Quando il corretto esercizio di critica politica non configura il delitto di diffamazione

Paolo Pittaro
03 Giugno 2019

In tema di diffamazione, ai fini del riconoscimento del diritto di critica occorre distinguere, come anche precisato dalla giurisprudenza della Cedu, fra i "fatti" su cui si esercita la critica e i "giudizi di valore" in cui si sostanza l'opinione critica: mentre i primi devono basarsi su di un nucleo veritiero e rigorosamente controllabile, i giudizi di valore non sono suscettibili di dimostrazione perché la critica, quale...
Abstract

In tema di diffamazione, ai fini del riconoscimento del diritto di critica occorre distinguere, come anche precisato dalla giurisprudenza della Cedu, fra i "fatti" su cui si esercita la critica e i "giudizi di valore" in cui si sostanza l'opinione critica: mentre i primi devono basarsi su di un nucleo veritiero e rigorosamente controllabile, i giudizi di valore non sono suscettibili di dimostrazione perché la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica, essendo ben possibile utilizzare espressioni forti per dare maggiore vigore alla manifestazione del pensiero critico, a condizione che sussista un interesse sociale all'informazione, che il linguaggio non sia gratuitamente offensivo e che il nucleo del fatto storico da cui prende le mosse la critica sia vero.

Il caso

Il tutto trae origine dalla diffusione di un volantino, poi trasfuso in una pubblicazione su un quotidiano, contenente affermazioni lesive della reputazione del Presidente provinciale di una Confederazione, profferite nell'ambito di un risalente contrasto, acuitosi nel corso della campagna elettorale per il rinnovo della carica. Le frasi incriminate, facendo leva sulla pregressa mala gestione dell'ente al punto che il medesimo era stato commissariato e che il Presidente era stato iscritto nel registro degli indagati per reati commessi nell'esercizio del mandato, si riferivano alla vigliaccheria di costui nell'evitare il confronto elettorale ed affrontare le critiche relative alla sua negativa gestione, evidenziando il declino inarrestabile del personaggio, che comunque si era ricandidato.

In primo grado l'autore di tali espressioni, membro della suddetta Confederazione, era stato condannato per diffamazione aggravata, mentre la Corte d'Appello lo aveva prosciolto per intervenuta prescrizione.

L'imputato ricorre per Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento della scriminante del diritto di critica, ai sensi dell'art. 51 c.p., denunciando altresì vizio della motivazione per avere la Corte d'Appello escluso il ruolo di avversario politico rivestito dal ricorrente, in ambito associativo.

La questione

La norma incriminatrice richiamata è costituita dal delitto di diffamazione, previsto dall'art. 595 c.p., in forza del quale chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione in assenza dell'offeso. La fattispecie è aggravata se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato (comma 2) e ulteriormente aggravata (comma 3) se l'offesa è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.

La reputazione è intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito di cui un soggetto gode, per carattere, ingegno, abilità professionale, qualità fisiche o altri attributi personali, nell'ambito sociale ed economico di appartenenza (Cass. pen., Sez. V, 31 gennaio 2017, n. 4672; Cass. pen., Sez. V, 29 novembre 2016, n. 50659; Cass. pen., Sez. V, 21 settembre 2012, n. 43184; Cass. pen., Sez. V, 28 gennaio 1995, n. 3247), il cui evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (scritto, parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2012, n. 5654): un evento non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell'espressione offensiva (Cass. pen., Sez. V, 4 luglio 2013, n. 47175).

Ora, la questione giuridica si incentra sul rapporto fra la tutela dell'onore, riconducibile al concetto di dignità della persona quale deducibile dall'art. 2 Cost., cui è connessa disposizione in oggetto (situata, per l'appunto, nel Capo II, a ciò delicato, del Titolo XII del Libro II del codice penale), ed il diritto alla libera manifestazione del pensiero, sancito dall'art. 21 Cost.

Si tratta, pertanto, di individuare il punto di equilibrio fra le due esigenze, entrambe costituzionalmente garantite, ovvero, in altri termini, quando il diritto affermato dall'art. 21 Cost., se correttamente esercitato, possa inquadrarsi nella scriminante di cui all'art. 51 c.p. (esercizio di un diritto), che farebbe venir meno l'antigiuridicità del comportamento ascritto come diffamatorio. Ed il punto si incentra sui limiti dell'esercizio di critica nei confronti del terzo e, più esattamente, per quanto qui ci interessa, dell'esercizio di critica non generalmente intesa, ma della critica politica.

La rilevanza dell'informazione in un ordinamento democratico

Il terreno del possibile incontro/scontro è rappresentato soprattutto dall'esercizio dell'attività giornalistica, anche se, da ultimo, si è posto il problema dell'espressione potenzialmente diffamatoria postata sui c.d. social media. A tale proposito la Cassazione ha affermato che inserire un commento su una bacheca di un social network (Facebook) significa dare al suddetto messaggio una diffusione che potenzialmente ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sicché laddove questo sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie aggravata del reato di diffamazione a mezzo stampa (Cass. pen., Sez. I, 8 giugno 2015, n. 24431). Parimenti, la Suprema Corte ha pure affermato (Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 2014, n. 37596) che la piattaforma sociale Facebook di un utente deve considerarsi luogo sì “virtuale”, ma aperto al pubblico, ossia all'accesso di chiunque utilizzi la rete e, che, pertanto, integra la contravvenzione di cui all'art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) l'invio di messaggi molesti, “postati” sulla pagina pubblica di Facebook della persona offesa.

Al di là di questo cenno di particolare attualità, è proprio in relazione all'attività giornalistica che si è sviluppata l'attenzione e l'approfondimento della questione che qui ci occupa, in riferimento anche al fatto che i princìpi in gioco attengono alla struttura stessa della compagine statuale, ritenuta anche la rilevanza politico-sociale di siffatta attività, garantita dall'art. 21 Cost. nel senso di diritto di informare, e, conseguentemente, da parte del pubblico, di essere informati, sull'andamento e la gestione della cosa pubblica.

E a tale proposito si può ricordare che, secondo la definizione di Norberto Bobbio, la democrazia è “il governo del potere pubblico in pubblico”, posto che, come già aveva acutamente rilevato Cesare Beccaria, “il segreto è il più forte scudo della tirannia” e, in particolare, il famoso aforisma più volte citato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (Bladet Tromso e Stensaas c. Norvegia, 20 maggio 1999, ric. 21980/93 e Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, 25 giugno 1992, ric. 13778/88), alla cui stregua “il giornalista è il cane da guardia della democrazia”, anche se la paternità di tale espressione da qualcuno viene messa in dubbio, attribuendola, forse, a Winston Churchill.

I limiti del diritti di cronaca

Ora, se è vero che la cronaca potrebbe offendere la reputazione di un soggetto, potendo così ricadere nella fattispecie dell'art. 595 c.p., è altrettanto vero che il suo autore esercita sì un diritto garantito dall'ordinamento, ma la sua condotta per essere scriminata, ricadendo nella causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., deve rispettare certi princìpi e non superare certi limiti. E tali condizioni, che vanno a reggere l'esercizio del diritto di cronaca, sono state individuate a suo tempo dalla giurisprudenza, anche civile (Cass. civ., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259), e devono ritenersi oramai consolidate e riconosciute.

Tali criteri/limiti sono tre (da ultimo, e per tutte, v. Cass. pen., Sez. V, 5 aprile 2017, n. 31079):

  1. la verità del fatto esposto;
  2. la pertinenza, ossia l'interesse pubblico alla notizia;
  3. la continenza, ossia la correttezza espositiva.

1. La verità. Il fatto deve essere vero ossia con rigorosa corrispondenza fra l'accaduto ed il narrato (Cass. pen., Sez. V, 7 novembre 2018, n. 60; Cass. pen., Sez. V, 26 febbraio 2018, n. 20800; Cass. pen., Sez. V, 17 novembre 2017, n.8721; Cass. Pen., Sez. V, 4 novembre 2014, n. 7715; Cass. Pen., Sez. I, 27 settembre 2013, n. 40930). La verità non è la mezza verità, ossia tacendo, anche colposamente, altri fatti che potrebbero mutare il significato di quelli, pur veri, riferiti.

2. La pertinenza, ossia l'interesse pubblico alla diffusione della notizia potenzialmente diffamatoria (Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2001, n. 31037; Cass. pen., Sez. V, 15 gennaio 1987, in Giust. pen., 1988, II, c. 167). Interesse pubblico nel senso che la comunità deve essere esattamente informata ed avere la possibilità di orientarsi, di esprimere il proprio giudizio sugli avvenimenti, sulle persone che sono protagoniste e di trarne le debite valutazioni e conclusioni. La notizia, insomma, contribuisce a formare l'opinione pubblica, ed ha una funzione sociale (si ricordi l'art. 1, comma 2, Cost., ove si afferma che la sovranità appartiene al popolo, il quale, com'è ovvio, può esercitarla se correttamente informato).

3. La continenza, ossia la correttezza espositiva. Ci si riferisce alla modalità di esposizione dei fatti (ovviamente: veritieri e di interesse pubblico). Correttezza espositiva che impone un linguaggio limpido, senza sottintesi sapienti, accostamenti suggestivi, tono sproporzionalmente scandalizzato o sdegnato, insinuazioni, drammatizzazione di notizie neutre, o, peggio, di carattere, infamante. In altri termini, il limite della continenza viene a mancare laddove le espressioni utilizzate, per il loro carattere gravemente infamante o inutilmente umiliante, diano luogo ad una mera aggressione verbale nei confronti della persona destinataria delle stesse, che ne risulti di conseguenza denigrata in quanto tale (Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 2016, n. 17217). Peraltro, e correttamente, a tale proposito, si è rimarcato che il requisito della continenza, ai fini dell'esclusione dell'imputazione per diffamazione, richiede che le espressioni utilizzate non travalichino i limiti posti dall'art. 2 Cost. a tutela della dignità umana, per cui non può giustificarsi la lesione di un valore fondamentale della persona, anche se colpevole di delitti efferati (Cass. pen., Sez. V, 10 maggio 2017, n.50187).

Dalla cronaca alla critica

Se la cronaca è costituita dalla narrazione del fatto storico, dall'esposizione dell'accadimento, è scontato rilevare che i tre requisiti (verità, pertinenza e continenza) vanno assieme e, anzi, si intrecciano quali parametri (e, di converso, come limiti), dell'esercizio di tale diritto.

Diversa, ma ad essa strettamente connessa è la critica, ossia l'opinione personale che il soggetto estensore esprime nel raccontare il fatto e, più, specificamente, sul suo autore. Ovviamente, il punto non sta nell'espressione favorevole, ma, per l'appunto, in quella “critica”, ovverosia palesata con connotati negativi, di discorde opinione, di disapprovazione e di biasimo, in aperta polemica. In altri termini, il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni non concerne solamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, alla cui manifestazione nessuno mai s'opporrebbe, ma è al contrario principalmente rivolta a garantire la libertà proprio delle opinioni che urtano, scuotono o inquietano.

Ovviamente rimane impregiudicato che l'esercizio di tale diritto richiede la verità del fatto attribuito ed assunto a presupposto delle espressioni usate, in quanto non si può attribuire ad un soggetto specifici comportamenti mai tenuti (Cass. pen., Sez. V, 7 novembre 2018, n. 60, in ilPenalista, 20 febbraio 2019, con il commento di A. SALERNO, Quando il giornalista insinua il dubbio: diritto di critica o diffamazione?; Cass. pen., Sez. V, 26 febbraio 2018, n. 20800), posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Cass. pen., Sez. V, 15 gennaio 2016, n. 18262).

La critica può essere espressa relativamente a fatti di diversa matrice: scientifica (Cass. pen., Sez. V, 11 aprile 2013, n. 28502), artistica (Cass. pen., Sez. V, 20 ottobre1998, n. 13563), storica (Cass. pen., Sez. V, 2 maggio 2016, n. 42314; Cass. pen., Sez. V, 26 settembre 2916, n. 25518; Cass. pen., Sez. V, 8 gennaio 2010, n. 19449, in Dir. inf. e informatica, 2010, p. 880, con nota di BARBARO, Diffamazione, verità giudiziaria e verità storica in una recente sentenza della Cassazione; Cass. pen., Sez. V, 11 maggio 2005, n. 34821), giudiziaria (Cass. pen., Sez. V, 7 luglio 2016, n. 41671; Cass. pen., Sez. V, 21 febbraio 2007, n. 25138; Cass. pen., Sez. V, 12 febbraio 2008, n. 10631; Cass. pen., Sez. V, 12 novembre 2004, n. 3389; Cass. pen., Sez. V, 4 dicembre 1998, n. 2890, Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 1998, n. 11928) e politica (per tutte: Cass. pen., Sez. V, 13 giugno 2014, n. 46132).

E proprio in relazione a tali diversi settori la latitudine della continenza può assumere connotati di diversa intensità, pur non potendo mai tradursi in un attacco "alla persona", da intendersi quale offesa rivolta, senza ragione, alla sfera privata, non coinvolta dall'ambito di pubblica rilevanza della notizia, mediante l'utilizzo di non pertinenti argumenta ad hominem (Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 2014, n. 36045; Cass. pen., Sez. V, 28 ottobre 2010 n. 4938; Cass. pen., Sez. V, 16 marzo 2005, n. 13264; Cass. pen., Sez. V, 12 marzo 2002, n. 10135; Cass. pen., Sez. V, 26 ottobre 2001 n. 38448; Cass. pen., Sez. V, 8 febbraio 2000, n. 3477).

Ora, per quanto riguarda la critica politica, si può ammettere che le espressioni usate, sia pur sempre nei limiti appena evidenziati, siano particolarmente aspre e pungenti (Cass. pen., Sez. V, 15 gennaio 2016, n. 18262), perfino satiriche (Cass. pen., Sez. V, 27 agosto 2010, n. 3356; Cass. pen., Sez. V, 20 ottobre 1998, n. 13563), con toni forti e virulenti (Cass. pen., Sez. V, 26 settembre 2014, n. 78712; Cass. pen., Sez. I, 10 giugno 2005, n. 23805), dovendo considerare che l'estensione del diritto di critica è tanto maggiore quanto più elevate siano le funzioni pubbliche ricoperte dalla persona criticata, e che la natura offensiva delle singole espressioni usate va sempre comparata con la indignazione suscitata dalla condotta della persona criticata (Cass. pen., Sez. V, 4 maggio 2016, n. 19509), tenendo presente che l'homo publicus è oggetto particolare di interesse pubblico (Cass. pen., Sez. V, 4 maggio 2006, n. 19509, in Dir. e Giust., 2006, n. 25, p. 38, con nota di MARTINELLI, Fra la critica politica e la diffamazione confini evanescenti, no alle forzature; Cass. pen., Sez. V, 28 gennaio 2005, n. 15236) e non solo nella sua vita ed attività pubblica, ma anche nella sua vita privata, se espressa in luogo pubblico, o se di rilievo in quanto conflittuale con quella pubblica.

In ogni caso, ed è questo il clou della questione, a differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, la critica si concretizza nella manifestazione di un'opinione, ossia di un giudizio valutativo. È vero che essa presuppone, in ogni caso, un fatto inteso come oggetto del discorso critico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e, a differenza di questo, non può pretendersi che sia "obiettivo" e neppure, in linea astratta, "vero" o "falso".

A tale riguardo, si è nitidamente osservato che la critica, ed ancor di più quella politica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, ritenersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Cass. pen., Sez. V, 26 settembre 2016, n. 25518; Cass. pen., Sez. V, 28 ottobre 2010, n. 4938; Cass. pen., Sez. V, 2 luglio 2014, n. 2247). In altri termini, l'espressione di un'opinione non può essere apprezzata in termini di obiettività, in quanto qualunque proposizione valutativa, rappresentando un giudizio di valore, comporta l'esistenza di postulati o proposizioni indimostrabili dei quali non può predicarsi un controllo nei limiti della continenza espositiva ossia della adeguatezza alla finalità dialettica perseguita (Cass. pen., Sez. V, 21 febbraio 2007, n. 25138).

In definitiva, quasi riassumendo, può affermarsi che il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l'esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all'opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi (Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 2014, n. 36045).

Il richiamo alla giurisprudenza della Corte Edu

Il quadro finora delineato è ben presente alla Suprema Corte nella sentenza di commento, che va ad integrarlo con un richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo: un novum, peraltro rimarcato dalle prime segnalazioni “a caldo” della pronuncia (GRILLO, La Cassazione sul diritto di critica: un interessante richiamo alla giurisprudenza CEDU, in Dir.& Giust., 19 febbraio 2019).

La norma sovranazionale di riferimento è costituita dall'art. 10 della CEDU, il quale, in tema di “Libertà di espressione” afferma che «1. Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. // 2. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all'integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario».

Ebbene, la Suprema Corte rileva che l'incriminazione della diffamazione costituisce interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l'art. 10 CEDU, a meno che non sia “prescritta dalla legge”, non persegua uno o più obiettivi legittimi secondo tale norma e non sia “necessaria in una società democratica”.

In riferimento agli enunciati limiti, la Cassazione ricorda che la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la verità del fatto narrato per ritenere giustificabile la divulgazione lesiva dell'onore e della reputazione: ed ha declinato l'argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest'ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva eccessiva, non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali.

In tal senso, la Corte Europea si riferisce principalmente al diritto di critica, politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo, sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero, che è il diritto di opinione, indicando quali siano i limiti da non travalicare nel caso di critica politica.

Nella delineata prospettiva si pone la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27 febbraio 2013, ric. 13471/05 e 38787/07, che , come rileva la Cassazione “costituisce la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo dell'articolo o dello scritto, nel quale è tollerabile - data la sua natura - exaggeration or even provocation, sia neutralizzato dal fatto che lo scritto si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è gratuito e pertanto ingiustificato e diffamatorio”.

Invero, non è questa proprio la prima sentenza della Suprema Corte che, in tema di diffamazione, si richiama alla giurisprudenza della Corte EDU. Il riferimento va alla citata Cass. pen., Sez. V, 7 novembre 2018, n. 60, la quale ha preso visione della sentenza della Corte EDU, Sezione Quarta, Peruzzi c. Italia, 30 giugno 2015, ric. n. 39294/09, la quale ha affermato che si deve operare una distinzione tra le dichiarazioni fattuali e i giudizi di valore. Pertanto, “se la materialità dei fatti si può provare, i giudizi di valore non si prestano ad alcuna dimostrazione per quanto riguarda la loro esattezza e in questo caso l'obbligo di prova, impossibile da soddisfare, viola la stessa libertà di opinione, elemento fondamentale del diritto sancito dall'art. 10. La classificazione di una dichiarazione come fatto o come giudizio di valore dipende in primo luogo dal margine di apprezzamento delle autorità nazionali, in particolare dei giudici interni. Tuttavia, anche quando equivale a un giudizio di valore, una dichiarazione deve fondarsi su una base fattuale sufficiente, senza la quale sarebbe eccessiva”.

Peraltro il riferimento, effettuato dagli ermellini, alla sentenza Mengi vs. Turkey, come il precipitato più completo della precedenza giurisprudenza sulla distinzione fra “fatto” e “giudizio di valore”, può esplicitarsi richiamando le risalenti sentenze Oberschlick c. Austria (n. 2), 1 luglio 1997, ric. 28834/92; Morice c. Francia, 23 aprile 2015, ric. 29369/10; Prager e Oberschlick c. Austria, 26 aprile 1995, ric. 15974/90, Jerusalem c. Austria, 27 febbraio 2001, ric. 26958/95; Ormanni c. Italia, 17 luglio 2007, rif 30278/04.

Inoltre, i giudici di Strasburgo hanno anche affermato che, oltre alla sostanza delle idee e delle informazioni comunicate, l'art. 10 protegge la loro modalità di espressione (Oberschlick c. Austria (n. 1), 23 maggio 1991, ric. 11662/85), mentre la libertà giornalistica comprende anche il possibile ricorso a una certa dose di esagerazione, addirittura di provocazione (Prager e Oberschlick c. Austria, 26 aprile 1995, cit.; Thoma c. Lussemburgo, 29 marzo 2001, ric. 38432/97; Perna c. Italia, 25 luglio 2000, ric. 48898/99).

La decisione della Suprema Corte

La Cassazione, prima di confrontare tale quadro giuridico con la fattispecie concreta nei limiti delle decisioni di merito, deve risolvere una questione, per così dire, pregiudiziale. Il giudizio di appello si era, infatti, concluso con una sentenza di proscioglimento per prescrizione, donde il dubbio se il giudice del diritto potesse riconsiderare la questione in vista di un proscioglimento con formula piena.

La Suprema Corte si schiera decisamente sulla sua competenza in tal senso, richiamandosi, peraltro, ad una consolidata giurisprudenza, in forza della quale, in presenza della causa estintiva della prescrizione, l'obbligo di declaratoria di una più favorevole causa di proscioglimento ex art. 129, comma 2, c.p.p. da parte della Corte di cassazione richiede il controllo unicamente della sentenza impugnata, nel senso che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della causa più favorevole sono costituiti unicamente dalla predetta sentenza, in conformità con i limiti di deducibilità del vizio di mancanza o manifesta illogicità di motivazione, che, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), deve risultare dal testo del provvedimento impugnato (ex plurimis: Cass. pen., Sez. IV, 27 aprile 2000, n.9944).

Passando ai motivi del ricorso e tenendo presente il quadro, come delineato, dei rapporti fra diritto di manifestazione del pensiero ed il delitto di diffamazione, della portata della scriminante di cui all'art. 51 c.p., dei suoi limiti, e della differenza “ontologica” oltre che giuridica, fra cronaca e diritto di critica politica, in ordine alla distinzione, come anche precisato dalla giurisprudenza della Corte EDU, fra i "fatti" su cui si esercita la critica e i "giudizi di valore" in cui si sostanza l'opinione critica, la Suprema Corte rileva, in ordine alla fattispecie concreta:

a) che il volantino in oggetto era riferibile ad un contesto elettorale per il rinnovo della Presidenza di una Confederazione, alla quale il suo autore apparteneva. Ne deriva l'interesse generale per la vicenda e quello particolare dell'avversario politico: ossia, la “pertinenza” di quanto esposto;

b) i fatti riferiti erano veritieri, in quanto l'ente era stato commissariato per la mala gestione dell'ex Presidente, ora ricandidatosi, e nei confronti del quale era stato perfino aperto un procedimento penale in relazione alle sue contestate condotte;

c) non era stato violato il limite della “continenza”, in quanto l'aver evidenziato il declino politico di tale candidato, della sua inaffidabilità ed assenza di rappresentatività in seno della Confederazione e, quindi, l'inopportunità di una sua rielezione, il linguaggio usato in tale polemica dialettica, per quanto incisivo, doveva ritenersi espressione di una critica valutativa e non di una offensività ad hominem.

In definitiva la Suprema Corte ha ritenuto non condivisibili le conclusioni della Corte d'Appello, «poiché la critica è stata formulata con modalità che costituiscono espressione della libertà di manifestazione del pensiero che – mediante prospettazione di una obiettiva situazione di contrasto finalizzata alla rivendicazione della correttezza dell'azione della Confederazione – rientra nella scriminante dell'esercizio del diritto tutelato dall'art. 21 Cost. e dall'art. 51 cod. pen».

Donde l'annullo senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato, con conseguente revoca delle statuizioni civili in essa contenute.

In conclusione

La sentenza in commento della Sezione Quinta della Cassazione è di particolare pregevolezza non tanto per la decisione certamente condivisibile e, a nostro avviso, pure scontata, quanto per la accurata esposizione del quadro giuridico complessivo sui rapporti fra diffamazione e libertà di espressione del pensiero e, quindi, con la scriminante dell'esercizio del diritto, effettuata con lucidità e nitore e, soprattutto, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte EDU sulla distinzione fra i fatti oggetto delle critica politica ed i giudizi di valore espressi. Pure nella estesa giurisprudenza del giudice del diritto sul tema, la massima ricavabile è di particolare completezza, specchio del connesso intreccio giuridico.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario