una delle armi recava il numero di matricola abraso e non semplicemente illeggibile come originariamente ritenuto dalla P.G.: di conseguenza il P.M. procedeva alla contestazione del reato previsto dall'art. 23, comma 3, della legge 18 aprile 1975, n.110, per la detenzione e la ricettazione di un'arma clandestina.

In riferimento alle nuove contestazioni l'imputato formulava richiesta di applicazione della pena ma il P.M. negava il proprio consenso rilevando che, trattandosi di nuove contestazioni “fisiologiche e non patologiche”, esse non avrebbero consentito la “remissione in termini per il patteggiamento”: il Tribunale, ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica delle nuove contestazioni e la richiesta dell'imputato ma, nel contempo, ha convenuto col P.M. che l'art. 517 c.p.p. non prevede alcuna “remissione in termini” rispetto al termine decandenziale individuato dall'art. 446, comma 1, c.p.p.

Verificata la rilevanza della norma in questione ai fini dell'ammissione dell'imputato al rito alternativo richiesto, il giudice remittente ha sottolineato che la preclusione alla richiesta di patteggiamento per il reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva “fisiologica”, contrasta col diritto di difesa e coi principi di ragionevolezza e uguaglianza.

La questione

La questione all'esame della Corte Costituzionale può quindi riassumersi nei seguenti termini: l'art. 517 c.p.p. consente la contestazione durante il dibattimento di una circostanza aggravante o di un reato concorrente che non siano menzionati nel decreto che dispone il giudizio, qualora questi emergano nel corso dell'istruzione dibattimentale: si parla, in questo caso, di nuova contestazione tempestiva o “fisiologica” onde distinguerla da quella che sia effettuata sulla base del materiale istruttorio già presente nel fascicolo del P.M. (nuova contestazione tardiva o “patologica”).

La nuova contestazione avverrà, comunque, quando sono ormai decorsi i termini per la richiesta di riti alternativi senza che il codice di rito offra alcun rimedio per superare tale preclusione coordinando le contestazioni suppletive col regime dei procedimenti speciali.

Dunque, sulla base dell'originario assetto codicistico, l'imputato che subiva una nuova contestazione si vedeva ingiustamente privato del diritto di optare per un rito premiale.

Negli anni la Corte Costituzionale è stata chiamata più volte a verificare la tenuta dell'art. 517 c.p.p. in rapporto a diverse ipotesi di contestazioni “fisiologiche” o “patologiche” riferite alle opzioni in rito esercitabili dall'imputato, passando da posizioni di originaria “chiusura” ad una serie di decisioni che hanno progressivamente eroso dette limitazioni.

Relativamente alle contestazioni “fisiologiche”, con la sentenza n. 237 del 2012 la Corte aveva già dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 517 c.p.p. nella parte in cui non consentiva di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato a seguito di nuova contestazione di reato concorrente, emerso in corso di istruzione dibattimentale.

A ideale completamento di questo percorso, si chiede questa volta di verificare se sia costituzionalmente legittimo negare all'imputato la possibilità di chiedere il “patteggiamento” nella medesima ipotesi di contestazione “fisiologica” di reato concorrente.

Secondo il giudice remittente, la segnalata lacuna nell'art. 517 c.p.p. violerebbe l'art. 24 della Costituzione, in quanto l'imputato sarebbe privato del diritto di beneficiare del rito premiale e subirebbe, quindi, un'incolpevole compressione del diritto di difesa a causa di uno sviluppo processuale originariamente non prevedibile ne' a lui addebitabile.

Sarebbe altresì violato l'art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell'uguaglianza, in quanto l'imputato che abbia subito la contestazione di un reato connesso a seguito dell'istruzione dibattimentale, subirebbe trattamento diverso e deteriore rispetto a colui che sia stato messo davanti, sin dall'inizio, ad un quadro accusatorio completo, con possibilità di optare per un rito alternativo.

In ultimo, risulterebbe compromesso anche il principio di ragionevolezza, considerato che, a seguito delle sentenze n. 530 del 1995 e 237 del 2012 della Corte costituzionale, in caso di contestazione “fisiologica” di reato connesso l'imputato ha già recuperato la facoltà di richiedere l'oblazione ovvero il giudizio abbreviato, mentre tale recupero non è consentito per l'applicazione della pena su richiesta.

Le soluzioni giuridiche

La Corte costituzionale, come già avvenuto in occasione dei suoi precedenti interventi, inquadra le questioni sollevate nell'ampia problematica della preclusione all'accesso ai riti alternativi conseguente alle nuove contestazioni dibattimentali.

Ricorda, preliminarmente, che la possibilità di modificare la contestazione originaria è conseguenza dell'impostazione “tendenzialmente accusatoria” del vigente codice di rito, dove la fase destinata alla raccolta delle prove è quella dibattimentale e lì, fisiologicamente, possono emergere elementi di novità che rendono necessario modificare il quadro accusatorio.

Le nuove contestazioni, tuttavia, possono innescare frizioni col diritto di difesa e, per quanto in esame, “con le opzioni relative ai riti alternativi, che di quel diritto sono parte essenziale” ovvero “modalità d'esercizio e tra le più qualificanti”.

In sintesi: «Per effetto delle nuove contestazioni elevate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, l'imputato potrebbe infatti trovarsi a dover fronteggiare un'accusa in ordine alla quale sarebbe suo interesse chiedere i citati riti o meccanismi alternativi; ma tali opportunità gli sono normativamente precluse, essendo ormai decorsi i termini utili per le relative richieste».

A questo punto, la Corte ripercorre la propria evoluzione giurisprudenziale con la dichiarata finalità di esaurire e completare, anche in prospettiva futura, il “riallineamento costituzionale” della disciplina delle nuove contestazioni.

E, dunque, viene ricordata l'impostazione di netta chiusura rispetto alla possibilità di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi mantenuta sino alla sentenza n. 265 del 1994 che, per la prima volta, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. relativamente all'impossibilità per l'imputato di richiedere l'applicazione della pena relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestati in dibattimento, quando la nuova contestazione riguardi un fatto che risultava dagli atti al momento dell'esercizio dell'azione penale (nuova contestazione c.d. “patologica”). La preclusione, non addebitabile a inerzia o colpa dell'imputato, si poneva infatti in contrasto col diritto di difesa ed era comunque censurabile anche in riferimento all'art. 3 Cost., posto che l'imputato subiva una discriminazione ai fini dell'accesso ai riti speciali a seconda della discrezionale valutazione operata dal P.M. in merito all'esito delle indagini preliminari.

La medesima sentenza, peraltro, dichiarava inammissibile la stessa questione riferita alla possibilità di proporre richiesta di giudizio abbreviato che, tuttavia, verrà recuperata con la sentenza n. 333 del 2009, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 c.p.p. per parte de qua, sempre con riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., consapevolmente superando la precedente declaratoria di inammissibilità in ragione delle modifiche alla disciplina del rito speciale medio tempore intervenute.

Con le sentenze 184 del 2014 e 139 del 2015, si completa il recupero di tutti i riti alternativi in ipotesi di contestazioni “patologiche”: la prima dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena, a norma dell'art. 444 c.p.p. in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale; la seconda sanziona la medesima norma nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale.

Simile evoluzione ha avuto la posizione della Corte in merito alle contestazioni “fisiologiche”, ovvero a quelle che nascano dalle acquisizioni dibattimentali.

Per questo profilo il cammino della Corte si è sviluppato a partire dalla sentenza 530 del 1995 (illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., laddove non prevedono la facoltà per l'imputato di proporre al giudice domanda di oblazione relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestati in dibattimento), passando per le sentenze 237 del 2012 (illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., laddove non prevedono la facoltà per l'imputato di richiedere al giudice il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione riguardi un fatto emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale) e 273 del 2014 (illegittimità costituzionale dell'art. 516 c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione) per giungere alla sentenza 206 del 2017 che, richiamando le precedenti decisioni, ha dichiarato illegittimità costituzionale dell'art. 516 c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p. relativamente fatto diverso emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Il “punto di approdo” complessivo della giurisprudenza costituzionale viene infine indicato nella sentenza n. 141 del 2018, che ha superato la distinzione tra nuove contestazioni “fisiologiche” e patologiche” dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 c.p.p. nella parte in cui , a seguito di nuova contestazione di circostanza aggravante, non consente all'imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.

Quest'ultima sentenza – ricorda la Corte - ha richiamato gli artt. 3 e 24 Cost., ribadendo che «la richiesta dei riti alternativi costituisce una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993) e si determinerebbe una situazione in contrasto con il principio posto dall'art. 3 Cost. se nella medesima situazione processuale fosse regolata diversamente la facoltà di chiederli».

Il dato fondamentale è, infatti, la sopravvenienza della contestazione suppletiva rispetto alla quale deve misurarsi la facoltà dell'imputato di richiedere un rito alternativo: posto che la scelta del rito è intimamente connessa al diritto di difesa, essa non può che confrontarsi con l'oggetto del giudizio e deve poter essere aggiornata ogni qual volta il sistema consenta una mutatio libelli.

Su tali premesse, la Corte considera necessitato l'epilogo della vicenda processuale che le è stata sottoposta: posto che la ricordata sentenza 184 del 2014 aveva già dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 517 c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere il patteggiamento in ipotesi di contestazione “patologica” di circostanza aggravante, «è chiaro che la identica ratio decidendi fa ritenere che la medesima facoltà debba essere riconosciuta anche in rapporto ad una contestazione “fisiologica” di reato connesso».

È peraltro corretto, secondo la Corte, anche l'ulteriore rilievo del giudice a quo che ha sottolineato l'irragionevolezza di un sistema nel quale, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 237 del 2012, è ormai consentito all'imputato richiedere il rito abbreviato in caso di contestazione “fisiologica” di reato connesso, determinando nel dibattimento un “innesto” ben più problematico rispetto al patteggiamento.

Infine, l'ipotesi della contestazione “fisiologica” di un fatto connesso è situazione del tutto analoga a quella del fatto diverso, rispetto al quale la sentenza n. 206 del 2017 ha già esteso la facoltà di proporre richiesta di applicazione della pena in ipotesi di contestazione determinata dalle emergenze processuali.

Ne consegue, in termini di assoluta evidenza, l'esigenza costituzionale di riconoscere all'imputato il diritto di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione della pena anche nell'ipotesi di contestazione fisiologica di un reato concorrente.

Osservazioni

La nuova decisione additiva della Corte costituzionale era attesa e certamente prevedibile: come la sentenza n. 139 del 2015 aveva completato il quadro di recupero delle scelte sul rito in ipotesi di nuove contestazioni tardive o “patologiche”, si trattava di completare il percorso di adeguamento costituzionale della normativa anche nel caso delle nuove contestazioni “fisiologiche”.

Oggi, che si tratti di fatto diverso, reato concorrente o circostanza aggravante emersi a dibattimento e oggetto di contestazione suppletiva ai sensi degli artt. 516 e 517 c.p.p., l'imputato potrà optare per un patteggiamento ovvero per una richiesta di rito abbreviato.

Per contro, in ragione della inevitabile frammentarietà degli interventi della Corte, chiamata a giudicare sulla specifica questione rimessa dal giudice a quo, risulta ancora incompleto il recupero della facoltà di richiedere la messa alla prova a seguito di nuove contestazioni: consentita, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 141 del 2018, in caso di contestazione di circostanza aggravante ma ancora formalmente preclusa in ipotesi di fatto diverso o reato connesso.

Certo è che, rievocando il lungo “percorso di riallineamento costituzionale della disciplina codicistica”, la Corte ha voluto esplicitare in termini inequivocabili che i più recenti approdi valgono ad esaurire l'intera tematica in prospettiva futura: una dichiarazione “programmatica” che, evidentemente, non può essere frutto del caso.

Forse in questo passaggio è possibile leggere l'auspicio di un'organica azione del legislatore che la sollevi da ulteriori interventi “a macchia di leopardo”: speranza vana, è lecito affermare, considerata la scarsa attenzione che l'attuale classe politica sembra prestare ai profili di legittimità costituzionale anche delle norme di nuovo conio.

Tuttavia, l'enunciazione programmatica della Corte, unita al potente richiamo alla centralità delle scelte sul rito rispetto al concreto esercizio del diritto di difesa, lascia spazio ad una lettura della materia nuova e di più ampio respiro.

Orbene, annotando su questo portale la sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 2015 (Contestazione di circostanza aggravante in corso di dibattimento e richiesta di giudizio abbreviato) si era avuto modo di manifestare più d'una perplessità in ordine alla dichiarazione d'infondatezza della seconda questione trattata in quell'occasione, relativa al recupero della facoltà di proporre una richiesta di rito abbreviato (di questo si discuteva in quella sede) anche in relazione ai reati diversi da quello che forma oggetto delle nuova contestazione.

La Corte aveva infatti ribadito che la facoltà di accedere ad un rito alternativo relativamente al nuovo addebito, non poteva comportare un globale recupero della stessa anche in rapporto alle originarie imputazioni rispetto alle quali si era astenuto dal formulare tempestiva richiesta.

Si era obiettato, allora, che l'assoluta chiarezza dell'accusa, richiamata dalla Corte quale pre-condizione per operare la delicata scelta in ordine ad un rito alternativo al dibattimento, non può che riferirsi alla sua finale formulazione; e se l'accusa si completa e definisce in un momento successivo all'apertura del dibattimento, è a quell'istante che devono essere ricondotte le scelte consapevoli della difesa: non sembrava quindi illogico che l'imputato recuperasse il diritto a formulare richiesta di giudizio abbreviato anche per le contestazioni per le quali abbia “consapevolmente lasciato spirare il termine di proposizione della richiesta”, dacchè la contestazione d'una circostanza aggravante e, più ancora, d'un reato concorrente può modificare sensibilmente la base di valutazione che ha originariamente suggerito di tralasciare tale opzione.

È rispetto a tale arresto che la sentenza 82/2019 sembra, sia pure implicitamente, andare oltre.

La Corte, infatti, supera l'originario rapporto tra “sconto” sulla pena e deflazione processuale il quale non può più vantare alcuna prevalenza rispetto al principio di uguaglianza e al diritto di difesa; nel contempo riafferma con inequivoca chiarezza, che le scelte sul rito rappresentano uno degli snodi più delicati delle facoltà difensive.

È per questo che, secondo il Giudice delle leggi, qualunque modificazione dell'imputazione, indipendentemente dal suo carattere “fisiologico” o “patologico”, impone di restituire all'imputato “termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni”.

Ancora, secondo la Corte la scelta del modello processuale più congeniale all'esercizio del diritto di difesa si rapporta necessariamente alla regiudicanda nella sua dimensione finale o “cristallizzata”, e rispetto a tale diritto è incompatibile “qualunque preclusione che ne limiti l'esercizio concreto”.

Pare ormai chiaro, in definitiva, il riferimento a quell'unica accusa che, pur progressivamente formatasi, circoscrive la materia del processo e le correlative scelte difensive.

Correlativamente, non può essere casuale il riferimento a “qualsiasi preclusione” che possa limitare “in concreto” l'esercizio del diritto di difesa nella prospettiva in esame.

Del resto, tale lettura appare coerente anche ai ripetuti richiami della Corte alla necessità di complessiva razionalità del sistema: la riconduzione dell'intero tema di decisione ad un solo rito mediante il recupero dell'opzione sui procedimenti speciali in termini complessivi, soddisfa comunque l'esigenza di razionalità e speditezza del processo, evitando per giunta i notevoli problemi pratici che può determinare la conduzioni delle stesso secondo due riti differenti (quello ordinario per le imputazioni originarie e l'eventuale rito alternativo per i reati connessi oggetto di nuova contestazione).

Se, dunque, la Corte ha mostrato sin qui grande prudenza nell'utilizzo dei suoi poteri additivi, pare che nella prospettiva “pro futuro” tratteggiata in sentenza non si debbano più escludere esiti diversi.

Ove l'inerzia del legislatore perdurasse, è pensabile, in definitiva, che la Corte Costituzionale possa rivedere i confini delle proprie sentenze additive: la storia degli artt. 516 e 517 c.p.p. è lì a dimostrare quanto ciò sia possibile.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.