La pubblicazione del testamento non comporta accettazione tacita dell'eredità

Nelson Alberto Cimmino
27 Maggio 2019

Ai fini dell'accettazione tacita dell'eredità, sono privi di rilevanza tutti quegli atti che, per natura e finalità, non sono idonei ad esprimere in modo certo l'intenzione univoca di assunzione della qualità di erede.
Massima

Ai fini dell'accettazione tacita dell'eredità, sono privi di rilevanza tutti quegli atti che, per natura e finalità, non sono idonei ad esprimere in modo certo l'intenzione univoca di assunzione della qualità di erede, quali la denuncia di successione, il pagamento delle relative imposte, la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione, trattandosi di adempimenti di prevalente contenuto fiscale. Ne consegue che il giudice del merito deve estendere il suo accertamento non solo a tali adempimenti ma al complessivo comportamento del potenziale erede ed all'eventuale possesso e gestione, anche solo parziale, dell'eredità.

Il caso

Tizio agiva in giudizio contro Caio, erede di Sempronio, per l'adempimento dell'obbligazione già gravante sul de cuius.

Il Tribunale, nell'appello avverso la sentenza emessa dal Giudice di Pace, riconosceva che l'esecutato era da ritenersi privo della qualità di erede del debitore, per cui non poteva essere destinatario del precetto intimatogli.

Venivano di conseguenza annullati i precetti riconoscendo la carenza di legittimazione passiva in capo al convenuto in quanto privo della qualità di erede dell'originario debitore.

Il ricorrente censurava la decisione di merito affermando che la trascrizione della denuncia di successione, intervenuta successivamente all'atto di rinuncia formale all'eredità dell'interessato, costituiva accettazione tacita dell'eredità.

La Cassazione rigetta il ricorso.

La questione

La richiesta di registrazione del testamento e la presentazione della dichiarazione di successione possono essere considerati atti che, ai sensi dell'art. 476 c.c., determinano accettazione tacita dell'eredità?

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione afferma il principio secondo cui presupposti fondamentali e indispensabili ai fini di una accettazione tacita sono: la presenza della consapevolezza, da parte del chiamato, dell'esistenza di una delazione in suo favore; che il chiamato assuma un comportamento inequivoco, in cui si possa riscontrare sia l'elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), sia l'elemento oggettivo attinente all'atto, tale che solo chi si trovi nella qualità di erede avrebbe il diritto di compiere.

Ai fini della accettazione tacita dell'eredità sono perciò privi di rilevanza tutti quegli atti che, attesa la loro natura e finalità, non sono idonei ad esprimere, in modo certo, l'intenzione univoca di assunzione della qualità di erede, quali la denuncia di successione, il pagamento delle relative imposte, la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione, trattandosi di adempimenti di prevalente contenuto fiscale, caratterizzati da scopi conservativi.

Pertanto, l'accettazione tacita di eredità può legittimamente essere esclusa dal giudice del merito, a cui compete il relativo accertamento. Peraltro, siffatto accertamento non può limitarsi all'esecuzione di tali incombenze, ma deve estendersi al complessivo comportamento dell'erede potenziale ed all'eventuale possesso e gestione anche solo parziale dell'eredità.

Osservazioni

L'accettazione è tacita quando il chiamato all'eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (art. 476 c.c.).

I successivi artt. 477 e 478 c.c. prevedono ipotesi tipiche di accettazione tacita di eredità: donazione, vendita o cessione che il chiamato all'eredità faccia dei suoi diritti di successione a un estraneo o a tutti gli altri chiamati o ad alcuno di questi; rinunzia ai diritti di successione, qualora sia fatta verso corrispettivo o a favore di alcuni soltanto dei chiamati.

Affinché vi possa essere l'acquisto dell'eredità, l'art. 476 c.c. richiede dunque non il compimento di un atto qualsiasi, ma che il chiamato compia un atto: che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede.

La giurisprudenza ritiene che l'accettazione tacita dell'eredità richieda la concorrenza di ambedue i presupposti e che non sia sufficiente che ricorra solo l'uno o l'altro alternativamente (Cass. civ. 11 marzo 1988, n. 2403).

Quanto al primo presupposto (compimento di un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare), secondo un primo orientamento (che potremmo definire «soggettivo») si deve avere riguardo più all'animus dell'agente ed alla sua volontà, dalla quale l'atto procede, che all'atto stesso - trattandosi di interpretazione della volontà - senza e contro la quale non si diventa eredi (Cass. civ. 19 ottobre 1988, n. 5688).

Ne consegue che l'accettazione tacita avrebbe natura di negozio giudico; si tratterebbe, più precisamente, di un negozio di attuazione, perché la volontà non è dichiarata, ma espressa mediante un comportamento (F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989).

La riserva di accettare l'eredità, cioè una espressa dichiarazione dell'interessato tendente a togliere valore al comportamento concludente (c.d. protestatio contra factum) varrebbe quindi ad escludere l'accettazione.

Un secondo orientamento (che potremmo definire «oggettivo») ritiene invece irrilevante una concreta volontà di accettare, essendo invece sufficiente che la volontà di accettare sia oggettivamente e necessariamente presupposta.

In tal senso si è affermato che «se l'atto deve essere tale da presupporre necessariamente la volontà di accettare, è già con ciò detto che non è sufficiente che si possa da esso desumere una volontà tacita di accettazione: bisogna che per sua stessa natura l'atto presupponga l'acquisto. Non si ricerca cioè se chi lo ha compiuto abbia avuto o meno volontà di accettare: si ritiene anzi che non abbia valore una contraria volontà o una riserva manifestata nel compier l'atto. Par quindi si debba considerare anche il primo requisito come oggettivo, esclusa ogni indagine concreta di volontà di accettazione» (A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell'eredità. Divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu-Messineo, Vol. LXII, Giuffrè, 1961,).

In altri termini, secondo altra autorevole dottrina, «atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare» significa «atto che, obiettivamente considerato, deve essere tale da non ammettere altra illazione: poco conta poi che il chiamato abbia realmente voluto, comportandosi in quel modo, accettare l'eredità; che egli sia stato cioè consapevole della conseguenza dell'atto che andava compiendo. Quando si istituisce fra un contegno ed una volontà un rapporto di necessarietà, non si può aver presente la volontà in senso soggettivo o reale, la quale può sempre essere in contrasto col contegno. Questo presuppone necessariamentela volontà di accettare quando una persona normale, che agisce in modo logico e coerente, non lo terrebbe se non intendesse essere o divenire erede. Il carattere necessario del collegamento fra contegno e illazione vale ad escludere dal novero delle accettazioni tacite tutti quei contegni che non sono orientati in modo univoco e pertanto ammettono, come possibili, altre illazioni» (L. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni. Dell'apertura della successione, della delazione e dell'acquisto dell'eredità. Della capacità di succedere. Dell'indegnità. Della rappresentazione. Dell'accettazione dell'eredità. Art. 456-511, in Comm. Cod. civ. Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 1997).

In senso analogo la Cassazione in tempi non lontani ha affermato che l'accettazione tacita dell'eredità può desumersi, ex art. 476 c.c., dall'esplicazione di un'attività personale del chiamato con la quale venga posto in essere un atto di gestione incompatibile con la volontà di rinunciare all'eredità e non altrimenti giustificabile se non nell'assunzione della qualità di erede, cioè un comportamento tale da presupporre necessariamente la volontà di accettare l'eredità, secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire d'una persona normale (Cass. civ. 27 giugno 2005, n. 13738).

Il chiamato deve però conoscere che vi è stata delazione a suo favore, occorre cioè la consapevolezza che l'atto incida su beni ereditari, ma non anche quella degli effetti derivanti da esso; «insomma la conoscenza della delazione e della qualità ereditaria dei beni sono un dato soggettivo che vale ad integrare il requisito obiettivo posto dalla legge» (L. Ferri, cit.).

L'accettazione tacita di eredità non sarebbe dunque un negozio giuridico ma un semplice atto a cui la legge attribuisce l'effetto dell'acquisto: «quella che la legge considera come accettazione tacita non è una volontà di accettazione che si sia effettivamente formata nell'animo del chiamato, e venga a manifestazione per fatti ed atti da cui essa possa essere desunta. È la legge che attribuisce l'effetto dell'acquisto dell'eredità agli atti che obbiettivamente presuppongono acquistata l'eredità, senza che occorra, né si possa indagare se una volontà di accettare vi fu o meno» (A. Cicu, cit.).

Per i sostenitori dell'orientamento oggettivo la protestatio contra factum non avrebbe quindi alcuna rilevanza, cioè non sarebbe idonea a far venir meno il valore di accettazione che l'atto oggettivamente presenta.

Quanto al secondo presupposto (compimento di un atto che il chiamato non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede), esso sta a significare che bisogna accertare se il chiamato si sia mantenuto nei limiti della conservazione e dell'ordinaria amministrazione dei beni ereditari (art. 460 c.c.); qualunque atto che oltrepassi tali limiti (che cioè non sia un atto di conservazione e gestione dei beni ereditari consentito dall'art. 460 c.c.) rientra tra gli atti che possono essere compiuti solo quale erede e che, quindi, determinano l'acquisto dell'eredità.

Il dato interessante della sentenza in commento è rappresentato dal fatto che la Suprema Corte aderisce apertamente all'orientamento soggettivo, richiedendo ai fini dell'accettazione tacita dell'eredità che il chiamato assuma un comportamento inequivoco, in cui si possa riscontrare (oltre all'elemento oggettivo attinente all'atto, tale che solo chi si trovi nella qualità di erede avrebbe il diritto di compiere, anche) l'elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), cioè la effettiva volontà di diventare erede.

Per il resto, la sentenza non presente altri elementi di particolare interesse in quanto si inserisce nel solco della giurisprudenza ormai consolidata secondo cui non comportano accettazione tacita di eredità:

a) il compimento di atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione, diretti ad evitare l'applicazione di sanzioni, che di per sé non denotano in modo univoco la volontà di accettare l'eredità e rientrano tra gli atti di natura conservativa e di amministrazione temporanea che il chiamato a succedere può compiere in base ai poteri conferitigli dall'art. 460 c.c. (Cass. civ. 11 maggio 2009, n. 10796; Cass. civ. 28 febbraio 2007, n. 4783; Cass. civ. 29 marzo 2005, n. 6574; Cass. civ. 13 maggio 1999, n. 4756; Cass. civ. 27 marzo 1996, n. 2711; Cass. civ. 12 gennaio 1996, n. 178; Trib. Milano 29 novembre 2017);

b) la richiesta di informazioni circa l'esistenza di un testamento o di beni relitti del de cuius, al fine di valutare la necessità di una denuncia di successione (Trib. Padova 19 gennaio 2015);

c) la semplice richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione (Cass. civ. 28 agosto 1986, n. 5275; Trib. Firenze 20 febbraio 1993; Trib. Venezia 4 gennaio 1982);

d) la mera partecipazione del chiamato all'eredità alla redazione dell'inventario (Trib. Pescara 30 giugno 2016);

e) la mera immissione nel possesso dei beni ereditari, potendo la stessa dipendere anche da un mero intento conservativo del chiamato quale atto necessario di amministrazione temporanea dei beni predetti. (atteso che l'art. 460 c.c. attribuisce al chiamato, in quanto tale, e pertanto anche anteriormente all'accettazione e addirittura senza bisogno della loro materiale apprensione, il potere di esercitare le azioni possessorie a tutela degli stessi beni) o da tolleranza da parte degli altri chiamati (Cass. civ. 19 luglio 2006, n. 16507; Cass. civ. 27 ottobre 2005, n. 20868; Cass. civ. 15 febbraio 2005, n. 3018; Trib. Salerno 22 giugno 2016; Trib. Padova 27 novembre 2014).

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