Successione ereditaria: sharia e diritto civile a confronto

Paolo Bruno
03 Giugno 2019

Non si può negare ad un cittadino greco di fede musulmana il diritto di testare secondo i principi del codice civile greco, imponendo l'applicazione della sharia.
Massima

Negare ad un cittadino greco di fede musulmana il diritto di testare secondo i principi del codice civile greco, imponendo nel caso di specie l'applicazione della Sharia, con il risultato di privare della maggior parte dei beni che componevano il compendio ereditario l'erede designato a favore di parenti prossimi del testatore da questi non designati, costituisce violazione dell'art. 14 CEDU in correlazione con l'art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione.

Il caso

Una donna di nazionalità greca eredita dal marito per successione testamentaria l'intero compendio successorio, ma il testamento redatto davanti ad un notaio viene impugnato dalle sorelle del defunto, le quali sostengono che – appartenendo il de cuius alla minoranza dei musulmani traci – all'eredità del fratello si sarebbe dovuta applicare la legge religiosa islamica (Sharia) che riconosceva loro i tre quarti dell'asse. Rigettato il ricorso in primo e secondo grado, le ricorrenti ottengono infine soddisfazione davanti alla Suprema Corte che dichiara nullo il testamento in quanto redatto in violazione della predetta legge religiosa, da ritenersi incorporata nella legge nazionale greca in virtù di diversi trattati internazionali il cui precipuo fine era la tutela dei diritti di quella minoranza.

La questione

La Corte EDU viene chiamata a valutare la legittimità del ricorso ad un testamento pubblico da parte di un cittadino di fede musulmana, pur in presenza di contrastanti precetti della legge religiosa che governa la comunità di cui fa parte e che considera valida solo la successione intestata; si sofferma quindi sull'analisi dei rapporti tra libertà di autodeterminazione dei soggetti che fanno parte di una minoranza ed ambito della loro tutela da parte dello Stato in cui vivono. I giudici si trovano in sostanza a decidere se la legge religiosa debba prevalere sulla contraria volontà del singolo laddove l'applicazione della prima di fatto conduca al risultato di deprivare il cittadino di diritti che gli sarebbero invece pacificamente spettati se non appartenente a quella minoranza.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Strasburgo esordisce premettendo che il punto centrale della questione sottopostale è stabilire se la ricorrente abbia o meno il diritto di ereditare i beni del marito ai sensi del diritto civile greco e sulla base di un testamento validamente redatto da un notaio, sebbene il testatore appartenesse ad una minoranza religiosa a cui – sulla base di Trattati internazionali vincolanti per la Grecia – si applica anche la legge islamica della sharia. Aggiunge inoltre che nel caso di specie l'indagine deve appuntarsi sull'esistenza di una eventuale discriminazione ex art.14 CEDU e 1 del Protocollo n.1 alla stessa, ed il punto di partenza è accertare se la ricorrente si trovasse in una posizione analoga o molto simile a quella del chiamato all'eredità di un testatore di fede non musulmana.

Risolto positivamente il primo quesito, atteso che – stante la validità del testamento ai sensi della legge greca – pacificamente la ricorrente avrebbe ereditato l'intero patrimonio del marito se questi non fosse stato di fede musulmana, i giudici osservano anche che in linea generale nel sistema della CEDU una differenza di trattamento si considera discriminatoria se non incontra alcuna ragionevole giustificazione, ovvero non persegue un fine legittimo né risponde ad un criterio di proporzionalità tra scopo perseguito e mezzi impiegati allo scopo.

Conclude, infine, per l'esistenza nel caso di specie di una discriminazione della ricorrente compiuta dal giudice nazionale per effetto di un ragionamento in diritto che ha travisato lo scopo delle norme di protezione della comunità religiosa musulmana, rendendole talmente vincolanti da raggiungere – paradossalmente – l'effetto di privare ogni membro di quella comunità del diritto di scegliere se essere tutelato o no.

Nel caso di specie, infatti, il testatore aveva consapevolmente scelto di testare secondo le regole del diritto civile greco e l'applicazione della legge religiosa alla sua vicenda ereditaria ha avuto l'effetto di sostituire alla sua volontà quella discendente da precetti religiosi che egli non aveva inteso osservare.

La Corte chiarisce, infatti, che nessun Trattato internazionale rilevante nel caso di specie ha attribuito giurisdizione obbligatoria alle autorità religiose (a cui ci si può rivolgere solo su base volontaria) e che la tutela di una minoranza non può andare a detrimento del diritto dei suoi stessi membri di non vedersi applicati determinati precetti o regole.

In altre parole, nessun Trattato internazionale può obbligare taluno a sottoporsi contro la sua volontà ad un regime speciale di protezione.

La conclusione a cui la Corte arriva nel caso specifico va quindi nella direzione dell'esistenza di una disparità di trattamento sofferta dalla ricorrente rispetto all'analoga posizione di una vedova di un cittadino greco, che a parità di condizioni avrebbe ereditato la totalità dei beni relitti.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento la Corte Europea dei diritti dell'uomo affronta temi di stretta attualità: il rapporto tra tutela delle minoranze e coesistenza di ordinamenti giuridici e religiosi all'interno di uno Stato, da un lato; e la compatibilità della legge religiosa islamica con il quadro dei diritti fondamentali riconosciuti in seno al Consiglio d'Europa, dall'altro.

Sullo sfondo, il problema delle conseguenze che potrebbero porsi dal punto di vista della cooperazione giudiziaria in materia civile, ed in particolare in materia di famiglia, con riguardo alla circolazione di decisioni assunte da giurisdizioni alternative a quelle ufficiali degli Stati membri, o comunque rese in osservanza di norme religiose che non rispecchiano il nucleo di valori condivisi dalle parti contraenti la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

I giudici di Strasburgo hanno chiarito che la libertà di religione non impone ad uno Stato contraente di creare un quadro legale specifico al fine di garantire alle comunità religiose uno status speciale e specifici privilegi. Tuttavia, laddove uno Stato abbia creato tale status, esso deve assicurarsi che i criteri stabiliti perché un gruppo di individui possa beneficiarne siano applicati in modo non discriminatorio; essi hanno inoltre aggiunto che la protezione dell'identità di una minoranza non può andare a detrimento del diritto dei suoi membri di non farne parte, e di non accedere al particolare regime stabilito per i medesimi.

Il diritto all'autodeterminazione è per la Corte una pietra miliare del diritto internazionale sulla protezione delle minoranze, per cui – nella sua dimensione negativa – esso deve consentire che un soggetto non sia sottoposto ad uno speciale regime di protezione se non lo desidera.

In altre parole, se c'è consenso si può tollerare che un soggetto scelga di assoggettarsi ad una legge religiosa per regolare aspetti civili della propria esistenza; altrimenti, la stessa non gli può essere imposta nemmeno se teoricamente favorevole o posta a sua protezione.

La pronuncia valorizza dunque il principio del consenso, attribuendo all'individuo il diritto di scegliere se godere o meno di particolari vantaggi o regole di condotta che gli sarebbero riconosciute in quanto componente della minoranza protetta dallo Stato; sin qui, potremmo dire, niente di particolarmente innovativo dal punto di vista interpretativo.

Quello che invece merita di essere notato è che il consenso viene esaltato sino a diventare il criterio che allontana un individuo dalla soggezione alla legge statale per sottoporlo alla legge religiosa: e ciò all'interno di uno Stato contraente la Convenzione dei diritti dell'uomo nonché membro dell'UE.

Ma consenso e libertà di scelta non sono necessariamente sinonimi, e la condizione di svantaggio che alcuni soggetti patiscono secondo la Sharia è talmente nota, ed innegabile, da aver indotto la stessa Corte di Strasburgo a giudicarla incompatibile con la democrazia in una precedente decisione (Refah Partisi contro Turchia); e ciò a tacere del fatto che l'altra Corte europea, quella di Lussemburgo, nel valutare se un divorzio unilaterale pronunciato secondo le regole della Sharia ricadesse nell'ambito di applicazione del Reg. Roma III non ha esitato di recente a pronunciarsi in senso negativo.

Al di là del fatto che nel caso specifico la decisione riguardasse delle norme giuridiche frattanto abrogate (la Grecia ha infatti abolito nel gennaio 2018 quelle che rendevano obbligatoria la sottoposizione dei musulmani traci alla giurisdizione del Muftì, rendendola volontaria) i principi sanciti dalla pronuncia devono essere valutati nella prospettiva della libera circolazione delle persone e delle decisioni giudiziarie.

Ed invero, richiedendo il semplice consenso per sfuggire alle garanzie che quei valori assicurano, i giudici hanno posto le basi per (almeno) tre diverse e potenzialmente dirompenti conseguenze: in primo luogo, hanno legittimato il diritto di una minoranza a determinarsi secondo regole diverse da quelle della maggioranza che vive nello stesso territorio; in secondo luogo hanno offerto una base giuridica alla possibilità di disporre di diritti sulla base di un consenso che – in quanto proveniente da un soggetto in posizione di svantaggio – non necessariamente sarà libero e consapevole.

In terzo luogo hanno creato le condizioni per una estensione, anche solo indiretta, di principi derivanti da una legge religiosa a fattispecie privatistiche; cosa, peraltro, già avvenuta in almeno una occasione nota (Uddin v. Choudhury, Court of Appeal for England and Wales, Civil Division, 21.10.2009) laddove una Corte del Regno Unito ha riconosciuto incidentalmente la decisione di una Sharia Court (mezzo alternativo di risoluzione delle controversie su base volontaria ampiamente diffuso nel Regno Unito) sulla restituzione di doni nuziali.

A quel punto, se l'interprete partisse dal presupposto – che la Corte di Strasburgo pare condividere – che la legge (religiosa) sulla cui base è adottata una decisione è perfettamente compatibile con i diritti umani, il limite dell'ordine pubblico potrebbe non bastare a negare il riconoscimento o l'esecuzione della decisione medesima o di alcune sue parti.

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