Revoca e modifica (dei provvedimenti camerali)Fonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 737
12 Giugno 2019
Inquadramento IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Il procedimento camerale è disciplinato dagli artt. 737 e ss. c.p.c., si tratta di un procedimento sommario, semplificato, caratterizzato dalla discrezionalità del giudice nella determinazione delle sue modalità di svolgimento, destinato a concludersi con un decreto motivato reclamabile e in ogni tempo modificabile e revocabile. Esso si caratterizza principalmente per il fatto di non svolgersi nelle forme ordinarie, né in pubblica udienza: il giudice, infatti, delibera senza la presenza del pubblico ma ritirandosi, appunto, in "camera di consiglio", ovverosia, generalmente, nel suo ufficio in tribunale. Un esempio di questo tipo di procedimenti è rappresentato da quelli di cd. "volontaria giurisdizione", che non hanno natura propriamente contenziosa ma riguardano, ad esempio, la nomina e la revoca di curatori o tutori di inabilitati o di incapaci. L'atto introduttivo ha la forma del ricorso sia se è instaurato dalla parte privata, sia se è introdotto dal pubblico ministero. Esso deve avere forma scritta, tranne nei casi eccezionali e urgenti, in cui il ricorso può essere proposto oralmente sulla base di quanto previsto dall'art. 43 disp. att. c.c. Nonostante la semplicità delle forme e la snellezza del procedimento, il provvedimento conclusivo deve essere adottato previa instaurazione del contraddittorio tra le parti, essendo l'art. 101 c.p.c. norma di generale applicazione e non essendovi disposizioni speciali ad essa contrarie. L'assenza di una disciplina delle fasi della trattazione lascia al giudice ampia discrezionalità nella conduzione del procedimento, che termina con un provvedimento che assume la forma del decreto motivato, salvo deroghe espressamente previste dalla legge. Reclamo
Il decreto acquista efficacia se le parti o il pubblico ministero non propongono reclamo. L'art. 739 c.p.c. prevede, infatti, che le parti possono proporre reclamo avverso il decreto pronunciato dal tribunale in camera di consiglio in primo grado con ricorso alla Corte di appello, che pronuncia anch'essa in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto entro dieci giorni dalla comunicazione, se il provvedimento è emanato nei confronti di una sola parte, o notificazione, se il provvedimento è emanato nei confronti di più parti, del decreto. La notificazione del provvedimento è idonea a far decorrere il termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo solo quando è effettuata ad istanza di una delle parti nei confronti del procuratore costituito o della parte presso il domicilio eletto; quindi, non lo è quando sia stata eseguita a ministero del cancelliere o su istanza di tale ausiliare (Cass. civ., 13 gennaio 2010, n. 462; Cass. civ., 26 novembre 2002, n. 16659). In caso di mancata comunicazione o notificazione del provvedimento si ritiene che siano applicabili in via analogica gli artt. 327 e 328 c.p.c. (Cass. civ., 4 dicembre 2003, n. 18514). Legittimati a proporre il reclamo sono sicuramente i soggetti che hanno preso parte al giudizio di primo grado. Secondo una teoria maggiormente estensiva, sarebbero legittimati anche coloro che avrebbero potuto proporre ricorso in prima istanza (Santarcangelo, La volontaria giurisdizione, I, Milano, 2003, 180), ovvero coloro che hanno un interesse giuridicamente rilevante, collegato all'oggetto del provvedimento e che subiscono gli effetti di quest'ultimo, essendo direttamente od indirettamente pregiudicati (Jannuzzi-Lorefice, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2006, 72). Nel caso di pluralità di parti in primo grado, il rispetto del principio del contraddittorio esige che il giudice ne disponga l'integrazione in tutti i casi in cui non siano stati chiamati a partecipare al giudizio di reclamo tutti i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento conclusivo produca i suoi effetti. Se l'ordine di integrazione non viene osservato, il reclamo è dichiarato inammissibile ed il giudizio si estingue. Per proporre reclamo, oltre ad essere legittimati, è necessario avere interesse all'impugnazione: presupposto indefettibile è la difformità della pronuncia rispetto alle conclusioni prese dalla stessa, non la mera esigenza teorica di correttezza processuale, priva di utilità pratica in quanto non finalizzata ad una diversa pronuncia sul bene della vita che è oggetto del procedimento. Ne deriva che il reclamo non può risolversi nella mera riproposizione delle questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, ma deve contenere specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma (Cass. civ., 25 febbraio 2008, n. 4719). Il giudice del reclamo decide con decreto che si sostituisce al provvedimento reclamato, salvo il caso in cui il reclamo venga dichiarato inammissibile. Il reclamo può essere proposto nel medesimo termine anche dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 740 c.p.c.; il pubblico ministero è legittimato a proporre ricorso solo avverso provvedimenti resi in cause in cui è stato o avrebbe potuto essere parte, non in quelle in cui è interventore necessario. Se non viene proposto reclamo, decorso il termine previsto per la proposizione di quest'ultimo, il decreto acquista efficacia ex art. 741 c.p.c. efficacia sicuramente esecutiva, ma non solo: anche costitutiva, modificativa o estintiva di un rapporto giuridico sostanziale. L'art. 741 c.p.c. si atteggia, infatti, come una norma in bianco, proprio perché il provvedimento camerale risponde ad esigenza diverse, non sempre necessitanti il requisito dell'esecutività (Verde, Diritto processuale civile, IV, Bologna, 2014, 101).
Revoca e modifica
Ai sensi dell'art. 742 c.p.c. il decreto può essere sempre modificato e revocato, per cui non si forma alcun giudicato né formale né sostanziale. Si tratta di un provvedimento privo del carattere di definitività e quindi non impugnabile con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (Cfr. Cass. civ., 22 marzo 2012, n. 4616). La revoca si realizza mediante un procedimento che ripercorre il medesimo oggetto, destinato a concludersi in un decreto che sostituisce quello precedente, pur nell'eventualità che ne riaffermi il contenuto. Può essere disposta sia per motivi di legittimità, ove le nullità non si siano sanate, sia per motivi di merito, cioè a seguito di allegazione di fatti o prove sia preesistenti al momento dell'emanazione del decreto, sia sopravvenuti, con la conseguenza che nel primo caso potrà avere efficacia ex tunc, mentre nel secondo solo ex nunc. La revoca si pone quale rimedio alla violazione di norme giuridiche o del principio di buona amministrazione, quale strumento per riesaminare una situazione ed adottare un nuovo provvedimento che meglio si adatti all'interesse superiore tutelato, in modo da attribuire al giudice il potere di eliminare qualsiasi atto viziato o inopportuno che ha emanato. Essa può avere ad oggetto sia il provvedimento negativo che quello positivo. La revoca comporta la riapertura del precedente procedimento di cui ne costituisce la continuazione. La partecipazione soggettiva alla fase ablatoria-sostitutiva deve essere omogenea a quella che ha caratterizzato l'emanazione dell'originario provvedimento. Contro il provvedimento di revoca è possibile proporre reclamo; il nuovo provvedimento può essere oggetto di ulteriore revoca se rivela profili di ingiustizia o inidoneità a regolare la situazione materiale e si ritenga necessario eliminare e/o sostituire gli effetti costitutivi che il provvedimento ha prodotto (Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 314). La revoca può essere disposta d'ufficio o su istanza di parte, non essendo prevista un'esclusiva legittimazione della parte, come invece accade per il reclamo. Il giudice ha la possibilità di esercitare un controllo costante sulla situazione incisa dal provvedimento camerale, al fine di verificare se ciò che si è realizzato anche in virtù del predetto provvedimento sia coerente con l'interesse pubblicistico sotteso. Circa la legittimazione a proporre l'istanza di revoca: una parte della dottrina riconosce tale facoltà solo alle parti in senso formale, mentre al terzo potrebbe agire con un'azione contenziosa contro il provvedimento, sotto forma di azione di annullamento; un'altra parte ritiene, al contrario, che la revoca sia l'unico strumento a disposizione contro il provvedimento illegittimo o inopportuno e, di conseguenza, estende la legittimazione a tutti coloro che avrebbero potuto proporre istanza in prima battuta (Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 323). A differenza del reclamo, che si chiede al giudice superiore, la revoca spetta al giudice che ha emanato il provvedimento. La revoca può avvenire in ogni tempo, per cui sia prima che il decreto produca effetti, sia dopo che gli effetti si siano prodotti, ossia che si sia realizzata una nuova situazione giuridica. La norma prevede, però, che restano salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in forza di convenzioni anteriori. L'interpretazione restrittiva, legata al dato letterale, ha portato ad escludere la tutela per i diritti sorti a seguito di un negozio inter vivos di contenuto patrimoniale e dei diritti derivanti da atti a titolo gratuito (Fazzalari, Giurisdizione volontaria, in Enc. del dir., XIX, Milano, 1970, 352). La buona fede richiesta, da alcuni, viene intesa quale ignoranza dei vizi del provvedimento al momento della convenzione, senza che rilevi il fatto che anche la sola minima diligenza avrebbe dovuto allertare il terzo, dato che non escluderebbe la buona fede l'omesso accertamento dei vizi (Laudisa, Camera di consiglio. I) Procedimenti in camera di consiglio (diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 2002, XXVI.1). Altri, invece, richiedono al terzo un giustificato convincimento che la situazione di fatto corrisponda a quella di diritto nell'uso della normale prudenza (Micheli, Efficacia, validità e revocabilità dei provvedimenti di giurisdizione volontaria, in Opere minori di diritto processuale civile, Milano, 1982, II, 386). La norma non disciplina l'onere probatorio, ma non vi sono ragioni per sottrarre l'ipotesi alla disciplina dell'art. 2697 c.c.: per cui l'onere probatorio incomberà su chi intende ottenere la caducazione del diritto del terzo. Rapporti tra revoca e reclamo
Inizialmente la dottrina si è a lungo interrogata sui rapporti tra revoca e reclamo chiedendosi se un rimedio escludesse l'altro, se avessero ambiti di applicazione differenti. Oggi si ritiene che siano mezzi di rimozione del provvedimento di volontaria giurisdizione pienamente concorrenti (per approfondimenti v. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 306). Si esclude, quindi, la tesi che vuole il reclamo spendibile per vizi di merito o di legittimità originari e la revoca utilizzabile in caso di fatti nuovi (Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di giurisdizione volontaria e sull'opponibilità dei motivi di revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. proc., 1960, II, 209).
La revoca consente al giudice, d'ufficio o su istanza di parte, di ritornare sull'oggetto del procedimento concluso e di riesaminarlo, per meglio provvedere, senza che la disposizione in esame ponga limiti di tempo o di motivazione. L'esigenza di coordinare i due mezzi impone, tuttavia, di far valere tanto i vizi originari che i fatti nuovi nel procedimento di reclamo ancora pendente, senza avviarne un altro avente il medesimo oggetto.
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