Sulla natura “mista” della querela e conseguente applicazione del principio del favor rei

Michele Sbezzi
26 Giugno 2019

La Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 21700/2019 ha affermato che la querela è istituto di natura mista, processuale e sostanziale. La modifica del suo regime ha quindi effetto retroattivo ove sia migliorativa della posizione dell'imputato; e solo entro limiti di un procedimento ancora pendente. Non, quindi, in caso di ricorso inammissibile che, in quanto tale, non è idoneo a mantenere vivo il rapporto processuale.
Massima

La Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 21700/2019 ha affermato che la querela è istituto di natura mista, processuale e sostanziale. La modifica del suo regime ha quindi effetto retroattivo ove sia migliorativa della posizione dell'imputato; e solo entro limiti di un procedimento ancora pendente. Non, quindi, in caso di ricorso inammissibile che, in quanto tale, non è idoneo a mantenere vivo il rapporto processuale.

Il caso

La Corte di Appello di Milano ha confermato, nonostante la remissione della querela, una condanna per il reato di appropriazione indebita continuata, aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11 codice penale perché commessa su somme di pertinenza del datore di lavoro dell'imputato, respingendo l'impugnazione della sentenza di primo grado. L'imputato ha quindi proposto ricorso alla Corte di Cassazione, eccependo – tra l'altro - l'applicabilità retroattiva del d.lgs. 36/2018, di modifica del regime di procedibilità del reato in parola, che era perseguibile d'ufficio al tempo del fatto ma solo a querela al momento della proposizione del ricorso.

Va sottolineato che, nel caso in questione, la parte offesa, risarcita, aveva rimesso la querela in corso di trattazione del procedimento e che quella di cui all'art. 61 n. 11 codice penale, come notorio, è aggravante comune, che in quanto tale comporta un aumento di pena fino a un terzo.

La Suprema Corte, con sentenza molto snella e di agevole lettura, entra nel non semplice argomento della successione delle leggi penali nel tempo.

Le modifiche introdotte dalla l. 36/2018

Va rilevato come la recente novella legislativa, di modifica della procedibilità dell'azione penale nel caso di alcuni reati contro il patrimonio tra cui l'appropriazione indebita, è contenuta nel d.lgs. 36/2018 del 10 aprile 2018, nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2018.

La Corte di Appello di Milano si era trovata a giudicare della vicenda in commento circa due mesi prima della pubblicazione della novella legislativa in Gazzetta, senza quindi poter tener presente una norma che, seppur annunciata, non era ancora venuta a esistenza.

Oggi va detto che la riforma è espressa e assolutamente chiara, per come emerge – per quel che qui ci riguarda – dal testo degli articoli 10, 11 e 12 d.lgs. 36/2018

Con l'art. 10, il Legislatore ha espressamente abrogato il terzo comma dell'art. 646 codice penale, che prevedeva per il reato in esame l'unico caso di procedibilità d'ufficio quando ricorresse l'aggravante dell'abuso di autorità, di relazioni d'ufficio o di prestazione d'opera. L'azione penale per un'appropriazione indebita, quindi, sembra ormai procedibile solo a querela.

All'art. 11 del medesimo decreto, però, il Legislatore ha invece aggiunto al codice penale il nuovo articolo 649-bis, titolato Casi di procedibilità d'ufficio”, che sancisce, per quel che riguarda la presente trattazione, «[…] per i fatti di cui all'articolo 646, secondo comma, o aggravati dalle circostanze di cui all'articolo 61, primo comma, numero 11, si procede d'ufficio qualora ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale».

Non sarà inutile ricordare che le circostanze a effetto speciale sono quelle che dispongono aumenti o diminuzioni di pena diversi dal canonico terzo, ovvero dispongono per il caso aggravato pene di specie diversa. Non sarà, dunque, l'aggravante comune a imporre una procedibilità d'ufficio; bensì, ed in via esclusiva, un'eventuale aggravante speciale. Che, nel caso in trattazione, comunque difettava.

L'art. 12 d.lgs. 36/2018, infine, introduce una disposizione transitoria, per effetto della quale «Per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l'esercizio dell'azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata».

Il Legislatore, quindi, ha concesso alle parti offese il potere di far proseguire l'azione penale anche nel caso in cui una querela non fosse stata proposta, nel convincimento che l'azione, procedibile d'ufficio, sarebbe stata comunque esercitata.

Sembra evidente che anche l'art. 12 della novella confermi, e perfino sottolinei, che la tendenza attuale sia quella che porterà la procedibilità d'ufficio a essere ipotesi eventuale ed estrema, riservata a reati circostanziati da una particolare connotazione di gravità.

Il tutto nell'ambito di un comprensibile intento deflattivo, salvifico di una Giustizia da troppo tempo al collasso, per il cui migliore (o, almeno, minimo) funzionamento si stima sia opportuno svuotare, per quanto possibile, le aule dai processi penali in materia di diritti disponibili, che non coinvolgono direttamente l'interesse dello Stato.

Dal testo si evince chiaramente che la novella si applica, almeno nei limiti di quanto espressamente previsto, anche ai processi in corso, evidentemente relativi a fatti commessi prima della riforma. E ciò per espressa previsione di legge, come sottolineato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, secondo il noto brocardo ubi lex voluit, dixit.

Proprio alla luce di tale brocardo, e della normativa complessivamente afferente al caso, diventa necessario trattare la questione da altro punto di vista.

Sappiamo, infatti, dalla nuova legge quel che accade nel caso la querela non sia stata mai proposta, ma divenga immancabile condizione di procedibilità solo a processo in corso. Non del tutto agevole è invece la soluzione corretta per il caso parzialmente diverso del procedimento per appropriazione indebita in cui una querela sia stata tempestivamente proposta, sia stata poi rimessa e divenga da ultimo indispensabile per la procedibilità.

Che fare in tal caso, posto che la norma transitoria sopra ricordata non sembra supportare una improcedibilità retroattiva per sopraggiunto difetto di querela?

La successione delle leggi penali nel tempo

Seppure il principio di legalità obblighi a tenere in considerazione quello della riserva di legge e di sua determinatezza, che attengono alla fonte da cui la legge promana e, quindi, alla qualità degli organi legittimati ad emanare norme penali, è fondamentale considerare principio primo quello dell'irretroattività della legge penale incriminatrice. In virtù di tale fondamento primo, non si può esser puniti per fatti che, al momento della loro commissione, non erano espressamente qualificati come reati. Anche in questo caso, un brocardo latino descrive sinteticamente la questione: nullum crimen, nulla poena, sine lege. Naturalmente, e proprio a voler essere pignoli, va sottolineato che l'ultima parte va letta come fosse sine previa lege.

Il principio in argomento si basa, naturalmente, su espresse e mai contestate fondamenta giuridiche.

Innanzitutto, l'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, che sancisce la legge non dispone che per l'avvenire. È, questo, un principio generale del diritto e dell'intero ordinamento giuridico, nel rispetto del quale l'efficacia della legge, ordinariamente, non è retroattiva.

Va detto che si tratta di un principio espresso da legge ordinaria, derogabile dal Legislatore e, comunque, non specificamente previsto per la normativa penale.

Il principio, però, trova ingresso anche in quanto di rilevanza penale perché assurto a dignità costituzionale: non può infatti dimenticarsi che l'art. 25 della Costituzione, dispone che Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

E, infine, l'art. 2 del codice penale dispone, notoriamente, che Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Quest'ultima norma, in uno alla fondamentale considerazione di una cultura giuridica che si basa anche sugli altri, amplificandone il significato, viene in soccorso per risolvere il problema affrontato dalla Suprema Corte nel caso in esame.

Non le disposizioni transitorie recate dalla novella, che non riguardano il caso specifico.

L'art. 2 del Codice Penale, infatti, non comporta solo la irretroattività della legge penale, bensì – e direi soprattutto, per quel che ci interessa – la retroattività della norma, seppur penale, più favorevole al reo. E' la cosiddetta lex mitior, che dovrà applicarsi secondo valutazione concreta: è da ritenersi più favorevole la legge che, nel complesso, comporti un risultato meno rigoroso per una specifica condotta, posta in essere da uno specifico soggetto, imputato di quello specifico reato in quel determinato e specifico procedimento penale.

Secondo la Corte Costituzionale, (sentenza 236 del 19 luglio 2011), vanno ricomprese tra le disposizioni più favorevoli al reo «[…] le norme che apportino modifiche migliorative per quest'ultimo» Dunque,tutte le modifiche che migliorino la disciplina di una fattispecie criminosa, comprese quelle sulla prescrizione del reato, che ha natura sostanziale anche per la collocazione sistematica della relativa normativa; ma, anche, perché influisce sulla punibilità e non semplicemente sull'azione penale.

In ciò non può non riconoscersi una sostanziale deroga al principio – come detto, derogabile – sancito dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile.

In aderenza al disposto del richiamato art. 2 c.p., quando venga abrogata una norma incriminatrice sotto la cui vigenza era stato commesso il fatto, l'autore non subirà condanna. E addirittura, nel caso quest'ultima sia già intervenuta, ne cesseranno tanto l'esecuzione quanto gli altri effetti penali. Si potrà discutere se, nel caso in questione, si tratti di retroattività o di non ultrattività.

Ma il principio fondamentale di cui sopra risulta comunque derogato, in ambito penale, in applicazione dell'indiscutibile favor rei che ispira la specifica legislazione penale.

Ancora in virtù del richiamato art. 2, in caso di modificazione di una legge penale, la nuova norma si applicherà retroattivamente a regolare la vicenda sorta a seguito di una condotta precedente; a patto, però, che la nuova regolamentazione sia più favorevole. In caso contrario, la vecchia e più favorevole norma avrà una ultrattività per essere applicata oltre il suo periodo di vigenza.

Si tratta, com'è noto, dei principii della successione della legge penale nel tempo, che – a mente di più pronunce della Corte Costituzionale –, non sono assurti per intero alla dignità dei principii costituzionali.

Solo il principio di irretroattività della legge penale incriminatrice è dalla Corte riconosciuto principio di valenza costituzionale; non anche quello della retroattività della legge più favorevole al reo, espresso infatti da legge ordinaria nel codice penale.

Potrebbe probabilmente pervenirsi al fondamento di una “costituzionalità” del principio in parola argomentando sull'esigenza di non differenziare il trattamento di chi ha commesso il fatto nello stesso periodo in cui altri vengono giudicati per un fatto identico ma commesso prima.

Tutto ciò, oltre a essere del tutto estraneo alla presente trattazione, attiene con evidenza solo alla possibilità che il Legislatore ordinario ritenga, in casi probabilmente estremi e perciò imprevedibili, di regolare diversamente la materia in caso di abolitio criminis, stabilendo ad esempio che un determinato reato non venga più punito da un certo momento in poi ma, al contempo, che prosegua il processo o il trattamento sanzionatorio in corso per fatti commessi in precedenza.

Alla luce del grado di civiltà e di coscienza giuridica raggiunte tanto dalla Magistratura quanto dalla Classe Forense, sembra si possa dire che un caso del genere – in astratto sempre possibile per la mutevolezza e la non sempre adeguata preparazione delle classi dirigenti – porterebbe alla ricerca di soluzioni giudiziarie ed interpretative evolutive e costituzionalmente orientate, di fatto abrogatrici di una norma che apparirebbe francamente mostruosa.

L'analisi della Suprema Corte e la precisazione sulla natura mista della querela

La Cassazione approfitta del caso posto alla sua autorevole attenzione, che risolve con un annullamento senza rinvio per estinzione del reato, per sottolineare, come già avevano fatto le Sezioni Unite Penali con decisione 21 giugno 2018, che il caso del mutamento del regime di procedibilità di certi reati investe il disposto dell'art. 2 del codice sostanziale. E che il problema va risolto nella piena considerazione della natura mista, sostanziale e processuale, dell'istituto della querela. Che dunque non è solo sostanziale e non è solo processuale.

Essa è, infatti e certamente, condizione di procedibilità; e, se qui ci fermassimo, dovrebbe applicarsi il noto principio tempus regit actum, per il quale la norma si applica dal momento della sua entrata in vigore.

Alla natura processuale della querela si aggiunge una natura almeno parzialmente sostanziale, perché essa entra doverosamente tra gli elementi da considerare per la determinazione del se e del come applicare il precetto penale. Influisce dunque tanto sulla vicenda processuale, determinandola o facendola interrompere, quanto sulla punibilità, come si è detto sopra per la prescrizione. La sua parziale natura sostanziale rende possibile l'applicazione retroattiva di norme che ne modifichino il regime.

Sul punto, come si legge in sentenza, erano autorevolmente intervenute le Sezioni Unite Penali, (sentenza 40150 del 21 giugno 2018) per giudicare il caso di un imputato condannato per appropriazione indebita nelle more divenuta procedibile a querela; a complicare quella vicenda, la procedura era viziata per l'inammissibilità del ricorso alla Corte. Per giurisprudenza ormai costante, l'inammissibilità del ricorso alla Suprema Corte impedisce una corretta instaurazione del rapporto processuale e rende quindi il giudizio di legittimità insensibile a eventi successivi alla sentenza impugnata, come la maturazione del termine di prescrizione. A tal situazione viene dichiarato equiparabile anche il nuovo diritto a proporre una querela “ritardata”, che non influisce e non può influire – secondo i supremi giudici – su un rapporto processuale che non è stato fatto correttamente sopravvivere alla sentenza di merito. Diverso, per quei Giudici, è invece il caso della remissione della querela che, per la sua specificità discendente dal testo dell'art. 152,comma 3. codice penale, («[…] prima della condanna, salvi i casi per i quali la legge disponga altrimenti».), si applica dopo la condanna, apparentemente coperta da una definitività da inammissibilità del ricorso, perché ritenuto tale da superare perfino la detta e seppur palese inammissibilità.

Nel caso vagliato dalle Sezioni Unite, il ricorso venne dichiarato inammissibile perché avente ad oggetto materia che non può far oggetto di ricorso.

In quel caso, è dunque derivata la necessità di statuire se la disciplina transitoria di cui alla novella oggi in argomento, applicabile retroattivamente per espressa previsione di legge, debba applicarsi anche nel caso di ricorso inammissibile alla Suprema Corte.

In sentenza, le Sezioni Unite ci spiegano come la giurisprudenza sia ormai da tempo giunta a considerare che la querela presenta anche aspetti sostanziali, in virtù dei quali la sopravvenuta necessità della sua proposizione, per effetto della successione delle leggi penali nel tempo ed in assenza di una norma transitoria, non va risolta secondo il noto principio tempus regit actum, né alla luce di una sua eventuale configurabilità come elemento essenziale del reato, la cui mancanza impedirebbe di considerar reato il fatto dedotto.

La querela, invece, secondo le Sezioni Unite, nonostante una collocazione sistematica nel codice di rito che non sembra lasciar spazio a dubbi, è anche da riconoscere come indubbiamente influente anche sulla concreta punibilità dei fatti di reato. Essa, dunque, entra nella determinazione dell'an e del quomodo di applicazione del precetto penale, e deve quindi essere oggetto di attenta considerazione nel caso la legge del tempo in cui fu commesso il reato sia diversa da quella del tempo in cui il reato viene giudicato. Per cui, in mancanza di quella espressa previsione transitoria che la legge in esame non reca, il Giudice deve applicare retroattivamente le modifiche alla procedibilità all'azione penale solo se esse siano migliorative della posizione dell'imputato.

Le modifiche di cui si deve tener conto, anche nel giudizio sulla procedibilità dell'azione penale, secondo quanto più sopra sostenuto, sono quindi solo quelle migliorative della posizione dell'imputato, che in quanto tali devono applicarsi retroattivamente.

Nel caso da loro giudicato, le Sezioni Unite Penali, sottolineato che è onere esclusivo del ricorrente proporre un ricorso che comporti corretta e tempestiva instaurazione di valido rapporto processuale, il caso della sopravvenuta necessità di una querela non può parificarsi all'eventualità di una abolitio criminis, che invece è tale da giustificare addirittura la procedura di revoca perfino nel caso di sentenza passata in cosa giudicata.

In conclusione

A differenza di quanto accaduto nel caso posto all'attenzione delle Sezioni Unite, il caso giudicato con la sentenza in commento è stato correttamente e tempestivamente portato alla cognizione della Suprema Corte. Tanto che il ricorso è stato affrontato, discusso e poi accolto.

Il rapporto processuale, dunque, non è cessato con la sentenza di merito della Corte di Appello di Milano, ed è anzi sopravvissuto con la corretta instaurazione del giudizio di legittimità.

La Suprema Corte ha quindi potuto pervenire alla decisione, che come detto è stata quella di annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per la estinzione del reato conseguente a remissione della querela. Nel caso in questione, come detto, era contestata un'unica aggravante comune e non anche un'aggravante a effetto speciale, che invece – in virtù della stessa novella legislativa - avrebbe reso ininfluente la remissione della querela.

Nel testo della sentenza, la Suprema Corte ha sottolineato che la querela si contraddistingue per una natura mista, processuale e sostanziale, che rende applicabile retroattivamente una modifica del suo regime ex art. 2 codice penale.

Nel caso in commento, quindi, la soluzione adottata è stata quella di ritenere che la modifica, apportata dal Legislatore con il d.lgs. 36/2018 al regime di procedibilità dell'azione penale in caso di appropriazione indebita, abbia comportato un miglioramento alla situazione dell'imputato e sia quindi da applicarsi retroattivamente alla sua posizione, così come disposto dall'ultimo comma dell'art. 2 del codice penale.

E ciò solo perché la novella legislativa aveva trovato, al momento della sua entrata in vigore, un rapporto processuale ancora validamente pendente. Essa non sarebbe stata applicabile, invece, a una decisione ormai definitiva.

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