Omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo sul contenuto della gestione sociale

Ciro Santoriello
05 Luglio 2019

I componenti del collegio sindacale concorrono nel delitto di bancarotta commesso dall'amministratore della società anche per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dagli artt. 2403 cod.civ. e ss., che non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale.
Massima

I componenti del collegio sindacale concorrono nel delitto di bancarotta commesso dall'amministratore della società anche per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dagli artt. 2403 cod.civ. e ss., che non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale

Il caso

In sede di appello, confermandosi la decisione di primo grado, veniva disposta la condanna del presidente del collegio sindacale di una società fallita, ritenuto colpevole, in concorso con gli amministratori della detta compagine e con altri membri del collegio sindacale, di diversi episodi di bancarotta, concretatesi in fatti di distrazione patrimoniale, nella partecipazione a pagamenti preferenziali ed infine di aver cagionato il fallimento della medesima società per effetto di operazioni dolose, consistite nella sistematica omissione del versamento delle ritenute operate sui redditi da lavoro dipendente ed autonomo, così dando luogo ad un debito nei confronti dell'Erario pari ad oltre Euro 3.000.000,00.

La difesa, in sede di ricorso per cassazione, lamentava che la Corte territoriale avesse fondato la responsabilità dell'imputato da omesso controllo sulla sistematica inadempienza degli obblighi di versamento delle ritenute fiscali sulle retribuzioni dei dipendenti e dei collaboratori sulla base della circostanza che questi avesse fatto affidamento sull'esistenza di crediti fiscali, i quali di contro non erano in alcun modo suscettibili di compensare l'entità dei debiti verso l'Erario in ragione del loro ammontare, anche in ragione del fatto che quei crediti erano il frutto di una rappresentazione fallace in bilancio. Tuttavia, al componente del collegio sindacale non era stata mossa accusa con riferimento a tale delitto ed anzi era stato ignorato il contenuto dei reiterati rilievi formulati dall'organo nei confronti dell'organo di gestione della società fallita in ordine all'inadempimento del debito erariale, cui, peraltro, non si era fatto fronte per mancanza di liquidità.

La questione

no dei temi più delicati del diritto penale commerciale attiene all'individuazione dei presupposti della responsabilità penale dei cosiddetti amministratori non esecutivi o privi di deleghe. Come è noto, nell'attuale assetto organizzativo delle società commerciali, specie quelle di dimensioni non particolarmente modeste, è assolutamente frequente che nei consigli di amministrazione, accanto a soggetti che assumono in prima persona il ruolo di gestori dell'azienda – di cui definiscono le scelte imprenditoriali, governano la liquidità, scelgono la governance ecc. -, siedano figure prive di tale connotazione squisitamente operativa e che hanno invece un ruolo di controllo – si pensi, ad esempio, ai consiglieri eletti dalle minoranze azionarie – o che sono portatori di particolari competenze ma che sono al contempo privi di qualsiasi potere decisionale autonomo.

Chiaramente, con riferimento alla prima categoria di soggetti, non vi è alcun problema in ordine al riconoscimento di una loro responsabilità penale per illeciti commessi nell'ambito della gestione della persona giuridica. Diversa parrebbe invece essere la posizione dei componenti del board societario che non assumano, all'interno di tale organo, una tale posizione di supremazia o che comunque non realizzino personalmente l'attività criminosa che viene contestata ad altri componenti del consiglio di amministrazione: si pensi al componente del C.d.A. che approvi il bilancio mendace o non si opponga all'operazione di compravendita pregiudizievole per il patrimonio della società: in entrambi i casi, la falsità del bilancio non discende in via immediata dalla condotta dell'amministratore non esecutivo – il quale recepisce dati contabili mendaci comunicati da altri componenti del consiglio di amministrazione -, così come l'operazione negoziale è orchestrata da altri ed alla stessa il soggetto della cui posizione stiamo parlando presta solo mera adesione.

Il tema che si pone è dunque quello di comprendere a quali condizioni ed in presenza di quali circostanze sia possibile affermare la responsabilità penale dei soggetti in parola – nonché di altri soggetti, si pensi in specie ad i sindaci, i quali non hanno poteri decisionali e di diretta gestione dell'attività della persona giuridica, ma hanno un dovere di controllo sull'altrui comportamento ed un conseguente obbligo di intervento laddove sia necessario impedire che vengano realizzati illeciti da parte dei componenti del consiglio di amministrazione.

In proposito, per lungo tempo al quesito la giurisprudenza ha fornito una risposta netta e decisamente severa: il componente del consiglio di amministrazione riveste sempre una posizione di garanzia rispetto alle condotte delittuose poste in essere da altri amministratori rispetto alle quali ha un obbligo di impedimento la cui inosservanza determina la responsabilità per i reati di cui agli artt. 2621 ss. cod. civ. (ex multis, Cass., sez. V, 22 settembre 2009, Bossio; Cass., sez. V, 27 aprile 1992, Bertolotti). In particolare, in relazione alla posizione di questi soggetti – componenti del collegio sindacale e amministratori non esecutivi - la Cassazione ha trasformato l'obbligo di intervento – ovvero, ex art. 40 c.p., l'obbligo di impedire l'evento – in obbligo di informarsi su quanto si sta verificando in azienda onde essere in grado di intervenire e porre termine alle altrui condotte criminose; da qui la conclusione secondo cui “il componente del consiglio di amministrazione risponde del concorso nel reato societario per mancato impedimento del reato anche quando egli sia consapevolmente venuto meno al dovere di acquisire tutte le informazioni necessarie all'espletamento del suo mandato” (Cass., sez. V, 29 marzo 2012, Baraldi). La chiave di volta di siffatto indirizzo – in relazione all'elementare esigenza di riscontrare in capo agli amministratori “non operativi” ed ai sindaci, oltre al contributo causale negativo alla realizzazione del fatto rappresentato dalla mancata opposizione alla condotta delittuosa di terzi, anche una qualche forma di partecipazione psicologica alla vicenda – è chiaramente rappresentata dal richiamo al dolo eventuale, nel senso che “l'inerzia antidoverosa nello svolgimento dei compiti di vigilanza e di controllo, in presenza di determinati ‘segnali di pericolo', equivarrebbe, di vero, a consapevole accettazione del rischio della verificazione degli eventi delittuosi poi di fatto occorsi” (Cass., sez. V, 21 novembre 1989, Piras. Nello stesso senso, Cass., sez. V, 26 giugno 1990, Bordoni; Cass., sez. V, 28 febbraio 1991, Cultrera).

Questo orientamento – da sempre contestato in dottrina (per le posizioni più recenti IADECOLA, Il problema del rapporto fra responsabilità civile e responsabilità penale degli amministratori e dei sindaci, in Giust. Pen., 1995, II, 236; CRESPI, La giustizia penale nei confronti degli organi collegiali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1999, 1149; PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Milano 2003; ALESSANDRI, Corporate governance nelle società quotate: riflessi penalistici e nuovi reati societari, in Giur. Comm., 2002, 80; CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Milano 2009, 317; NAPOLEONI, I reati societari. III. Falsità nelle comunicazioni sociali ed aggiotaggio societario, Milano 1996, 400) – è stato tuttavia di recente superato da alcune decisioni in cui si legge espressamente che “ai fini della responsabilità penale dell'amministratore privo di delega per fatti di bancarotta fraudolenta, non è sufficiente la oggettiva presenza di dati (i cosiddetti "segnali d'allarme") da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o almeno il rischio della verifica di detto evento, ma è necessario che egli ne sia concretamente venuto a conoscenza ed abbia volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo” (Cass., sez. V, 4 aprile 2016, n. 13399. Nello stesso senso, di recente, Cass., sez. V, 14 aprile 2016, n. 15639). Secondo la Corte di legittimità, dunque, “il rilievo dell'esistenza di segnali noti non può non essere accompagnato dall'accertamento dell'elaborazione che degli stessi è stata fatta: quei segnali possono essere stati sottovalutati, malamente interpretati [e] ciò indirizza verso un comportamento colposo, non certo doloso, [essendo necessaria] la prova di una corretta elaborazione dei segnali … [in considerazione] delle capacità intellettive del soggetto, dell'evidenza e significatività dei segnali medesimi” (Cass., sez. IV, 5 settembre 2012).

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, nel respingere il ricorso, procede ad un completo inquadramento del problema della responsabilità dei componenti del collegio sindacale di una società di capitali per i fatti di distrazione di beni sociali commessi dagli amministratori, pervenendo a conclusioni sostanzialmente analoghe rispetto a quelle fatte proprie dalle ultime decisioni della giurisprudenza.

Il principio da cui parte la riflessione in esame è quello secondo cui i componenti del collegio sindacale concorrono nel delitto di bancarotta commesso dall'amministratore della società anche per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dagli artt. 2403 cod.civ. e ss., che non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale (affermazione già presente in altre decisioni: Cass., sez. V, 14 gennaio 2016, n. 18985; Cass., sez. V, 22 marzo 2016, n. 14045). Ciò significa, anche in questo caso ribadendosi l'approdo ermeneutico precedente, che la responsabilità di tali soggetti è ravvisabile a titolo di concorso omissivo secondo il disposto di cui all'art. 40, comma 2, c.p., cioè sotto il profilo della violazione del dovere giuridico di controllo che inerisce alla loro funzione, sub specie dell'equivalenza giuridica, sul piano della causalità, tra il non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire ed il cagionarlo.

Ciò posto, la Cassazione cerca di definire quali siano i confini ed i limiti di tale dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci delle società per azioni. In proposito, si afferma che lo stesso, ex art. 2403 cod. civ., non è circoscritto all'operato degli amministratori, ma si estende a tutta l'attività sociale, con funzione di tutela non solo dell'interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali, e ricomprende, pertanto, anche l'obbligo di segnalare tutte le situazioni che mettano a repentaglio la prosecuzione dell'attività di impresa e l'assicurazione della garanzia dei creditori in relazione alle obbligazioni contratte con l'ente. Per ottemperare a tale obbligo, il sindaco, non a caso, è titolare di una serie di poteri: può, infatti, procedere, in ogni momento, ad "atti di ispezione e controllo", chiedere informazioni agli amministratori su ogni aspetto dell'attività sociale o su determinati affari (art. 2403-bis cod. civ.), convocare l'assemblea societaria quando ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità (art. 2406 cod. civ.) e, all'occorrenza, denunziare al Tribunale le gravi irregolarità commesse dall'amministratore, per consentire all'Autorità giudiziaria di intraprendere le iniziative di sua competenza (art. 2409, comma 7, cod. civ.) (Cass., sez. V, 11 maggio 2018, n. 44107). Ciò consente di concludere nel senso che il controllo cui i sindaci sono chiamati, e che devono esercitare con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell'incarico ai sensi dell'art. 2407 cod. civ., non si risolve in una mera verifica contabile limitata alla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende anche il riscontro tra la realtà effettiva e la sua rappresentazione contabile.

Ciò posto, la Cassazione ribadisce – allineandosi per questo profilo all'ultima giurisprudenza – che la responsabilità, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, del presidente e dei componenti dello stesso, non può fondarsi sulla sola posizione di garanzia, siccome ricavabile dall'insieme delle norme civilistiche richiamate, e discendere, tout court, dal mancato esercizio dei doveri di controllo, ma postula l'esistenza di puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, dimostrativi di un'omissione dei poteri di controllo e di vigilanza esorbitante dalla dimensione meramente colposa, ed espressiva, piuttosto, di una volontaria partecipazione alle condotte distrattive degli amministratori, pur nella forma del dolo eventuale, vale a dire per la consapevole accettazione del rischio che l'omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori.

Ciò non significa che, per riconoscere la responsabilità penale dei sindaci, occorra individuare specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con i doveri sugli stessi gravanti, essendo sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o, comunque, non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l'incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all'assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Tribunale per consentirgli di provvedere ai sensi dell'art. 2409 cod. civ., in quanto può ragionevolmente presumersi che il ricorso a siffatti rimedi, o anche solo la minaccia di farlo per l'ipotesi di mancato ravvedimento operoso degli amministratori, avrebbe potuto essere idoneo ad evitare (o, quanto meno, a ridurre) le conseguenze dannose della condotta gestoria. Nemmeno occorre la dimostrazione di un preventivo accordo del sindaco con chi amministra la società in relazione alle operazioni distrattive, potendo l'inerzia tenuta essere espressione di omissione collusiva, ma in ogni caso – ed in questo la sentenza conferma l'orientamento che si sta sempre più affermando in giurisprudenza - la responsabilità penale del sindaco può riconoscersi solo ove egli abbia dato un contributo giuridicamente rilevante - sotto l'aspetto causale - alla verificazione dell'evento ed abbia avuto la coscienza e la volontà di quel contributo, anche solo a livello di dolo eventuale; con il che intendendosi significare che non basta imputare al sindaco - e provare - comportamenti di negligenza o imperizia anche gravi, come può essere il disinteresse verso le vicende societarie (fonte indiscutibile di responsabilità civile), ma occorre la prova - che può essere data, come di regola, anche in via indiziaria - del fatto che la sua condotta abbia determinato o favorito, consapevolmente, la commissione dei fatti di bancarotta da parte dell'amministratore.

Osservazioni

Le conclusioni cui è giunta la Cassazione e che, come detto, sembrano consolidare quanto sostenuto in altre decisioni, meritano apprezzamento perché l'affermazione secondo cui l'inerzia antidoverosa nello svolgimento dei compiti di vigilanza e di controllo, in presenza di determinati ‘segnali di pericolo', equivarrebbe ad una consapevole accettazione del rischio della verificazione degli eventi delittuosi poi di fatto occorsi apre la porta ad equivoci nella definizione dei confini della responsabilità dei componenti del consiglio di amministrazione privi di deleghe.

Leggendo le diverse decisioni della Cassazione espressione dell'orientamento suddetto pare evidente che, assai di frequente, la giurisprudenza finisca per muovere ai componenti del consiglio di amministrazione non direttamente partecipi e protagonisti della vicenda criminosa un rimprovero a titolo di dolo – sia pure, come detto, nella forma di dolo eventuale - in relazione ad un atteggiamento che è invece di mera negligenza ed imperizia.

Di contro, deve rigorosamente differenziarsi l'ipotesi in cui il componente del C.d.A. o il sindaco non si avvede di quanto sta accadendo e quindi non interviene – nel qual caso allo stesso potrà contestarsi solo una responsabilità di natura colposa, rilevante solo in sede civilistica – dal caso in cui lo stesso soggetto intenzionalmente omette di assumere qualsiasi iniziativa, pur nella consapevolezza dei comportamenti criminosi assunti da terzi. Se è vero che la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice può determinare la sussistenza di una ipotesi di responsabilità penale a carico del soggetto che è rimasto inerente a fronte di una situazione che invece sollecitava il suo intervento, è altresì vero che per la formulazione di una tale conclusione è comunque necessario che in capo al singolo sussista (e ne sia data piena prova in sede di giudizio criminale) l‘elemento soggettivo richiesto dalla disposizione incriminatrice: esemplificando, con riferimento al delitto di falso in bilancio – tipico illecito di cui il sindaco può essere chiamato a rispondere a titolo di concorso - occorre che il sindaco sia consapevole della circostanza che il bilancio che gli si richiede di valutare contiene dati mendaci e che quindi un suo giudizio negativo potrebbe arrestare l'iter criminoso posto in essere da altri, mentre il suo apprezzamento o il suo mancato intervento agevola tale comportamento delittuoso (CHIARAVIGLIO, La responsabilità dell'amministratore delegante fra "agire informato" e poteri di impedimento, in Società, 2010, 886; CENTONZE, Il problema della responsabilità penale degli organi di controllo per omesso impedimento degli illeciti societari. Una lettura critica della recente giurisprudenza, in Riv. Soc., 2012, 317; CALAMANTI, La responsabilità degli amministratori di società controllante per falsità indiretta del bilancio consolidato, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec. 2000, 553).

Evidentemente, la prova circa la sussistenza di un tale atteggiamento soggettivo in capo all'amministratore non esecutivo o al componente di controllo è tutt'altro che agevole: trattandosi infatti di un moto interiore del singolo, non percepibile esteriormente, è necessario attribuire, per via deduttiva, una tale valenza dimostrativa ad alcune concrete circostanze della vicenda di fatto portata all'esame dell'Autorità Giudiziaria e qualificare le stesse come indici probatori della volontà criminale dei soggetti in parola. Per le ragioni anzidette, non pare sufficiente a fondare un giudizio di colpevolezza di tali soggetti la mera dimostrazione che l'amministratore privo di deleghe o i sindaci non si sono attivati come avrebbero dovuto in presenza di una situazione di criticità, posto che tale inadempimento – rilevante in sede civile e fondamento di una possibile obbligazione di risarcimento danni – potrebbe essere stato determinato dal fatto che costoro non si sono avveduti del fatto che altri soggetti titolari di poteri decisionali nell'ambito della società stavano ponendo in essere una condotta criminale: in sostanza, la motivazione circa la colpevolezza di qualsiasi soggetto titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'interesse considerato dalla norma incriminatrice deve seguire uno schema argomentativo che prevede prima l'accertamento che l'obbligo di controllo ed intervento è rimasto inadempiuto, e poi l'individuazione delle ragioni di tale omissione, che devono rinvenirsi nell'intenzionale volontà di agevolare l'altrui condotta criminosa, nella consapevolezza dello svolgimento della stessa.

Considerato quanto ora si è detto, non pare convincente neppure la tesi, di frequente sostenuta in giurisprudenza, secondo cui sarebbe bastevole – per pervenire ad una decisione di condanna di quanti sono tenuti a verificare la veridicità dei dati economici - dimostrare la presenza in bilancio di “segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito, aventi un grado di anomalità (non in senso assoluto, ma in relazione al soggetto garante di cui trattasi)” (Cass., sez. V, 4 maggio 2007, Amato), che rivelino una qualche condizione di rischio per il bene tutelato: esemplificando, un sindaco non potrebbe difendersi sostenendo di non essersi avveduto della falsità del bilancio quando la mendacità dello stesso non sia riferibile ad elementi di difficile valutazione – si pensi ad esempio alla stima dell'avviamento o del know how aziendale o alla determinazione del valore del magazzino, ecc. -, ma si concreti nell'esposizione di voci palesemente inattendibili – come nel caso dell'indicazione di una cassa negativa o di una voce tipo “fatture da emettere” di importo rilevantissimo – o la cui veridicità sia facilmente accertabile – si pensi ad un credito iscritto da anni per il medesimo importo, senza che lo stesso sia stato mai svalutato. In questi casi, infatti, secondo la giurisprudenza la prova della compartecipazione del sindaco nell'altrui disegno criminoso sarebbe rappresentata dall'accertata presenza, nell'informazione economica fornita dall'azienda, di quelli che si è soliti denominare quali “segnali di allarme”, ovvero anomalie di comportamento, di rilevamento dei risultati di esercizio, di esposizione dei dati finanziari ecc., di tale gravità e rilevanza da doversi escludere che il collegio sindacale abbia potuto ignorarle o non avvedersene, sicché in tali circostanze sarebbe assolutamente legittimo concludere nel senso che i membri dell'organo di controllo abbiano intenzionalmente omesso di attivarsi, nonostante sapessero che le condizioni della contabilità societaria reclamavano un loro intervento.

Come accennato, a nostro parere anche questa modalità di argomentazione presenta alcuni profili di problematicità, giacché a ben vedere pure in tali ipotesi non si è in presenza di una dimostrazione dell'intenzione atteggiamento colpevole da parte dell'amministratore non esecutivo o dei sindaci e la motivazione della condanna si fonda sull'affermazione che la presenza di gravi profili di criticità nella vicenda oggetto dell'indagine penale consente di dedurre e di ritenere provato che – stante l'oggettiva percepibilità di tali indici di anomalia da parte di terzi – i titolari di un obbligo di controllo se ne siano avveduti e che quindi non si siano attivati per porvi rimedio in quanto hanno inteso concorrere con la loro inerzia nella condotta delittuosa degli amministratori delegati. E' evidente che tale ragionamento non si presenta molto differente dall'argomentazione che riconosce la possibilità di muovere un rimprovero penalmente rilevante ai soggetti in parola in considerazione della sola mancata attivazione dei suoi poteri, senza alcuna considerazione delle ragioni di tale inadempimento: in entrambe le ipotesi infatti si finisce per richiamare concetti quali la prevedibilità o conoscibilità della vicenda criminale, i quali rimandano alla struttura della colpa, senza pretendere la dimostrazione - non del fatto che il sindaco avrebbe dovuto senz'altro avvedersi delle anomalie del bilancio o che il componente del consiglio di amministrazione avrebbe dovuto individuare la portata distrattiva dell'acquisto dell'immobile, quanto della circostanza che i soggetti titolari dei doveri di controllo, per il tramite dell'individuazione di tali criticità, si siano effettivamente accorti della portata criminale dell'altrui comportamento e ciò nonostante abbiano omesso ogni forma di intervento.

In realtà, non vi è dubbio che sia assai rilevante il fatto che la condotta – sia essa di appropriazione indebita, di distrazione, di falso in bilancio, di falsificazione dei libri sociali ecc. – tenuta dai vari amministratori esecutivi e delegati presenti inequivocabili indici di abnormità ed equivocità e dia adito a forti perplessità circa la sua correttezza rispetto ai dettami della corretta amministrazione e gestione dei beni sociali, ma tale rilievo non deriva dalla circostanza che tali anomalie sono così macroscopiche da non consentire al soggetto titolare del potere di controllo di difendersi dalle accuse sostenendo di non essersene avveduto, quanto dal fatto che rispetto a tali elementi palesemente dimostrativi della portata delittuosa dell'altrui condotta diventa più agevole la prova che gli amministratori non esecutivi o i membri del collegio sindacale si siano effettivamente avveduti dell'inattendibilità della comunicazione finanziaria.

Detto altrimenti, per dichiarare la colpevolezza dei soggetti della cui posizione si sta parlando – e che non hanno preso parte direttamente alla altrui condotta illecita - occorre sempre dimostrare che gli stessi fossero consapevoli di quanto stava accadendo – e dei danni che ne derivavano per il patrimonio della società, per i soci della stessa, per i suoi creditori ecc.. Evidentemente la prova di tale profilo è più facilmente rinvenibile laddove la vicenda già a prima lettura presenti una connotazione di palese irregolarità; quest'ultima considerazione, tuttavia, non consente in alcun modo di obliterare la prima parte della suddetta affermazione ovvero che ciò che deve essere dimostrato in sede di giudizio penale non è l'evidente portata criminosa del comportamento tenuto dagli altri componenti del consiglio di amministrazione – e quindi la possibilità di avvedersi facilmente di tale circostanza – quanto il fatto che la condotta di reato tenuta da terzi sia stata effettivamente avvertita dal titolare della posizione di garanzia.

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