Radicalizzazione in carcere: i rischi da eccesso di penalizzazione

Ferdinando Brizzi
15 Luglio 2019

Scopo di questo contributo è quello di procedere ad una ricognizione della risposta, a livello nazionale ed europeo, rispetto ai fenomeni di radicalizzazione in carcere. Strettamente connessa è la riflessione sul trattamento penale del fenomeno del terrorismo jihadista: quali ricadute può avere a livello penitenziario un eccesso di penalizzazione di condotte che presentano tratti diversi?
Abstract

L'attenzione suscitata nel mondo giuridico dalle tematiche connesse al contrasto della radicalizzazione violenta è testimoniata, da ultimo, dalla pubblicazione sul sito della Scuola Superiore della Magistratura del bando per la partecipazione a un corso e-learning organizzato dall'Unità Help del Consiglio d'Europa in materia di prevenzione e repressione di fenomeni di radicalizzazione che possano condurre al terrorismo ed alla violenza estrema. Il bando ha riguardato la partecipazione di trenta magistrati ordinari, giudici e pubblici ministeri, a un corso con moduli formativi anche in materia di raccolta di prova nei casi di anti-terrorismo. Si è trattato di un bando internazionale per un corso tenutosi presso la Scuola della Magistratura spagnola a Barcellona, in data 28-29 marzo 2019.

Scopo di questo contributo è quello di procedere ad una ricognizione della risposta, a livello nazionale ed europeo, rispetto ai fenomeni di radicalizzazione in carcere. Strettamente connessa è la riflessione sul trattamento penale del fenomeno del terrorismo jihadista: quali ricadute può avere a livello penitenziario un eccesso di penalizzazione di condotte che presentano tratti diversi? Il riferimento è ai c.d. “reati di contorno” rispetto a quelli terroristici veri e propri, anch'essi attratti nella medesima logica iperpenalizzante.

Una valutazione comparativa della situazione europea

Un'approfondita analisi degli interventi specializzati sin qui spiegati a livello europeo sul versante del contrasto alla radicalizzazione si rinviene in un'apposita sezione del XV rapporto della nota associazione Antigone sulle condizioni di detenzione: “Il carcere secondo la Costituzione”, pubblicato a maggio 2019.

Nel rapporto è presente, infatti, un interessante approfondimento “La radicalizzazione nelle carceri europee: i risultati dello European Prison Observatory”.

Antigone si è resa protagonista della creazione di un osservatorio europeo sulle carceri: la proposta, rivolta alla Commissione europea, ha avuto quale oggetto le strategie di prevenzione e di contrasto della radicalizzazione violenta.

Oggetto della ricerca sono state quindi sia le strategie di prevenzione e di de-radicalizzazione adottate nell'ambito dei sistemi penitenziari europei, sia gli strumenti di individuazione del rischio utilizzati dalle amministrazioni penitenziarie per distinguere le situazioni, i casi “a rischio” rispetto all'ordinaria amministrazione.

Un primo atteggiamento individuato dalla ricerca è stato quello della negazione del problema. Questo atteggiamento è proprio di quei Paesi, primi fra tutti Grecia e Portogallo, dove le amministrazioni penitenziarie, nelle loro pratiche del quotidiano, non hanno individuato il tema “radicalizzazione” come un problema principale nella gestione del sistema. In questi Paesi, quindi, non solo non sono presenti dati statistici affidabili sul fenomeno, ma sono pressoché assenti anche programmi di prevenzione o una particolare attenzione nei confronti di quei segnali che suggeriscano l'esistenza di un pericolo legato alla radicalizzazione violenta del detenuto.

Altri Paesi, al contrario, riconoscono il tema radicalizzazione come uno dei principali rischi legati alla quotidianità penitenziaria. In questo caso, tuttavia, la risposta si fonda su pratiche di prevenzione incentrate sul controllo del detenuto, dei suoi comportamenti, spesso dei mutamenti nel vestiario o nell'aspetto fisico, al fine di individuare quei segnali che costituirebbero il primo passo in un processo di radicalizzazione violenta. È questo, ad esempio, il caso dell'Italia dove larga parte della prevenzione pare fondarsi sull'utilizzo del manuale Violent Radicalization – Recognition of and Responses to the Phenomenon by Professional Groups Concerned ideato in collaborazione con altre amministrazioni europee.

In altri Paesi, infine, si è potuto riscontrare come le pratiche di controllo si affianchino a numerosi progetti educativi, spesso caratterizzati dall'intervento di equipe multidisciplinari con l'obiettivo di fronteggiare i fenomeni di radicalizzazione violenta anche con lo strumento educativo. Non a caso, da questo punto di vista, tale commistione fra controllo/repressione e educazione/inclusione si riscontra in quei Paesi – quali Austria e Germania – che da più tempo si confrontano con il fenomeno e dove appare più evidente la presenza di significative fasce della popolazione detenuta “a rischio”. In questo senso, la pluralità degli interventi pare riflettere un percorso di medio-lungo termine e una consapevolezza sull'essenza del fenomeno più strutturata rispetto ad altri Paesi.

Così come le strategie di prevenzione risentono dell'approccio culturale dominante nei Paesi coinvolti, anche le pratiche di gestione materiale della carcerazione per quei soggetti individuati come “a rischio” o definiti “radicalizzati” variano molto nel quadro europeo oggetto di indagine.

Un tema centrale al riguardo è quello del regime detentivo.

Anche in questo caso, si legge nel rapporto, le “raccomandazioni ideali” suggeriscono uno scarso utilizzo della segregazione nei confronti della popolazione detenuta con approcci ideologici di stampo radicale/violento, a favore della collocazione degli stessi all'interno di regimi il più possibile ordinari. Ciò favorirebbe la dispersione all'interno del sistema penitenziario di tali soggetti offrendo, tra l'altro, la possibilità agli stessi di partecipare a quei programmi di intervento che, al contrario, risultano di difficile attuabilità in quegli istituti caratterizzati da regimi detentivi di elevata sicurezza.

Ancora una volta, tuttavia, il quadro fattuale mostra una realtà molto differente dagli auspici ideali. Solo in Austria e in Germania appare dominante una politica di controllo fondata sulla dispersion dei soggetti radicalizzati all'interno del sistema, seppur con significative misure di controllo sui soggetti giudicati pericolosi.

Negli altri Paesi, tra cui l'Italia, prevale un approccio di stampo segregazionista in base al quale la diffusione della radicalizzazione all'interno delle mura del carcere è combattuta attraverso istituti – o sezioni – speciali nelle quali i detenuti pericolosi, radicalizzati, violenti sono rinchiusi affinché non diffondano il “morbo” all'interno del sistema.

Non a caso, poi, molto raramente queste sezioni speciali conoscono la presenza di programmi trattamentali di stampo inclusivo, o di tentativi di offrire differenti forme di cittadinanza per soggetti, di fatto, considerati come irrecuperabili, irrimediabilmente pericolosi. La rinuncia alla risocializzazione, in questi esempi, si accompagna alla mera neutralizzazione del soggetto pericoloso per tutto il tempo della condanna e, in seguito, all'espulsione dello straniero in ragione della sua pericolosità.

Le linee guida europee

Le “raccomandazioni ideali” citate nel rapporto di Antigone trovano un significativo riscontro nelle Linee guida per i servizi detentivi e di probation relativamente alla radicalizzazione e all'estremismo violento approvate il 3 marzo 2016 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa.

Punto centrale delle Linee guida è che il migliore “antidoto” rispetto al rischio di radicalizzazione è il buon funzionamento del carcere e del servizio di probation e la scrupolosa applicazione di quanto la legge prevede relativamente ai diritti delle persone private della libertà personale o comunque sottoposte a restrizioni. Al contrario, si rivela l'incubatore di uno strisciante proselitismo un sistema che non applica le regole e che implicitamente invia un messaggio di diffusa violazione delle norme; soprattutto quando queste riguardano diritti, o anche interessi legittimi, dei detenuti o di alcuni gruppi all'interno del loro insieme.

A quelle Linee guida, in Italia, ha fatto seguito il documento finale approvato il 18 aprile 2016 dagli Stati generali sull'esecuzione penale. Un comitato di esperti, coordinato dal prof. Glauco Giostra, ha predisposto le linee di azione degli Stati generali; sono stati costituiti 18 tavoli tematici, condotti da professori universitari e magistrati esperti in diritto penitenziario. Il documento finale è denso di “raccomandazioni ideali”, tanto da spingersi ad affermare che il rischio della radicalizzazione ideologica è strettamente connesso con i temi della risocializzazione. Il principale argomento per fronteggiare l'estremizzazione di comportamenti e la radicalizzazione ideologica è stemperare il senso di isolamento ed emarginazione che alimenta le spinte verso derive terroristiche. Si devono dunque sostenere interventi in grado di delineare una complessiva strategia.

Essi riguardano le necessità di:

  • favorire i colloqui dei ristretti con gli educatori e gli assistenti sociali, nonché con le figure professionali fra i quali esperti in psicologia, criminologia clinica, compresi gli etno-psichiatri e i mediatori culturali;
  • incentivare i corsi di alfabetizzazione, scolastici e professionali;
  • coinvolgere la società esterna, ossia gli assistenti volontari, i ministri del culto e le guide della preghiera (imam), evitando così che alcuni detenuti assurgano a posizioni di leadership;
  • creare tavoli tecnici permanenti tra enti territoriali, Aziende sanitarie, associazioni di volontariato, comunità etniche e religiose;
  • favorire le opportunità di fruire di permessi premio e misure alternative tramite la creazione di alloggi di ospitalità protetta e di reti di sostegno in collaborazione tra Amministrazioni locali, organizzazioni non profit e volontariato in connessione con l'Autorità giudiziaria;
  • favorire i rapporti e gli interventi con le Autorità consolari rappresentative della popolazione detenuta straniera, anche nell'ottica del ritorno nei Paesi di origine;
  • prevedere modelli per la de-radicalizzazione in carcere con il sostegno dei citati interlocutori.
La vigilanza dinamica

Secondo gli estensori del documento, queste provvidenze e questi accorgimenti non si pongono in contrasto con le esigenze di prevenzione del rischio, secondo la mai sufficientemente criticata contrapposizione tra sicurezza e trattamento. Al contrario, aprono canali di conoscenza che veicolano informazioni preziose per il controllo dei fenomeni di fanatismo violento. La stessa vigilanza dinamica costituisce, in quest'ottica, un elemento di forza e non di debolezza dal punto di vista della capacità di prevenzione di derive terroristiche; non mortifica, ma esalta il ruolo della Polizia penitenziaria che, opportunamente preparata, può costituire un insostituibile osservatore di prossimità, un prezioso percettore di abitudini, tendenze, evoluzioni comportamentali, atteggiamenti di proselitismo, prevaricazioni o sudditanze psicologiche. Non è la segregazione, ma la conoscenza la miglior alleata della sicurezza. I risultati dell'osservazione e del controllo, poi, devono essere condivisi con altri organismi istituzionali deputati alla prevenzione del terrorismo (si pensi, in particolare, al Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo – C.A.S.A. – con il quale il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP) collabora stabilmente dal 2008).

Si tratta, insomma, di conoscere la realtà individuale e relazionale del soggetto nel modo più completo possibile, al fine di mettere in campo i necessari strumenti di sostegno e contemporaneamente di individuare gli elementi di rischio. Ciò significa anche saper esercitare un'attenta gestione delle persone detenute per fatti di terrorismo sulle quali va fatto un investimento differenziato in termini trattamentali, potenziando interventi diretti alla de-radicalizzazione piuttosto che misure (in concreto) più afflittive o maggiormente contenitive, come sovente si è istintivamente portati a fare

Il rilievo della formazione

Dalle Linee guida emerge quindi l'indicazione della formazione degli operatori penitenziari quale strumento fondamentale per prevenire e contrastare i fenomeni di radicalizzazione.

Due linee di intervento sulla formazione emergono dall'indagine sui bisogni e sui problemi della detenzione degli stranieri.

La prima riguarda l'aggiornamento degli operatori penitenziari sulla cultura e i bisogni degli stranieri in carcere; la seconda, l'aggiornamento in particolare sul tema del proselitismo e della radicalizzazione per il personale in generale e soprattutto per quello di Polizia penitenziaria operante nelle sezioni detentive, per i Comandanti dei Reparti e per i Direttori degli istituti penitenziari. A tal fine è importante fare riferimento alle Linee guida per i Servizi penitenziari e di probation riguardanti la radicalizzazione e l'estremismo violento, adottate dal Consiglio d'Europa.

In tal senso occorre centrare gli interventi formativi sull'esame delle esperienze condotte in altri Paesi e utilizzare i materiali prodotti da “reti” di cooperazione tra Paesi dell'Unione Europea attorno a questo tema. Importante per il percorso di formazione e continuo aggiornamento sono i materiali sistematicamente pubblicati dalla rete RAN (Radicalisation Awareness Network) che prevede al suo interno un gruppo di lavoro e di diffusione di buone pratiche relativamente al rischio di radicalizzazione in carcere.

Punti centrali della formazione devono essere: come prevenire; come individuare segni di possibile radicalizzazione; come gestire detenuti già radicalizzati; come promuovere percorsi di de-radicalizzazione; come stabilire una continuità informativa con la comunità esterna nel caso di dimissione di un soggetto radicalizzato; come implementare tutte queste operazioni nell'assoluto rispetto degli obblighi derivanti dalla Convenzione Europea per i diritti dell'uomo e, in particolare del suo articolo 3.

Il trattamento penitenziario degli autori di reati di terrorismo

Come molto ben evidenziato nel rapporto di Antigone, in Italia le “raccomandazioni ideali” espresse nel documento finale degli Stati generali si scontrano col “dato reale”, autorevolmente rappresentato da autorevoli esponenti della magistratura di sorveglianza che, intervenendo in importanti sedi istituzionali, hanno rammentato che il trattamento degli autori di reati di terrorismo si prefigura senz'altro in maniera diversa rispetto a quello destinato ad altri autori di reato.

Secondo tale orientamento, l'ordinaria prospettiva rieducativa dell'ordinamento penitenziario, propria di una tipologia di autore di illeciti penali poco integrato nel tessuto sociale, è infatti strutturalmente derogata per i responsabili di reati di terrorismo, per avere questi elaborato un sistema di valori in antagonismo con quelli istituzionali. Essa si pone dunque, quantomeno in termini di principio, in prima antitesi con la metodologia pedagogica dello stesso ordinamento penitenziario, che tende al valore della rieducazione come strumento per realizzare le finalità costituzionali della pena.

Nella regolamentazione interna dell'amministrazione penitenziaria è stato istituto lo specifico sottocircuito di alta sicurezza denominato AS2, in cui vengono inseriti automaticamente i soggetti imputati o condannati per delitti con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza.

Altra categoria di persone che può essere destinata a tale circuito è quella dei soggetti detenuti per altri fatti, cui sia stato contestato a piede libero uno o più dei delitti con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione mediante il compimento di atti di violenza, ovvero nei cui confronti sia venuta meno l'ordinanza di custodia cautelare. Si tratta di coloro che vengono efficacemente definiti da attenta dottrina come gli autori dei “reati di contorno”. Per costoro la destinazione al circuito differenziato non avviene in via automatica, ma solo previa acquisizione, da parte della Direzione Generale del DAP, di informazioni assunte dagli organi investigativi e successiva decisione della Direzione competente, cui viene attribuita, in seguito, la gestione del detenuto.

Tale ubicazione inframuraria, sia che riguardi gli autori di delitti di terrorismo sia che riguardi gli autori di reati “di contorno”, impedisce la possibilità di comunicazione sia tra costoro sia con la restante popolazione detenuta e, così facendo, lo svolgimento, come è ovvio, di attività di proselitismo.

Una simile linea operativa, ad avviso di chi scrive, si è potuta affermare grazie all'“assenza” del legislatore in questa materia tanto delicata.

Infatti la responsabilità delle decisioni viene assunta direttamente dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che ha dettato “la linea” attraverso le seguenti circolari:

  • circolare 16.11.2015, n. 385582, relativa all'attività di monitoraggio del fenomeno della radicalizzazione e del proselitismo, che tra l'altro pone attenzione agli scritti di lingua araba rinvenuti nel corso delle perquisizioni;
  • circolare 9.12.2015, n. 412494, che istituisce i referenti periferici dell'attività di monitoraggio del fenomeno citato, prevedendo che le direzioni degli istituti nominino personale referente locale;
  • circolare 8.6.2017, n.190542, relativa all'obbligo di comunicare e informare la Procura della Repubblica di notizie penalmente rilevanti o di interesse investigativo, sempre in relazione ai predetti fenomeni di radicalizzazione e proselitismo;
  • circolare 7.12.2017, n. 404299, che prevede le linee guida sull'attività di osservazione del fenomeno e tra l'altro dispone, in ordine al monitoraggio, un'area di primo livello, definito “alto”, di attenzione al terrorismo internazionale e un secondo, medio, per i detenuti che hanno posto in essere comportamenti che fanno presupporre la vicinanza all'ideologia jihadista. Interessanti elementi di osservazione, descritti in tale ultima circolare, sono le osservazioni da compiere sulla composizione della stanza detentiva, sulle sanzioni disciplinari, sui contatti con l'esterno.
Il ruolo della Polizia penitenziaria

Le circolari del DAP si sono tradotte in una serie di misure di vigilanza, sorveglianza, osservazione e controllo, di natura preventiva, volte a contrastare il fenomeno della minaccia terroristica in carcere, adottate dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia, avvalendosi del Corpo della Polizia Penitenziaria (e, in particolare, di un suo reparto specializzato, il Nucleo Investigativo Centrale, NIC, istituito nel 2007).

Il NIC convoglia, analizza ed elabora quotidianamente i dati forniti dalle articolazioni territoriali, facendoli confluire in appositi database attraverso l'aggregazione delle notizie acquisite. Nello specifico, l'attività di analisi e studio del fenomeno del radicalismo e proselitismo condotta dal NIC è articolata su tre diversi livelli di osservazione assegnati in base al grado del rischio di radicalizzazione e alla personalità del soggetto.

Il sistema di raccolta delle informazioni provenienti dal contesto penitenziario è fondamentalmente basato sull'osservazione empirica e si realizza con l'acquisizione di tutti i dati inerenti la vita intramuraria e i contatti con l'esterno (dalla routine quotidiana alle relazioni comportamentali ed eventuali sanzioni disciplinari, dai flussi di corrispondenza ai colloqui visivi e telefonici, dalle somme di denaro ai pacchi in entrata e in uscita dal penitenziario, ecc). Trattasi di un'attività fondata sulla conoscenza del detenuto che avviene anche attingendo ad informazioni legittimamente detenute dall'amministrazione penitenziaria che, debitamente aggregate, possono essere utilizzate al fine di svolgere una puntuale attività di prevenzione.

Di particolare rilevanza appare lo strumento del monitoraggio di detenuti associati al rischio di radicalizzazione jihadista sulla base di tre distinti “livelli di analisi”:

  • primo livello – classificato ALTO – raggruppa i soggetti per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o di reclutamento;
  • secondo livello – classificato MEDIO – raggruppa i detenuti che all'interno del penitenziario hanno posto in essere atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadista e, quindi, ad attività di proselitismo e reclutamento;
  • terzo livello – classificato BASSO – raggruppa quei detenuti che, per la genericità delle notizie fornite dall'Istituto, meritano approfondimento per la valutazione successiva di inserimento nel primo o secondo livello ovvero il mantenimento o l'estromissione dal terzo livello.

L'ultima Relazione del Ministero della Giustizia rileva che i soggetti sottoposti al monitoraggio, alla data del 19 ottobre 2018, sono complessivamente “478, di cui 233 sottoposti al 1° livello – Alto, 103 al 2° livello – Medio e 142 al 3° livello – Basso”.

Secondo il documento, questi detenuti “provengono principalmente da Paesi quali Tunisia (27,70%), Marocco (26,07%) Egitto (5,91%) e Algeria(4,68%) e hanno, per buona parte, un'istruzione medio-bassa”.

Tali dati vanno inseriti nel più ampio contesto del totale della popolazione detenuta.

Secondo gli ultimi dati ufficiali (Ministero della Giustizia, Detenuti presenti – aggiornamento al 28 febbraio 2019), in Italia i detenuti sono 60.348 (nel rapporto di Antigone si indica il numero di 60.439 al 30 aprile 2019), distribuiti in 190 strutture penitenziarie.

I detenuti stranieri sono 20.325, ovvero circa un terzo del totale (33,7%) e le nazionalità più rappresentate sono, in ordine decrescente: Marocco (3.762 detenuti), Albania (2.594), Romania (2.534), Tunisia (2.047) e Nigeria (1.588).

Prendendo in considerazione i Paesi di origine, è possibile stimare che più di un detenuto su cinque possa essere di fede musulmana.

Secondo la Relazione del Ministero della Giustizia del 2018, tra i detenuti di origine musulmana, “7.169 sarebbero ‘praticanti'”, ossia effettuavano la preghiera attenendosi ai principi della propria religione.

Tra questi musulmani “praticanti”, 97 rivestivano la figura di imam, conducendo la preghiera, 88 si erano posti in evidenza come “promotori” (ovvero si erano proposti, nei confronti della Direzione del proprio istituto penitenziario, “come portavoce o paladini delle istanze degli altri detenuti”) e 44 si erano convertiti all'Islam durante la detenzione.

L'ultima Relazione del Ministro della Giustizia sull'Amministrazione penitenziaria, contiene ulteriori dati a questo riguardo (Relazione del Ministero sull'amministrazione della giustizia anno 2018, Inaugurazione dell'Anno Giudiziario 2019 – Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, gennaio 2019).

Innanzitutto, il documento segnala che, alla data del 18 ottobre 2018, risultano essere presenti 66 detenuti imputati e/o condannati per reati afferenti al “terrorismo internazionale di matrice islamica” e specifica che costituiscono “il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente”.

Questi soggetti sono inseriti in uno dei tre circuiti di Alta Sicurezza (AS) istituiti nel 2009, l'AS2, riservato a “soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza”. Nel complesso, i detenuti inseriti in questo circuito, includendo anche i soggetti reclusi per terrorismo interno (di estrema sinistra, di estrema destra e anarchico), risultano 94.

Attualmente sono dislocati presso apposite sezioni degli istituti penitenziari di Rossano (CS), di Nuoro e di Sassari, mentre una sezione femminile è presente presso la Casa circondariale dell'Aquila, con due detenute presenti.

Prevenzione e contrasto

L'efficacia di tale risposta al problema della radicalizzazione in carcere, posta in essere dal DAP, è stata riconosciuta dal Procuratore generale della Corte suprema di cassazione, nell'intervento nell'Assemblea generale della Corte sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2018, Roma, 25 gennaio 2019, in particolare per quanto concerne l'attività di monitoraggio dei detenuti esposti a tale rischio di radicalizzazione, secondo il sistema consolidato dei tre diversi livelli di rischio.

Detta attività il DAP ha compiuto in raccordo con la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, con la Polizia di prevenzione e con il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (C.A.S.A.) al fine della migliore gestione delle relative informazioni sia a fini di investigazione che di prevenzione.

Di particolare utilità, in tale contesto, è risultato il complessivo sistema di controllo delle scarcerazioni dei soggetti monitorati (soprattutto quelli del primo livello). Difatti sono state rese tempestive informazioni, che hanno consentito alla Direzione nazionale di trasmettere alle Procure distrettuali interessate le informazioni sulle imminenti scarcerazioni, accompagnate dall'indicazione del livello di rischio, in modo da consentire le più opportune attività investigative/preventive.

Per cercare di fronteggiare il fenomeno del radicalismo e arginare la possibilità di attentati terroristici è stato istituito, il 6 maggio 2004, con Decreto del Ministro dell'Interno, il C.A.S.A., ovvero il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo consistente in un tavolo permanente, presieduto dal Direttore Centrale della Polizia di Prevenzione, nel cui ambito vengono condivise e valutate le informazioni sulla minaccia terroristica interna ed internazionale. Il Comitato è direttamente collegato all'Unità di Crisi Nazionale, altro organismo convocato dal Ministro degli Interni in vista di eventi con implicazioni sulla sicurezza nazionale. Un gruppo di lavoro tecnico – composto da rappresentanti del Comitato – stabilisce inoltre le procedure per l'attuazione di iniziative di prevenzione dell'estremismo violento, approvate dal C.A.S.A. e delegate alle Autorità di Polizia sul territorio nazionale.

Il mandato del Comitato lo autorizza ad implementare relazioni bilaterali con altri centri di coordinamento antiterrorismo, anche al di fuori dei confini europei. L'Italia e gli Stati Uniti ad esempio, hanno siglato un accordo di cooperazione per condividere informazioni e monitorare le persone indagate per attività terroristiche; i dati e le informazioni ricevute dal partner USA vengono gestite direttamente dal C.A.S.A., che fornisce alle forze dell'ordine tutti i dati necessari per l'espletamento

Vi prendono parte le Forze di polizia a competenza generale – Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri – le Agenzie di intelligence – AISE ed AISI – e, per i contributi specialistici, la Guardia di Finanza ed il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria.

Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, in particolare, è responsabile per il monitoraggio e le investigazioni sui detenuti accusati o condannati per reati di terrorismo, così come per i criminali comuni ritenuti a rischio di radicalizzazione violenta.

È stato lo stesso C.A.S.A. più volte a ribadire che proprio nelle carceri, luoghi imprescindibili di controllo, i fenomeni di radicalizzazione “hanno la meglio”.

Come è agevole constatare, anche il Procuratore generale della Corte suprema di cassazione non ha potuto far altro che esaltare le modalità operative di apparati di stretta dipendenza dall'Esecutivo che operano sfruttando tutti gli spazi di discrezionalità consentiti dalla legge, rectius, dall'assenza di disposizioni normative.

Il “revirement” del Consiglio d'Europa

Dopo le Linee guida del 3 marzo 2016 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, attente ai diritti delle persone private della libertà personale o comunque sottoposte a restrizioni, il Consiglio d'Europa si è venuto spostando sulle “posizioni italiane” sopra esposte, di natura più marcatamente repressiva e segregazionista.

Invero, il 16 maggio 2019 il Consiglio dell'Unione europea ha adottato un progetto di conclusioni sulla prevenzione e la lotta alla radicalizzazione nelle carceri e sulla gestione degli autori di reati di terrorismo ed estremismo violento dopo la scarcerazione.

È stata sottolineata l'importanza e l'urgenza di misure efficaci in questo ambito, alla luce del rischio posto dal numero crescente di autori di reati di terrorismo e autori di altri reati che si sono radicalizzati nel corso della loro permanenza in carcere: le preoccupazioni del Consiglio discendono dal fatto che molti di costoro dovrebbero essere scarcerati nei prossimi due anni.

Gli Stati membri sono stati quindi invitati a sviluppare ulteriori interventi specializzati per affrontare gli autori di reati di terrorismo ed estremismo violento e quanti ritenuti a rischio di radicalizzazione nel corso della loro permanenza in carcere.

Ancora, gli Stati membri sono stati sollecitati a utilizzare buone prassi in materia di:

  • rapido scambio di informazioni tra i pertinenti attori e messa a punto di strategie adeguate;
  • creazione di unità specializzate e multidisciplinari responsabili della lotta all'estremismo violento e alla radicalizzazione nelle carceri;
  • programmi di formazione generali per il personale penitenziario e di sorveglianza;
  • attuazione, se necessario, di misure speciali per persone condannate per reati di terrorismo, sulla base di una valutazione dei rischi;
  • misure su base individuale volte a spingere i detenuti a disimpegnarsi dalle attività di estremismo violento e sostegno ai rappresentanti religiosi che forniscono narrazioni alternative;
  • istruzione, formazione e sostegno psicologico dopo la scarcerazione e successivo monitoraggio di elementi radicalizzati dei quali si teme possano continuare a rappresentare una minaccia.

Come è agevole constatare, vi è ancora un richiamo agli interventi di sostegno alle persone detenute, ma predomina la necessità preventivo/repressiva, attraverso la creazione di unità specializzate e di “misure speciali”, seguendo il “modello italiano”.

I rischi insiti nella sproporzione della pena

Acuti commentatori hanno riflettuto sulle ripercussioni che l'innalzamento indifferenziato delle pene per i delitti di terrorismo potrà avere in particolare nei confronti di quelli che sono definiti autori “dei reati di contorno”.

Questi commentatori ricordano preliminarmente che, in ragione della intrinseca afflittività di ogni condanna penale e delle sue conseguenze sul piano sanzionatorio, l'estensione a dismisura dell'area dei comportamenti ritenuti criminali dall'ordinamento dovrebbe, in teoria, favorire l'astensione dai suddetti comportamenti, per effetto appunto del timore di incorrere nei rigori della legge. Del pari, va ricordato che, in linea di principio, il coefficiente di deterrenza della pena risulta correlato non solo, ma certamente anche, al suo livello di severità; pertanto, in prima battuta, vi sarebbe ragione di credere che l'estrema severità delle pene – ormai ovunque previste non solo per i veri e propri attentati terroristici, ma anche per le relative attività “di contorno” riconducibili all'interno di una pletora di fattispecie anche marcatamente “preventive” – possa trattenere molti dei potenziali autori dal commetterli. In questo senso, una parte della dottrina ha affermato che “nel settore del diritto penale qui considerato le tendenze iperpenalizzanti di derivazione internazionale e sovranazionale (ma anche, contestualmente, di origine nazionale) orientate innanzitutto ad evitare il rischio di una casuale vittimizzazione dei consociati disvelano opzioni di politica criminale orientate alla produzione di effetti general-preventivi di mera dissuasione; ovvero di scelte repressive incentrate esclusivamente sul binomio dissuasione-neutralizzazione”.

Certamente, non è dato sapere quale sia la percentuale di soggetti che, pur desiderandolo, si astengono dal commettere atti rientranti a vario titolo nel concetto di terrorismo fondamentalista “per timore della pena”. È tuttavia ragionevole ritenere che persino in questo particolarissimo ambito della criminalità, la funzione intimidatrice connessa alle conseguenze penali derivanti dai propri atti possa trattenere alcuni potenziali terroristi dal “passare all'atto”, e soprattutto dal porre in essere quelle condotte “prodromiche” ormai pervicacemente criminalizzate nelle fonti sovranazionali così come, anche al di là delle esigenze di trasposizione di tali fonti, in molti dei Paesi dell'Unione.

Tuttavia, alla luce di una pur non approfondita indagine sia sul profilo sociale, caratteriale e motivazionale dei terroristi islamici ;sia sul tipo e sulle modalità di molte delle condotte da costoro poste in essere, è lecito ritenere che in tale ambito la funzione di prevenzione generale negativa risulti di modesta portata.

Si parla al riguardo dei pro e dei contro della funzione di “intimidazione in concreto” della pena rispetto ai terroristi fondamentalisti, connessa allo spiacevole impatto, sull'autore del reato, della pena effettivamente eseguita; cioè essenzialmente connessa all'esperienza del carcere e della relativa privazione assoluta della libertà, la quale dovrebbe dissuadere quanti vivono questa esperienza dal ripetere gli errori che li hanno portati a varcare la soglia di un istituto di pena.

Gli autori dei “reati di contorno”

Circa il possibile ruolo ascrivibile a tale funzione rispetto agli autori di fatti riconducibili in modo più o meno diretto nell'ambito del terrorismo fondamentalista, occorre distinguere tra gli autori di veri e propri attentati terroristici e gli autori dei “reati di contorno”, puniti attraverso fattispecie penali costruite, nella maggior parte dei casi, in chiave di tutela vieppiù anticipata.

Per altro verso, non si può negare che, specie riguardo ad autori rispetto ai quali la realizzazione di meri “reati di contorno” avvenga in un contesto di radicalizzazione solo iniziale, la concreta esperienza del carcere (unitamente alla prospettiva di doverci soggiornare per un tempo non brevissimo) possa indurre taluni di questi condannati a trasformarsi in collaboratori di giustizia; soggetti, questi, talora capaci a loro volta di favorire la de-radicalizzazione di altri jihadisti.

Come si sa, in Italia assai risalente è la lotta al terrorismo perseguita anche attraverso l'introduzione di misure premiali (allora, per vero, immaginate essenzialmente per autori di reati a carattere “interno”). Questa forma di lotta si è presto imposta come esperienza pilota capace di influenzare significativamente talune legislazioni penali, in un generale contesto europeo ormai aperto alla logica premiale, seppure in modo tuttora alquanto disomogeneo.

Stante l'estrema attenzione della dottrina a tali misure e ai loro molteplici effetti, sono ben noti tutti i possibili vantaggi, ma anche le controindicazioni che esse comportano; controindicazioni concernenti non solo il già ricordato principio di proporzione tra reato e pena (drasticamente compromesso alla luce di condotte post-factum tendenzialmente inidonee ad attenuare la gravità del fatto), ma anche rispetto alla complessiva tenuta del tradizionale sistema di garanzie ;.

È però anche possibile che un soggiorno medio-lungo in carcere, specie se per illeciti privi di reali contenuti offensivi, possa incrementare il rapporto antagonistico tra l'autore e il mondo occidentale, potenziando e rendendo irreversibile il suo processo di radicalizzazione.

In casi siffatti, allora, è giocoforza immaginare che, ove naturalmente il condannato sia uno straniero, la sua uscita dal carcere si accompagni a un provvedimento di espulsione o di allontanamento dal territorio della Stato; mentre per i “non stranieri” la concreta prassi giudiziaria dimostra come sia possibile il ricorso alle misure di prevenzione personali attualmente disciplinate dal codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011).

Quali misure di prevenzione?

Taluni commentatori hanno indicato proprio nelle misure di prevenzione uno dei dispositivi giuridici di avanguardia nel fronteggiare forme di “criminalità sistemica” oggi particolarmente insidiose e allarmanti come il terrorismo.

Secondo tale impostazione, dai decreti finalizzati all'applicazione di tali misure si può trarre una prima interessante profilazione di individui la cui radicalizzazione assume le caratteristiche della pericolosità sociale, rendendo in chiave interpretativa una oggettivizzazione giuridica del concetto stesso di soggetto radicalizzato: si assumono a modello Trib. Bari, III sez. pen. Misure di Prevenzione, decr. 25 gennaio 2017, n. 26 e cfr. decr. 11 aprile 2017, n. 71, confermato da C. App. Bari, IV sez. pen., decr. 4 dicembre 2017, n. 85.

In particolare, con il decreto 11 aprile 2017 del Tribunale di Bari Sez. Mis. Prev. è stata applicata la sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno ad un soggetto ritenuto “portatore” di pericolosità sociale qualificata, segnatamente terroristica, (art. 4, lett. d) d.lgs. 159/2011). Costui, attraverso la “rete”, aveva infatti stretto amicizia con persone che praticavano l'apologia di terrorismo o erano essi stessi jihadisti ed ha condiviso sui social una serie di messaggi, “(…) farneticanti e integralisti, che esaltano la lotta contro il nemico e giustificano gli sgozzamenti”. Il Presidente del Tribunale per le Misure di Prevenzione aveva già disposto, nei confronti del proposto, l'applicazione in via provvisoria e d'urgenza della misura dell'obbligo di soggiorno nel comune di residenza, del ritiro del passaporto e la sospensione di ogni altro documento equipollente valido per l'espatrio. Il Tribunale di Bari, ha previsto che il proposto venisse sottoposto ad un percorso di recupero socio-giuridico-culturale, anche con l'intervento di figure esperte nella mediazione culturale e con il coinvolgimento dell'Università di Bari - Dipartimento di Giurisprudenza, già impegnata nella definizione di programmi di studio sul tema del rapporti tra Stato e religioni.

Tali prescrizioni s'inscrivono nell'ambito del disposto dell'art. 8 d.lgs. 159/2011, secondo comma (Qualora il tribunale disponga l'applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all'articolo 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare) e quinto comma (Inoltre, può imporre tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale).

Già in un precedente contributo su questa Rivista si erano espresse perplessità circa la legittimità costituzionale di questi due commi dell'art. 8, per difetto di determinatezza, in particolare per l'eccessiva discrezionalità che esso affida al tribunale nel disporre l'applicazione di prescrizioni “per ragioni di difesa sociale”.

Tali perplessità sono destinate a rafforzarsi dopo che, con le sentenze n. 24 e n. 25 del 2019, depositate contestualmente lo scorso 27 febbraio, la Corte costituzionale si è pronunciata su questioni attinenti al rapporto tra il principio di legalità e la disciplina legislativa in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali, contenuta oggi nel d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia).

La sentenza n. 24 ha dichiarato illegittima l'applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, e di quelle patrimoniali del sequestro e della confisca, nei confronti delle persone, individuate dall'art. 1 lett. a) d.lgs. 159/2011 (in cui è confluito l'art. 1, n. 1 l. 1423/1956), che «debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi»; la sentenza n. 25 ha invece dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 75, commi 1 e 2, d.lgs. 159/2011 nella parte in cui sanziona penalmente la violazione delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» imposte con la misura personale della sorveglianza speciale.

Le due pronunce, per quanto aventi oggetti differenti, hanno un comune punto di partenza assunto dai rispettivi rimettenti, vale a dire la sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo.

In quella sentenza, la Corte di Strasburgo aveva affermato che la normativa italiana in materia di misure di prevenzione non è conforme ai canoni di legalità, sub specie di precisione, determinatezza e prevedibilità, che la Convenzione e i suoi Protocolli impongono siano rispettati da parte di qualunque limitazione di un diritto convenzionalmente tutelato.

Le due sentenze lasciano presagire che laddove l'art. 8 d.lgs. 159/2011, comma 2, venisse portato al vaglio del giudice delle leggi potrebbe subire la medesima sorte delle norme già dichiarate incostituzionali, di cui sconta il medesimo difetto di precisione, determinatezza e, soprattutto, prevedibilità.

In conclusione

Antigone, nel citato Rapporto, si è mostrato assai critica rispetto a strategie come quelle adottate in Italia, definite “miopi” in quanto “figlie” di un approccio emergenziale in base al quale il tentativo di estirpare la radicalizzazione violenta è attuato attraverso il rifiuto di una prospettiva di cittadinanza ed il mero allontanamento dell'“indesiderato”.

Ancora, secondo Antigone, la mera osservazione di segnali comportamentali o fisici, da un lato, si presta con facilità a fraintendimenti o un'interpretazione stereotipata dei segnali di radicalizzazione violenta. Dall'altro lato, nella pratica l'osservazione sostituisce ogni prospettiva di intervento preventivo fondato su processi educativi di stampo inclusivo che sono ridotti al lumicino.

Data l'esperienza maturata da Antigone sulla questione “carcere” queste considerazioni meritano di essere attentamente valutate.

In questa sede si può solo osservare che il legislatore pare aver rilasciato una delega “in bianco” ad un apparato amministrativo, il DAP, per la risoluzione, o meglio per il contenimento, di un problema tanto gravoso.

Infatti è il DAP che, con le sue circolari, “ha dettato la linea” in tema di trattamento inframurario.

Il legislatore si è limitato ad un intervento di iperpenalizzazione dai contorni del tutto indifferenziati: l'estrema severità delle pene ormai previste non solo per i veri e propri attentati terroristici, ma anche per le relative attività “di contorno” è suscettibile di avere significative ripercussioni sul trattamento carcerario facendo sì che il problema “radicalizzazione” si possa accentuare, anziché risolversi.

Le osservazioni della dottrina sopra richiamate evocano, in chi scrive, i ricordi liceali della disputa tra il grande filosofo Hegel e Schelling, il cui “Assoluto” risulterebbe, per il primo, un appiattimento dei contorni ovvero una «notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere».

Nondimeno la giurisprudenza formatasi in tema di misure di prevenzione è parsa incapace di cogliere l'essenza del problema “radicalizzazione”, adottando soluzioni volte ad imporre in modo forzato percorsi di recupero socio-giuridico-culturale di de-radicalizzazione, che paiono non conformi ai principi enunciati dai giudici europei.

Chi scrive non si arroga certo la pretesa di essere in grado di prospettare soluzioni normative.

Si limita a porsi una domanda: fino a che punto può reggersi un sistema fondato sulla “buona volontà” degli operatori penitenziari impegnati quotidianamente ad affrontare problemi di evidente natura internazionale?

I numeri ben esprimono la vastità del fenomeno: ben 478 soggetti sottoposti a monitoraggio, con tutti i rischi di fraintendimento ben esposti da Antigone.

Eppure è anche grazie allo scrupolo con cui proprio gli operatori penitenziari hanno sin qui operato se l'Italia non ha conosciuto i gravi attentati che hanno sin qui squassato tutto il contesto mondiale.

Guida all'approfondimento

G. DI ROSA, Le specificità del trattamento esecutivo in ambito penitenziario ed extrapenitenziario, Scuola Superiore della Magistratura, Corso cod./18025 - La lotta al terrorismo nella prospettiva europea: tra prevenzione e repressione, Roma, 25.10.2018;

A. BERNARDI, Lotta senza quartiere al terrorismo fondamentalista in Europa: riflessi sulle funzioni della pena, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.3, 1 settembre 2018, pag. 1049;

F. MARONE, La radicalizzazione jihadista in carcere: un rischio anche per l'Italia, 7 marzo 2019 in ispionline.it;

L.S. MARTUCCI, Radicalizzati jihadisti: profilazione e deradicalizzazione Constitution-compliant, in statoechiese.it, n. 8 del 2019;

F. BRIZZI, C.M. PELLICANO, Terrorismo e misure di prevenzione, la tempesta perfetta?, in ilPenalista, focus del 26 gennaio 2018;

E. TORRENTE, “La radicalizzazione nelle carceri europee: i risultati dello European Prison Observatory”, in XV rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione: “Il carcere secondo la Costituzione”, maggio 2019.

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