Uso della pratica contenitiva in paziente psichiatrico: responsabilità di medici e infermieri per sequestro di persona

Vittorio Nizza
20 Giugno 2019

In tema di responsabilità medica, la contenzione del paziente psichiatrico non costituisce una pratica terapeutica o diagnostica legittimata ai sensi dell'art. 32 Cost., ma è un mero presidio cautelare utilizzabile in via eccezionale qualora...
Massima

In tema di responsabilità medica, la contenzione del paziente psichiatrico non costituisce una pratica terapeutica o diagnostica legittimata ai sensi dell'art. 32 Cost., ma è un mero presidio cautelare utilizzabile in via eccezionale qualora ricorra lo stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., ossia il pericolo di un danno grave alla persona, che si presenti come attuale ed imminente, non altrimenti evitabile, sulla base di fatti oggettivamente riscontrati che il sanitario è tenuto ad indicare nella cartella clinica. (In motivazione la Corte ha precisato che l'uso della contenzione in assenza dei presupposti di cui all'art. 54 c.p. costituisce un'illegittima privazione della libertà personale ed integra gli estremi del delitto di cui all'art. 605 c.p.).

In materia di contenzione del paziente psichiatrico, l'infermiere è titolare, ai sensi dell'art. 1, l. 10 agosto 2000, n. 251, e del codice deontologico degli infermieri, di specifici obblighi giuridici autonomi rispetto a quelli del medico, essendo egli tenuto a verificare la legittimità della contenzione, affinché sia circoscritta ad un uso straordinario del trattamento, e a segnalare all'autorità competente eventuali abusi.

Il caso

La suprema Corte nel caso di specie veniva chiama a giudicare la condotta dei medici e degli infermieri del reparto psichiatrico dell'Ospedale di (omissis) per i reati di sequestro di persona, morte come conseguenza di un altro delitto doloso ex art. 586 c.p. e falso ideologico in atto pubblico a seguito del decesso di un paziente in cura presso detto reparto che per sette giorni (dal giorno del ricovero al decesso) era stato sottoposto a regime contenitivo ininterrotto con fascette di fissaggio ai quattro arti legate alle sbarre del letto. L'uso della contenzione non veniva riportato nella cartella clinica.

I medici che avevano avuto in cura il paziente poi deceduto erano stati condannati in primo e secondo grado per concorso nei reati di cui agli articoli 605, 586 e 479 c.p. Il personale infermieristico, invece, assolto in primo grado, era stato condannato in appello per il reato di sequestro di persona. Tutti gli imputati avevano proposto ricorso per Cassazione.

La questione

Nella sentenza in oggetto viene analizzata la problematica relativa ai limiti che può avere un atto medico. In particolare quando è possibile intervenire anche contro la volontà del paziente e con sistemi contenitivi e privativi della sua libertà a fini terapeutici e quando, invece, tale condotta da parte del personale sanitario trascenda la finalità curativa ed integri gli estremi di reati contro la persona.

Inoltre, nel caso di specie, i giudici affrontano il problema di specie del coinvolgimento non solo dei medici curanti che alternandosi nei turni avevano comunque disposto il mantenimento senza soluzione di continuità della forma della contenzione totale, ma anche del personale infermieristico, privo di un potere decisionale in tal senso.

Le soluzioni giuridiche

In primo luogo la pronuncia in oggetto si sofferma sulla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per la configurabilità del reato di sequestro di persona, con riferimento alla peculiare situazione in esame.

La Corte, quindi, analizza il problema dei presupposti e dei limiti dell'utilizzo in ambito medico della contenzione di un paziente psichiatrico al fine di verificare se nel caso di specie sia stata o meno legittimamente applicata.

Secondo i supremi giudici, infatti, lo strumento della contenzione fisica non è considerabile, come invece sostenuto dalle difese degli imputati, un “atto medico”. L'atto medico, infatti, risponde a una finalità di tutela della salute e dell'incolumità fisica del paziente e in tal senso trova anche copertura costituzionale nell'art. 32 Cost. L'uso della contenzione meccanica, invece, non ha finalità curativa né produce materialmente l'effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente, ma ha una funzione esclusivamente di tipo “cautelare” ossia salvaguardare l'integrità fisica del paziente, o di soggetti terzi, qualora vi sia un concreto rischio che questi possa porre in essere azioni auto o etero lesive. La stessa pratica, pertanto, non può essere rimessa alla discrezione del medico, come avviene per le quelle terapeutiche o diagnostiche.

Trattandosi di una forma di restrizione della libertà personale, precisa la Corte, l'uso della contenzione è ammesso solo ove ricorrano situazioni eccezionali di pericolo all'integrità fisica delle persone (paziente e/o terzi), deve essere circoscritto al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente soggetto al controllo del medico. Si tratta pertanto di una patica da utilizzare solo come extrema ratio.

I medici, quindi, non possono far ricorso alla contenzione fisica del paziente psichiatrico come prassi abituale, quale trattamento complementare alla terapia farmacologica, come invece avveniva nel reparto psichiatrico ove è accaduto il fatto.

Gli obblighi di protezione e custodia del paziente in capo al sanitario, derivanti dalla sua posizione di garanzia, non consentono di superare i limiti previsti per l'uso di forme di contenimento del paziente, in considerazione dei beni costituzionalmente protetti su cui tali pratiche vanno ad incidere, quali la libertà personale, l'integrità fisica e la dignità umana.

La Corte nella pronuncia in oggetto evidenzia quindi i presupposti che rendono lecito l'uso della contenzione meccanica ai sensi dell'art. 54 c.p.: occorre che vi sia un pericolo attuale di grave danno alla persona, non altrimenti evitabile e rispondente al criterio di proporzionalità. In primo luogo occorre l'attualità di un pericolo di un danno grave alla persona che sia riscontrato concretamente da elementi obiettivi che il sanitario deve indicare nella cartella clinica in modo puntuale e dettagliato. L'attualità del pericolo richiede un costante monitoraggio del paziente: non solo quindi al momento dell'applicazione della contenzione ma anche ai fini del suo mantenimento (la rivalutazione della sussistenza dei presupposti deve avvenire periodicamente con il passare delle ore).

Il requisito dell'inevitabilità altrimenti del pericolo sussiste, precisano i giudici, quando non vi sia la possibilità di ricorrere a strumenti alterativi per salvaguardare la salute del paziente; valutazione anche questa rimessa al prudente apprezzamento del medico. Infine, il requisito della “proporzionalità” riguarda le modalità di applicazione della contenzione, da applicarsi nei limiti dello stretto necessario sia come durata che come limitazione di movimento degli arti (polsi e/o caviglie).

Fondamentale pertanto è la valutazione del medico della situazione concreta e le ragioni della scelta della contenzione, delle sue modalità e della durata dell'applicazione: valutazioni che devono essere tutte riportate nella cartella clinica. L'annotazione dell'applicazione della contenzione nella cartella clinica è essenziale per la tutela del paziente e degli stessi medici: devono infatti essere riportate tutte le valutazioni che hanno reso indispensabile tale scelta da parte dei sanitari nonché il suo mantenimento.

La sottoposizione di un paziente a una contenzione senza i suddetti presupposti diventa una illegittima privazione della libertà personale che può integrare gli estremi del delitto di cui all'art. 605 c.p.

In particolare nel caso di specie i Giudici sottolineano come le evidenze probatorie abbiano fatto emergere una situazione in cui la contenzione era una prassi consolidata tanto da essere considerata una “terapia meccanica” da applicarsi in maniera complementare a quella farmacologica. In relazione al paziente poi deceduto è emerso come non vi fosse un concreto e attuale motivo di pericolo tale da ricorrere alla contenzione tra l'atro sia degli arti inferiori che superiori, protratta ininterrottamente dall'inizio del ricovero fino al decesso.

Sarebbe infatti emerso che la necessità di contenere il paziente trovasse il proprio fondamento nel fatto che lo stesso (coinvolto in un sinistro stradale) si era rifiutato di sottoporsi al test delle urine. Evidenziano i Giudici come una tale restrizione della libertà personale non possa trovare giustificazione in un'esigenza investigativa, infatti il prelievo presuppone sempre il consenso del paziente. In ogni caso, anche a voler ammettere una legittimazione in astratto ad un prelievo coattivo, sarebbe stata sufficiente una immobilizzazione momentanea per il tempo strettamente necessario. Dalla cartella clinica, infatti, non emergono indicazioni di manifestazioni deliranti né atteggiamenti di aggressività che avrebbero potuto giustificare il prolungamento della costrizione. Gli unici segni di agitazione psicomotoria del paziente (riscontrati tramite la visione del filmato delle telecamere del reparto) sono determinati esclusivamente della sua volontà di liberarsi dal mezzo contenitivo, ormai divenuto insopportabile, poiché prolungato ormai da giorni senza interruzione.

La Corte afferma che non possa essere ritenuta di alcun pregio la tesi difensiva della possibilità di applicare al caso di specie le scriminanti del consenso dell'avente diritto o dello stato di necessità, per non essersi il paziente opposto all'applicazione del presidio contenitivo e poiché lo stesso avrebbe invece rifiutato le cure. Rileva la Corte come non possa ritenersi tacitamente prestato il consenso di un paziente in evidente stato di minorata difesa solo perché non si è ribellato alla manovra dei sanitari. Lo stato di prostrazione fisica non può essere confuso con il consenso tacito. L'esimente del consenso dell'avente diritto, quantomeno nella forma putativa, è rinvenibile solo quando sussista una situazione che possa ragionevolmente indurre in errore l'agente sull'esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante, non sussistenti nel caso di specie.

Inoltre non sarebbe invocabile la scriminante di cui all'art 50 c.p. poiché l'applicazione della contenzione non ha avuto alcun ruolo nel processo curativo del paziente, né era indispensabile per sottoporre lo stesso alle cure, posto che il paziente non rifiutò mai la terapia.

Infine, rilevato come non vi fossero nel caso di specie le condizioni di necessità ed inevitabilità che rendessero legittimo l'uso di strumenti coercitivi privativi della libertà personale, la Corte si sofferma ad analizzare la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo del reato di sequestro di persona, punito a titolo di dolo generico.

Rileva la Corte come nel caso di specie sarebbero due gli elementi sintomatici della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo. In primo luogo la mancata indicazione nella cartella clinica della contenzione. Tale circostanza, infatti, non venne annotata non solo dal medico curante che per primo aveva predisposto tale forma di costrizione, ma nemmeno dai successi medici che avevano preso in cura il paziente e che avevano deciso di mantenere la misura per tutti i sette giorni di ricovero. Secondo i giudici la circostanza che nessuno dei medici che si sono avvicendati avesse provveduto alla doverosa annotazione del presidio cautelare nella cartella clinica dimostrava che tale omissione non fosse frutto di una negligente dimenticanza o trascuratezza del singolo, ma di una scelta volontaria dettata dalla consapevolezza di ciascuno dell'assenza dei presupposti legittimanti. La cartella clinica, infatti, riportava tutti gli altri elementi, lo stato di contenzione era l'unico a non risultare.

L'altro elemento sintomatico del dolo degli imputati, secondo i Giudici, sarebbe stato rappresentato dal fatto che la contenzione era una sorta di prassi a cui tacitamente si uniformava il personale sanitario, giustificata in realtà più da motivi di praticità – carenza di personale nel reparto - che da un'effettiva e concreta finalità cautelare.

Poiché il delitto di sequestro di persona è un reato a dolo generico, tale elemento psicologico è stato rinvenuto in capo ai medici nella consapevolezza di aver illegittimamente privato il paziente della sua libertà al di fuori dei casi di effettiva necessità. Secondo i giudici, la contenzione sarebbe «ontologicamente incompatibile con la volontà dolosa solo se pienamente coerente con la finalità cautelare che le è propria con la conseguenza che il difetto dei presupposti giustificativi, iniziale o sopravvenuto, ovvero l'adozione di modalità inutilmente gravose rispetto ad essi, costituiscono fattori che recidono il legame con la finalità cautelare e rendono penalmente illecita la contenzione ai sensi dell'art. 605 c.p.».

Precisa ancora la Corte come sia configurabile la responsabilità concorsuale di tutti i sanitari che si sono avvicendati per tutto il periodo in cui il paziente è rimasto in contenzione. Nel concorso di persone nel reato, infatti, la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o comunque la reciproca consapevolezza di un concorso altrui, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo in tutte o in alcune fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione, alla realizzazione dell'altrui proposito criminoso.

La Corte conferma pertanto la sentenza impugnata con riferimento a tutti i medici imputati.

Infine la sentenza in commento si sofferma sugli atri due reati contestati agli imputati. Con riferimento al reato di morte come conseguenza di un altro delitto doloso ex art. 586 c.p., rileva come, sebbene il reato sia prescritto, in realtà dalle consulenze tecniche effettuate in corso di istruttoria non sia emersa la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sussistenza del nesso di causa tra l'edema polmonare (causa accertata della morte del paziente) e il protrarsi della contenzione. Essendo però il delitto di cui all'art. 586 c.p. contestato prescritto la sentenza viene annullata limitatamente a tale profilo.

Infine, in merito al contestato reato di falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 c.p. rileva la Corte come sia pacifico il riconoscimento di atto pubblico munito di fede privilegiata riconosciuto alla cartella clinica di una struttura sanitaria (a cui è assimilabile quella di una casa di cura convenzionata) in quanto esplicazione del potere certificativo riconosciuto al medico di quanto avvenuto in sua presenza. Risponde di falso ideologico per omissione il sanitario che consapevolmente ometta l'annotazione di fatti rilevanti sotto il profilo clinico, diagnostico, terapeutico, assistenziale, avvenuti o caduti sotto la sua diretta percezione. Costituisce falso documentale anche un'attestazione incompleta o comunque l'omissione di un'informazione che attribuisca all'atto un senso diverso. Tra l'altro la compilazione chiara e puntuale della cartella clinica rientra tra i doveri di diligenza prevista dal codice deontologico professionale.

Evidenzia quindi la corte come l'omessa annotazione nella cartella clinica della contenzione abbia fatto assumere all'omissione dell'informazione il significato della negazione della sua esistenza su fatti clinici significativi, tenuto conto che tale pratica richiede la valutazione del paziente, l'eventuale attuazione di azioni alternative, la valutazione prognostica su possibili esiti del trattamento, la sua rivalutazione in ordine alla reale necessità dopo dodici ore.

Non rileva solo la condotta del medico che abbia omesso di annotare l'applicazione della contenzione, ma anche quella di tutti i sanitari successivi che non hanno annotato il mantenimento della stessa «essendo tale annotazione obbligatoria ad ogni controllo medico, considerato il carattere contingente della contenzione, destinata ad essere rivalutata nei suoi presupposti con il decorso delle ore».

Il reato di falso in atto pubblico, inoltre, è punito a titolo di dolo generico, consistente nella rappresentazione e nella volontà della immutatio veri, nella consapevolezza che le annotazioni omesse nella cartella clinica danno luogo ad una falsa rappresentazione di una realtà giuridicamente rilevante. Ne consegue che il delitto è configurabile anche quando la falsità sia compiuta senza l'intenzione di nuocere.

Pertanto la Corte nella sentenza in oggetto conferma la penale responsabilità dei medici imputati in ordine ai reati di sequestro di persona e falso in atto pubblico, annullando invece la sentenza d'appello in merito alla condanna per il reato di cui all'art. 586 c.p.

Diversa invece la posizione degli infermieri imputati di concorso nei reati di cui agli artt. 605 e 586 c.p., nei cui confronti il giudizio di appello aveva riformato la sentenza assolutoria di primo grado.

Osservazioni

Nella sentenza in commento, viene effettuata un'importante valutazione sul ruolo del personale paramedico e quindi delle eventuali responsabilità che possono sorgere in capo allo stesso a fronte di scelte terapeutiche rientranti nella competenza dei medici. Il ruolo dell'infermiere, infatti, si afferma nella pronuncia in oggetto, non è quello di mero esecutore delle direttive del medico.

Nel caso in esame, come si è detto, la suprema Corte esamina la legittimità dell'utilizzo nell'ambito della medicina psichiatrica di sistemi contenitivi, privativi della libertà motoria, dei pazienti. Trattandosi di metodi di cura che contrastano con alcuni principi fondamentali costituzionalmente tutelati, quali la libertà e la dignità umana, devono essere utilizzati solo in casi estremi, quando vi sai un pericolo attuale e concreto per la salute del paziente stesso o di terzi, e solo nei limiti dello stretto necessario sia come durata che come modalità. Qualora si superino tali limiti, le forme di contenzione diventano illegittime e possono integrare gli estremi del reato di sequestro di persona, ove sussista anche l'elemento soggettivo del dolo.

Nel caso di specie i supremi giudici evidenziano come i medici fossero ben consapevoli di utilizzare il regime contenitivo sui pazienti anche in assenza dei presupposti legittimanti. Infatti, la contenzione era una prassi che veniva abitualmente applicata, una sorta di terapia meccanica da affiancare a quella farmacologica, tanto che l'applicazione del regime della contenzione non veniva mai annotato in cartella clinica, così da non dover dar conto della valutazione dei presupposti che dovrebbero sussistere non solo per applicarla ma per mantenerla. In conseguenza di ciò viene individuata la responsabilità di tutti i medici che nei vari turni ebbero in cura il paziente, poiché anche il mantenimento della contenzione deve essere attentamente valutato, anzi la sussistenza dei requisiti di necessità deve essere rivalutata proprio con il decorrere delle ore.

Diversa invece la posizione degli infermieri, poiché non compete loro la scelta dell'applicazione o del mantenimento della contenzione, né l'annotazione sulla sua cartella clinica (o la verifica che sia stata correttamente indicata).

Evidenzia però la Corte come sia configurabile anche in capo agli infermieri una posizione di garanzia nei confronti del paziente. Infatti deve ritenersi ormai superata l'idea della sussistenza di un rigido rapporto gerarchico tra il medico e l'infermiere e sarebbe, pertanto, da escludere la scriminante dell'adempimento di un dovere ex art. 51 c.p. invocata dalle difese.

Il codice deontologico degli infermieri, anzi, prevede un dovere di protezione del paziente con l'obbligo di segnalazione all'autorità giudiziaria situazioni di maltrattamenti o privazioni. Con specifico riferimento all'utilizzo del mezzo della contenzione, il codice deontologico impone all'infermiere l'obbligo di attivarsi affinché sia utilizzato solo come evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali.

La legge che disciplina le professioni sanitarie infermieristiche prevede che gli infermieri svolgano le proprie attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva con autonomia professionale.

È chiaro che la competenza a disporre o mantenere la contenzione è in capo al medico, però l'infermiere non è un mero operatore subordinato tenuto solo ad adempiere alle prescrizioni impartite, ma ha un obbligo di attivarsi per verificare che tale mezzo contenitivo sia stato legittimamente predisposto ed eventualmente intervenire.

Nel caso di specie, quindi, il dolo del reato di sequestro di persona viene ravvisato anche in capo agli infermieri. Infatti sebbene a differenza dei medici non possa essere ritenuto sintomatica l'omessa indicazione della contenzione nelle cartelle cliniche, tuttavia anche il personale paramedico era ben consapevole della prassi dell'ospedale di applicare abitualmente ai pazienti il regime di restrizione. Tutti gli operatori sanitari, pertanto, erano a conoscenza che l'uso della contenzione costituiva nel loro reparto una prassi abituale e non veniva quindi applicata come estrema ratio nei casi straordinari e urgenti di grave rischio per la salute dei pazienti o degli stessi operatori, in situazioni quindi che ne legittimassero il ricorso.

Secondo i giudici, inoltre, l'obbligo per gli infermieri di attivarsi per far cessare tale situazione, illegittima, di uso di mezzi ci costrizione fisica, era ancor più pregnante per il rapporto più frequente e diretto che in virtù del loro ruolo instaurano con il paziente, così da poter constatare da vicino la sofferenza che la limitazione meccanica cagionava.

È interessante come la sentenza in commento, quindi, individui una responsabilità di tutto il personale sanitario sia medico che paramedico per l'applicazione del mezzo della contenzione. Nella sentenza si evidenzia come in effetti l'uso di mezzi di contenzione, in quanto limitativo di alcuni diritti fondamentali della persona umana, costituzionalmente riconosciuti, possa essere utilizzato solo in presenza di casi necessità e urgenza ossia in presenza di un concreto pericolo che il paziente ponga in essere atti potenzialmente pericolosi per sé stesso o per soggetti terzi. Nel reparto dell'ospedale ove operavano gli imputati invece l'uso della contenzione era una prassi consolidata, una sorta di terapia meccanica da affiancare a quella farmacologica, giustificata non da esigenze di tutela del paziente, ma da questioni organizzative del reparto (carenza di personale). Proprio la consapevolezza di questa prassi applicativa, priva di giustificazioni legittimanti, determina – secondo i giudici - la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo in capo a tutti il personale sanitario. Più evidente con riferimento alla posizione dei medici, a cui compete la scelta di applicare o di mantenere la contenzione. Interessante la valutazione che viene fatta in merito agli infermieri: evidenziano infatti i supremi giudici come la posizione del personale paramedico non sia quella di mero esecutore delle direttive del sanitario. Gli infermieri, infatti, hanno uno specifico obbligo di tutela del paziente a cui consegue un obbligo di attivarsi a fronte di pratiche medicei legittime, anche coinvolgimento le competenti attività. D'altro canto, come si legge nella stessa sentenza, è il personale paramedico quello che ha un contatto diretto e più frequente con il paziente.

La responsabilità degli infermieri non si limita quindi ad eventuali conseguenze dannose per i pazienti derivanti dall'esecuzione dagli specifici compiti loro attribuiti, ma può anche essere ricollegata a all'attività disposta dal medico curante, di cui gli infermieri, pur essendo degli esecutori, devono valutare il fondamento. È chiaro che in tutte queste ipotesi diventa fondamentale ricostruire l'elemento soggettivo, poiché gli infermieri non hanno un potere decisionale della terapia (intesa in senso lato): ciò che rileva nel caso di specie è la piena consapevolezza dell'illegittimità della prassi posta in essere nel reparto dell'uso improprio ed incondizionato della contenzione senza la sussistenza dei requisiti legittimanti.

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