L’omesso avviso della messa alla prova nel decreto di citazione diretta a giudizio. Problemi di legittimità procedurale e costituzionale

Gianluca Bergamaschi
21 Giugno 2019

La questione – sorta in quanto la l. 67/2014 non ha dettato le opportune modifiche all'art. 552 c.p.p., volte a far in modo che il P.M., a pena di nullità, inserisca nel decreto di citazione a giudizio diretta anche l'avvertimento all'imputato...
Premessa

La questione – sorta in quanto la l. 67/2014 non ha dettato le opportune modifiche all'art. 552 c.p.p., volte a far in modo che il P.M., a pena di nullità, inserisca nel decreto di citazione a giudizio diretta anche l'avvertimento all'imputato della possibilità di adire alla messa alla prova entro la dichiarazione di apertura del dibattimento – verte sul fatto se, tale omissione, possa, comunque, comportare la nullità del decreto di citazione a giudizio o l'incostituzionalità della predetta norma ovvero nessuna irritualità censurabile.

La giurisprudenza di legittimità e di merito

L'unico arresto di legittimità noto, è Cass. pen., Sez. II, n. 3864/2017, la quale – nel respingere il ricorso del P.M. circa l'abnormità dell'ordinanza del Tribunale monocratico che aveva dichiarato la nullità, con restituzione degli atti, di un decreto di citazione a giudizio non contenente l'avviso all'imputato della possibilità di chiedere le messa alla prova – ritenne, però, che tale avviso non fosse necessario a pena di nullità e/o di incostituzionalità, giacché i principi stabiliti dalla Corte Cost. n. 201/2016 in tema di decreto penale di condanna, non sono applicabili in caso di decreto di citazione a giudizio, perché: «[…] l'omissione dell'avviso non può determinare alcun pregiudizio irreparabile per la parte non incorrendo la medesima in alcuna decadenza nella proposizione della richiesta, tranquillamente avanzabile in sede di giudizio nei limiti temporali in esso stabiliti.».

Quanto, poi, alla giurisprudenza di merito, sembrano ravvisabili tre tendenze.

Quella che afferma la nullità del decreto di citazione a giudizio, è rinvenibile nell'ordinanza del Trib. Firenze n. 6927/2015, con cui il giudice monocratico dichiarò nullo il decreto di citazione a giudizio e dispose la trasmissione degli atti al P.M., perché mancate dell'avviso all'imputato della possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova, in quanto, sebbene l'art. 552, lett. f), c.p.p. non preveda espressamente tale adempimento a pena di nullità, la messa alla prova è comunque un rito alternativo, per cui il mancato avviso costituisce un'illegittima menomazione delle facoltà difensive, integrante una nullità di carattere generale sanzionata dall'art. 178 c.p.p..

Quella che sostiene l'illegittimità costituzionale della norma, è rappresentata dal Tribunale di Spoleto, ordinanza del 23 febbraio 2016, dal Tribunale di Pistoia, ordinanza dello 4 novembre 2016, edal Tribunale di Bari, ordinanza dello3 aprile 2017; quest'ultimo arresto, in particolare, appare paradigmatico, infatti, il Giudice osserva che il decreto di citazione a giudizio è un atto complesso che vale sia come vocatio in iudicium, sia come strumento di una consapevole e informata partecipazione allo stesso, tra cui spicca il diritto di chiedere i riti alternativi, quale è la messa alla prova; di talché la mancata previsione legale della necessità di detto avviso a pena di nullità nel corpo del decreto, rende sospetto di incostituzionalità l'art. 552, comma 1, lett. f) c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, comma 2, e 111 Cost., da cui la trasmissione degli atti alla Consulta.

Quella, infine, che aderisce completamente all'impostazione della Cassazione vista supra, è significata, ad esempio, dal Tribunale di Parma, che – con le ordinanze dello 7 settembre 2017; del 10 ottobre 2017; del 30 ottobre 017; del 07.12.2017; del 23.01.2018 – respinge l'eccezione di nullità e/o la questione di costituzionalità proposte, in quanto la mancanza dell'avviso della sospensione del procedimento con messa alla prova nel corpo del di decreto di citazione a giudizio: «[…] non determina alcun pregiudizio irreparabile per la parte, che non incorre in alcuna decadenza nella proposizione della richiesta, tranquillamente avanzabile in sede di giudizio nei limiti temporali in esso stabiliti»; (Trib. Parma, ord. del 10 ottobre 2017).

La giurisprudenza costituzionale

Non è certo la prima volta che la disciplina normativa si presenta carente su simili aspetti, dando spesso luogo a problematiche di costituzionalità.

Nota, per esempio, è la sentenza Corte Cost. n. 497/1995, che giudicò violato l'art. 24 Cost. e dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 555, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevedeva la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancanza o insufficiente indicazione nello stesso, del requisito previsto dal comma 1, lettera e), ossia la possibilità di adire ai riti alternativi; avendo ritenuto la Corte che, nell'allora assetto normativo del rito pretorile, il termine di comparizione in giudizio (45 gg. dalla notifica del decreto), rispetto a quello per la scelta dei riti alternativi (15 gg. dalla notifica del decreto), ben potesse far sì che l'imputato, non avvertito di tale possibilità, si rivolgesse ad un legale quando ormai il termine quindicinale era spirato, risultandone, quindi, compromesso il fondamentale diritto difensivo di adire a tali riti.

Spesso richiamata è, poi, l'ordinanza Corte Cost. n. 309/2005, con cui la Corte ritenne non lesivo degli artt. 3 e 24 Cost., il fatto che l'art. 419, comma 1, c.p.p. non prevedesse, a pena di nullità, l'obbligo di indicare, nell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, la possibilità di adire ai riti alternativi, in quanto, coerentemente con altri arresti (sentenza n. 148 del 2004; ordinanza n. 484 del 2002; n. 231 del 2003; ordinanze nn. 56, 55 e 11 del 2004), valutò che tale carenza: «[…] non viola gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto, essendo il termine di decadenza posto all'interno di fasi quali il dibattimento o l'udienza preliminare, l'informazione circa la facoltà di chiedere i riti è comunque assicurata dalla presenza obbligatoria e dall'assistenza del difensore».

Più recentemente, con la sentenza Corte Cost. n. 201/2016, la Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 460, comma 1, lettera e), c.p.p., per violazione dell'art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna debba contenere l'avviso all'imputato della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova unitamente all'atto di opposizione, in quanto, stabilita l'assimilabilità giuridica della messa alla prova con gli altri riti alternativi, l'omissione dell'avviso può determinare un danno difensivo irreparabile, giacché, nel procedimento per decreto, il termine entro il quale chiedere la messa alla prova è anticipato rispetto al giudizio e corrisponde a quello per proporre opposizione, cosicché la mancata corretta informazione può precludere l'accesso al rito; ribadendo, per altro, l'affermazione di principio contenuta nell'ordinanza Corte Cost. n. 309/2005 vista supra, ossia che sussiste la necessità dell'avviso, pena la violazione del diritto di difesa, solo: «[…] quando il termine entro cui chiedere i riti alternativi è anticipato rispetto alla fase dibattimentale, sicché la mancanza o l'insufficienza del relativo avvertimento può determinare la perdita irrimediabile della facoltà di accedervi»; mentre non è necessario: «quando il termine ultimo per avanzare tale richiesta viene a cadere “all'interno di una udienza a partecipazione necessaria, sia essa dibattimentale o preliminare, nel corso della quale l'imputato è obbligatoriamente assistito dal difensore” (ordinanza n. 309 del 2005).».

Sul tema qui specificamente trattato, la Corte, per ora, è intervenuta con due ordinanze: la n. 7/2018 (relativa alle questioni sollevate dal Tribunale di Spoleto e dal Tribunale di Pistoia) e la n. 71/2019 (relativa alla questione sollevata dal Tribunale di Bari).

In essi atti la Corte si è limitata a dichiarare la “manifesta inammissibilità delle questioni”, stante i deficit descrittivi da cui sarebbero affette le predette ordinanze, relativamente alla rilevanza della questione, specie circa l'apertura o meno del dibattimento e la volontà di adire alla messa alla prova espressa dall'imputato successivamente a tale momento; tutto ciò in diretta correlazione con l'interesse ad eccepire la nullità del decreto di citazione a giudizio da parte dello stesso.

Invero, l'orientamento della Corte, non lascia intravedere all'orizzonte una dichiarazione di incostituzionalità manipolativa della norma in questione, in quanto, nelle motivazioni, si afferma che: «[…] ai sensi dell'art. 182, comma 1, cod. proc. pen., la nullità del decreto di citazione a giudizio non può essere eccepita da chi non ha interesse all'osservanza della disposizione violata»; per cui «[…] solo l'imputato nei cui confronti si sia verificata la preclusione conseguente all'apertura del dibattimento, e che abbia l'intenzione di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, può aver interesse alla declaratoria di nullità del decreto di citazione a giudizio che non contenga l'avvertimento relativo a tale facoltà […]».

Come in passato, quindi, la Corte – tra l'altro brandendo, in modo un poco cavilloso e formalistico, l'argomento dell'interesse a ricorrere ex art. 182, comma 1, c.p.p., come se l'ortodossia costituzionale non fosse, già di per sé, un interesse sufficiente – inclina il piano analitico verso la valutazione della concreta possibilità dell'esercizio del diritto di chiedere la messa alla prova, implicitamente relegando la problematica del diritto ad esserne compiutamente informati, alla funzione informativa surrogatoria del difensore, senza particolare sensibilità per gli aspetti sperequativi rispetto agli altri riti alternativi ed ai potenziali candidati a ricorrervi.

L'affermazione della Corte, tuttavia, non appare convincente sul piano sostanziale e sistemico, perché, intanto – senza pretendere di dare lezioni alla Consulta, giacché non può essere la coda a dimenare il cane –, occorre pur dire che risulta eccessivamente fiscale l'utilizzo che viene fatto dell'art. 182, comma 1, c.p.p., ossia dell'interesse a ricorrere, giacché, il fatto stesso che il giudice a quo abbia sollevato la questione di costituzionalità, già ci dice che ha valutato sussistente l'interesse a ricorrere, altrimenti avrebbe, sol per questo, rigettato l'eccezione, con un giudizio di sua stretta pertinenza che non pare approfondibile o sindacabile più di tanto dalla Corte costituzionale, cosicché sembra non poco specioso utilizzare tale argomento per assumere una carente allegazione al fine di affermare il deficit di rilevanza e dichiarare la conseguente inammissibilità.

Inoltre, ritenere, implicitamente, passibile di nullità il decreto di citazione a giudizio mancate dell'avviso della messa alla prova, unicamente nel caso in cui l'imputato si presenti al processo solo dopo l'apertura del dibattimento e, brandendo l'atto monco, chieda il rito alternativo, magari invocando il fatto di non aver potuto previamente conferire con il difensore, non solo è praticamente un caso di scuola, ma è pure come mettere il carro davanti ai buoi, perché la questione “rilevante”, non è sapere se l'imputato intenda adire al rito alternativo, ma stabilire se debba o meno esserne preventivamente e debitamente informato, tenendo anche conto che la stessa Corte Costituzionale, in passato, ebbe a qualificare come indefettibili diritti difensivi, sia la possibilità di adire ai riti alternativi (Corte Cost. n. 148/2004 e Corte Cost. n. 237/2012) sia il fatto di esserne compiutamente informati (Corte Cost. n. 497/1995).

In pratica, sembra che la Corte Costituzionale voglia prendere tempo, spostando il focus dell'attenzione dal diritto difensivo dell'imputato d essere informato dell'accessibilità al rito alternativo, al concreto esercizio del diritto stesso, per poi dire che la rilevanza della questione non è stata sufficientemente acclarata dal giudice remittente, non avendo egli indicato se l'imputato chiese di adire al rito dopo l'apertura del dibattimento, con ciò, e con ciò solo, essendo portatore di un interesse ad eccepire la nullità del decreto di citazione a giudizio per l'omesso avviso.

In realtà, ove si privilegi la sostanza sulla forma, la rilevanza della questione appare sufficientemente esplicitata, giacché, essendo stata eccepita la nullità del decreto di citazione a giudizio mancante dell'avviso della messa alla prova, il giudice, per poter decidere nel merito specifico, deve sapere se l'art. 552, comma 1, lett. f), c.p.p., che tale obbligo informativo non commina, va bene così o deve considerarsi incostituzionale, perché, nel primo caso, dovrà rigettare l'eccezione, mentre, nel secondo e previa sentenza manipolativa di accoglimento della Corte, dovrà dichiarare nullo il decreto di citazione a giudizio e restituire gli atti all'Ufficio del P.M.

In conclusione

In sede di commento, poi, non può non notarsi come quasi tutto il predetto apparato giurisprudenziale affronti il problema essenzialmente in relazione all'eventuale violazione dell'art. 24 Cost., ossia il diritto di difesa, mentre vengano sostanzialmente trascurati sia l'art. 3 Cost., ovvero il principio di uguaglianza, sia l'art. 111 Cost., ossia i cardini strutturali del giusto processo.

Cionondimeno, a chi scrive, appare evidente che l'attuale contenuto dell'art. 552, comma 1, lett. f), c.p.p., violi patentemente il principio di uguaglianza, sia sul piano della discriminazione tra quanti possono e vogliono adire a un rito alternativo per il quale l'avviso è previsto e quanti possono e vogliono adire alla messa alla prova; sia sotto il profilo dell'eguale trattamento dei diseguali, in quanto nega l'avviso a tutti, ossia a quanti non possono beneficiare della messa alla prova, come a quelli che presentano i requisiti di ammissione.

Invero, però, non convince nemmeno il criterio utilizzato per escludere la violazione dell'art. 24 Cost., sostanzialmente fondato sulla maggiore probabilità che l'informazione sia data dal difensore, giacché esso sembra dimentico del fatto che la scelta di un rito alternativo deve essere fatta personalmente dall'imputato o da un suo procuratore speciale, di talché si configura come un atto personalissimo in un rapporto diretto tra istituzione processuale e cittadino, cosicché l'intermediazione professionale della difesa tecnica, non elimina la necessità dell'avviso pubblico finalizzato a fornire all'imputato la conoscenza di base necessaria per l'istaurazione di un corretto rapporto giuridico-processuale, quindi la possibilità che l'informazione sia fornita anche dal difensore, non sostituisce la necessità degli opportuni avvisi istituzionali, in quanto, se è compito del difensore vigilare sul rispetto dei diritti, è missione dello Stato garantirli.

Infine, non è certo stravagante ipotizzare pure la violazione dell'art. 111 Cost., giacché esso mira a garantire una tempestiva e compiuta informazione, sia sull'addebito sia sulle modalità e condizioni per svolgere un'adeguata difesa.

Consegue da ciò che la tesi della Cass. pen., Sez. II, n. 3864/2017, e di chi la segua, della legittimità costituzionale del mancato avviso nel decreto di citazione a giudizio, non solo patentemente non risolve la questione della violazione dell'art. 3 Cost., ma, a ben vedere, neppure quella della violazione degli artt. 24, comma 2, e 111 Cost., giacché, sebbene nel rito ordinario si abbia più tempo per esercitare il diritto (ossia entro la dichiarazione di apertura del dibattimento), sussiste pur sempre un punto di decadenza e, comunque, per esercitare un diritto occorre sapere di poterlo fare, mentre, all'oggi, non vi è nessuna norma che obblighi nessuno a dare tale avvertimento all'imputato in fase di giudizio, neppure l'art. 552, comma 1, lett. f), c.p.p., pur essendo il decreto di citazione a giudizio il contesto più appropriato per farlo.

Tali argomenti valgono ancor più allorquando si tratti di una difesa d'ufficio in cui non vi sia stato alcun contatto tra difeso e difensore, giacché il concorso della mancata informazione istituzionale e di quella tecnica difensiva, impediscono, a fortiori ratione, il concreto e specifico esercizio del diritto di adire alla messa alla prova.

Da ultimo, non appare invocabile neppure l'argomento che l'avvertimento può essere, e spesso è, inserito nell'avviso di fine indagini, giacché tale eventualità – non solo continua a non risolve la sperequazione rispetto agli altri riti alternativi, in costanza della sua mancanza nel decreto di citazione a giudizio, confermando, quindi, la violazione dell'art. 3 Cost. –, ma, essendo dato in altra fase procedimentale e all'indagato anziché all'imputato, non risulta idoneo a fornirgli una chiara e precisa informazione dell'esercitabilità del diritto nella sede più propriamente processuale ed entro un preciso momento di decadenza, ossia la dichiarazione di apertura del dibattimento; anche perché, l'avvertimento in detta forma, appare meramente attuativo del precetto contenuto nel nuovo art. 141-bis n.a. c.p.p. (Avviso del pubblico ministero per la richiesta di ammissione alla messa alla prova) e, dunque, puramente funzionale all'eventuale attivazione della possibilità prevista dall'art. 464-ter c.p.p. (Richiesta di sospensione con messa alla prova nel corso delle indagini preliminari), con il che, quindi, si confermano anche le possibili violazioni degli artt. 24, comma 2, e 111 Cost.

In definitiva, occorre prendere atto che la questione resta aperta e irrisolta, giacché la posizione della giurisprudenza di legittimità e costituzionale lasciano, al momento, sopravvivere intonsa nell'ordinamento una norma che, così com'è, risulta fortemente sospetta d'incostituzionalità e non solo circa l'aspetto sperequativo.

In particolar modo, la posizione assunta dalla Corte costituzionale, che può anche apparire formalmente corretta, è del tutto insoddisfacente, perché lascia aperto il problema sostanziale e perché, quando forma e sostanza episodicamente divergono, scegliere la forma vuol dire tradire la sostanza.

Ora, all'atto pratico, la cosa, viene spesso regolata dalla prassi, che molte Procure adottano, di mettere motu proprio l'avviso della messa alla prova nel decreto di citazione a giudizio, ma la questione non può dirsi, con ciò, risolta, perché il problema rimane a livello ordinamentale e sistemico.

Vien da chiedersi, quindi, come dovranno regolarsi i giudici, allorquando non venga inserito l'avviso nel decreto di citazione a giudizio e venga proposta l'eccezione prima dell'apertura del dibattimento dall'imputato presente.

A tenore delle decisioni, fin qui, assunte dalla Corte Costituzionale, pare proprio che i Giudici dovranno respingere l'eccezione per carenza d'interesse e ammettere l'imputato alla messa alla prova, salvo, eventualmente, concedergli termine per gli adempimenti necessari; di contro – nel caso, poco probabile, che il dibattimento sia già stato aperto e l'imputato, solo in seguito presente, chieda ugualmente l'ammissione, lamentando l'omesso avviso – sollevare la questione di costituzionalità dell'art. 552, lett. f), c.p.p., illustrando minuziosamente la situazione e sperando che, alfine, la Consulta decida di decidere se la norma è pienamente compatibile con i principî costituzionali ovvero, in caso contrario, provveda a porre in essere l'opportuna manipolazione della stessa.

Si rischia, quindi, il circolo vizioso, da cui, probabilmente si potrà uscire solo nel caso in cui la questione sia eccepita dal difensore d'ufficio di un imputato assente, benché ritualmente ed effettivamente notiziato; anche facendo leva sulla distinzione tra difesa fiduciaria e difesa officiosa, recentemente ben delineata dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di notificazioni (Cass. pen., Sez. VI, n. 8048/19).

Guida all'approfondimento

G. BERGAMASCHI, Il mancato avviso della messa alla prova nel decreto di citazione diretta a giudizio, fra nullità, incostituzionalità e piena legittimità, in Cronache dal foro parmense, n. 1 febbraio 2018.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario