La Consulta estende la detenzione domiciliare “in deroga” (al legislatore) per la grave infermità psichica sopraggiunta durante la detenzione

Veronica Manca
13 Giugno 2019

È costituzionalmente illegittima la previsione dell'art. 47-ter, comma 1-terord. pen., nella parte in cui non prevede che, nell'ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l'applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga...
Massima

È costituzionalmente illegittima la previsione dell'art. 47-ter, comma 1-terord. pen., nella parte in cui non prevede che, nell'ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l'applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-terord. pen.

Il caso

Con ordinanza del 22 marzo 2018, la Corte di Cassazione, Prima Sezione, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117, comma 1 Cost., in relazione all'art. 3 Cedu, dell'art. 47-ter, comma 1-ter ord. pen., «nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena» (sul punto, v., Cass. pen., ord. 23 novembre 2017, n. 13382).

Il caso esposto dal giudice a quo, riguarda il ricorso per cassazione di un detenuto condannato in concorso per rapina aggravata con una pena residua di anni sei, mesi quattro e ventuno giorni di reclusione. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva respinto l'istanza del detenuto (Montenero Nino) diretta ad ottenere il differimento della pena, per grave infermità psichica perdurante durante la carcerazione, ai sensi dell'art. 147 c.p. (ord. 20 ottobre 2016).

La difesa aveva, infatti, eccepito come il detenuto fosse affetto da una grave patologia mentale sin dagli anni '70: durante una precedente esecuzione, si era accertato lo stato mentale dello stesso, con applicazione, in quel caso, della detenzione ex art. 47-ter, comma 1, ord. pen.; con il 2016, in costanza di carcerazione, il detenuto aveva palesato due gravi episodi autolesionistici (taglio della gola), tanto da essere seguito dall'area psichiatrica.

La Corte di Cassazione, quindi, ritiene, che, rispetto al caso in esame, sia chiaro il quadro fattuale: a) risulta pacifica l'insorgenza, in costanza di esecuzione di pena, di una patologia di tipo psichico, che lo stesso Tribunale di Sorveglianza definisce come «grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione border line in fase di scompenso psicopatologico»; b) risulta altresì dimostrato come il detenuto si fosse reso autore di gesti autolesionistici, definiti “allarmanti”.

Alla luce di tale situazione, la Corte di Cassazione analizza le disposizioni normative, attualmente vigenti, circa il trattamento dell'infermità psichica sopravvenuta al condannato, tenendo ben presente l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità tendente a marcare la differenza concettuale (con pesanti ricadute pratiche) con l'infermità fisica (sul punto, v. Cass. pen., Sez. I, 5 dicembre 2000; Cass. pen., Sez. I, 28 gennaio 2015, Pileri, rv. 264876; Cass. pen., Sez. I, 19 febbraio 2001, n. 17208, Mangino; Cass. pen., Sez. I, 13 febbraio 2008, n. 8993; Cass. pen., Sez. I, 5 aprile 2013, n. 18439).

L'interrogativo di fondo ruota intorno ai seguenti punti: a) la disposizione di legge dell'art. 148 c.p. è o meno ancora applicabile? b) In caso di inapplicabilità dell'art. 148 c.p., esistono o meno alternative alla pena detentiva per il soggetto affetto da una grave patologia psichica? Con riguardo al punto sub a), la Corte di Cassazione vola leggero, ritenendo implicitamente abrogato l'art. 148 c.p., per effetto degli interventi del legislatore, tra il 2012 ed il 2014 (con il d.l. 211/2011, convertito in legge 9/2012 e successiva legge 81/2014, il legislatore ha avviato – e chiuso definitivamente nel corso del 2017 – la graduale dismissione deli OPG con presa in carico delle persone inferme di mente presso le REMS).

Allo stato attuale, quindi, un soggetto con una grave patologia mentale, se incidente sulla capacità di intendere e volere al momento del fatto, accede alle REMS territoriali; se, invece, il soggetto è recluso in carcere, viene allocato – quando possibile – presso una delle “Articolazioni per la tutela della salute mentale” presenti all'interno del circuito penitenziario, ai sensi dell'art. 65 reg. esec. Non sussistono, quindi, alternative alla pena detentiva, stante la preclusione di cui all'art. 47-ter, comma 1ord. pen.; così come per la diversa ipotesi di cui all'art. 47-ter, comma 1-ter ord. pen.: «Dunque l'esito che il Collegio ricava dal breve excursus sin qui in commento è quello di convalidare l'ipotesi per cui il condannato affetto da infermità psichica sopravvenuta, lì dove il residuo pena sia superiore a quattro anni o si trovi in espiazione per reato ostativo non può accedere – allo stato attuale della legislazione – né agli istituti del differimento della pena (art. 146 e 147 c.p.), né al ricovero in OPG di cui all'art. 148 c.p., né alla collocazione nelle REMS, né alla detenzione domiciliare “in deroga” di cui all'art. 47-ter, comma 1-terord. pen.».

Risulta chiaro, secondo la Corte di Cassazione, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale: chi è affetto da una patologia mentale in carcere subisce, quindi, una “regressione trattamentale”, dovendo dipendere da una decisione amministrativa circa la sua collocazione in “sezioni speciali”, senza alcuna previa verifica della validità di tale provvedimento da parte della magistratura di sorveglianza. La Corte ricorda come “il bene primario della salute” di cui all'art. 32 Cost. debba essere garantito in particolar modo al soggetto privato della libertà personale, rapportandosi alla preminente finalità rieducativa della pena (v., Corte cost. n. 364/1988; Corte cost. n. 313/1990; Corte cost. n. 70/1994; Corte cost. n. 438/1995).

Non solo, sul piano costituzionale, si impone una riflessione: la Corte rammenta anche l'interpretazione evolutiva della Corte europea dei diritti dell'uomo circa l'art. 3 Cedu, in relazione ai trattamenti sanitari praticati alle persone recluse. Nel leading case in materia Contrada c. Italia, 11 febbraio 2014, ric. n. 7509/08, la Corte europea afferma che: «[…] l'art. 3 impone allo Stato l'obbligo positivo di assicurarsi che esse siano detenute in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non facciano piombare l'interessato in uno stato di sconforto né lo espongano ad una prova di intensità superiore all'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della carcerazione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente», in modo particolare attraverso la somministrazione delle necessarie cure mediche (sul punto, Corte Edu, GC, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96; Corte Edu, Riviere c. Francia, 11 luglio 2006, ric. n. 33834/03). I principi espressi dalla Corte europea trovano conferma anche in recentissime pronunce, tra cui: Yunzel c. Russia, 13 settembre 2016; W.D. c. Belgio, 6 settembre 2016; Topekhin c. Russia, 10 maggio 2016; Butrin c. Russia, 22 marzo 2016; Lavrov c. Russia, 1° marzo 2016; Mozer c. Moldavia, 12 gennaio 2016.

In virtù del quadro normativo e dell'interpretazione evolutiva della giurisprudenza costituzionale e convenzionale, il vulnus di tutela circa la posizione del detenuto affetto da una patologia mentale sopraggiunta in costanza di esecuzione della pena è evidente: secondo la Corte di Cassazione, inoltre, l'unica disposizione che potrebbe offrire – in caso di patologia psichica sopravvenuta – l'accesso alla composizione del conflitto in chiave di tutela delle garanzie fondamentali (quale l'art. 47-ter, comma 1-ter ord. pen.) non risulta interpretabile in senso costituzionalmente e convenzionalmente orientato da parte del giudice a quo senza l'intervento additivo della Corte costituzionale (e/o riformatore da parte del legislatore).

Di segno diverso, invece, il Tribunale di Sorveglianza di Messina (ord. 28 febbraio 2018), che ha ritenuto percorribile una soluzione costituzionalmente conforme sulla base di un giudizio di “costituzionalità” diffuso, applicando al caso in esame la detenzione domiciliare di cui all'art. 47-ter, comma 1-ter ord. pen.

La questione

Date le argomentazioni, secondo la Cassazione, risulta obbligato il passaggio alla Corte costituzionale per denunciare l'illegittimità dell'art. 47-ter, comma 1-ter ord. pen., nella parte in cui non prevede l'applicazione della detenzione domiciliare “in deroga” anche nell'ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena, per contrasto con gli artt. 2, 3, 27, 32, e 117 Cost, quest'ultimo in relazione all'art. 3 Cedu.

Soluzioni giuridiche

Secondo la Consulta, la questione così come sollevata è fondata. La Corte costituzionale, infatti, rammenta il disegno incompiuto del legislatore riformatore con la legge delega 103/2017: tale lacuna grava sui soggetti detenuti affetti da infermità psichica sopravvenuta, i quali non hanno, a oggi, accesso né alle REMS, né ad altre misure alternative al carcere, qualora abbiano un residuo di pena superiore a quattro anni, come il detenuto ricorrente in Cassazione.

Si ricorda, inoltre, che i detenuti che si trovino in simili condizioni non possono avere accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” di cui all'art. 47-ter, comma 1, lett. c) ord. pen., prevista per tutti i detenuti con una pena residua inferiore a quattro anni e che siano gravemente malati, indipendentemente dal tipo di patologia – psichica o fisica – di cui soffrono. Non può trovare nemmeno applicazione l'istituto obbligatorio della esecuzione della pena di cui all'art. 146, comma 1, n. 3, c.p.; così come non si può applicare il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena di cui all'art. 147, comma 1, n. 2 c.p. Non trova possibilità di applicazione nemmeno l'ipotesi di cui all'art. 47-ter, comma 1-ter ord. pen.

Date tali premesse, per la Consulta l'impossibilità di accedere a misure alternative da parte di tale categoria di soggetti rappresenta un vulnus dei diritti fondamentali: «Per le ragioni esposte, questa Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l'assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l'ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità».

Osservazioni

La Consulta, oltre ad individuare il vulnus di tutela, non si limita ad ammonire il legislatore, come in altre occasioni, ma individua la soluzione concreta percorribile (la Corte ricorda il monito espresso già nella lontana sentenza n. 111 del 1996): «La misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, individuata dal giudice rimettente si presta, allo stato attuale, a colmare le carenze sopra individuate».

Non di rilievo la circostanza, che argomentando in tal modo, di fatto, la Corte costituzionale legifera, perché la perdurante lesione ai diritti fondamentali (il diritto alla salute) della persona (reclusa) non può comportare un ulteriore aggravio di sofferenza che non sia già insita nell'esecuzione della pena, che, in ogni caso, deve essere umana e tendente alla rieducazione. Il segnale è chiaro, la direzione segnata.

Osservazioni

PELISSERO, Sanità penitenziaria e doppio binario. Alcune puntualizzazioni a margine di “il reo folle e le modifiche dell'ordinamento penitenziario, in Dir. pen. cont., 21 febbraio 2018;

IANNUCCI, BRANDI, Il reo folle e le modifiche dell'ordinamento penitenziario, in Dir. pen. cont., 13 marzo 2018;

DI ROSA, Le solitudini in carcere. Il detenuto malato e il detenuto straniero: dialogo a tre voci, in Dir. pen. cont., 5 luglio 2018;

MANCA, La Corte EDU torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: l'inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell'art. 3 CEDU, in Dir. pen. cont., 7 novembre 2014.

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