Dichiarazione di incostituzionalità in materia di misure di prevenzione: conseguenze sui procedimenti pendenti

Cristina Ingrao
17 Luglio 2019

La questione oggetto della decisione in commento attiene alla complessa materia delle misure di prevenzione, disciplinata dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. 159/2011), e alla incidenza in tale materia di una decisione...
Massima

A seguito della pronuncia n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale, il regime delle misure di prevenzione applicabili ai c.d. pericolosi generici è completamente mutato. Invero, non solo risultano non più applicabili le misure di prevenzione ai soggetti di cui alla lett. a) dell'art. 1, comma 1, d.lgs. 159/2011, ma anche per coloro per i quali continuano ad essere previste le suddette misure, perché abitualmente dediti a delitti produttivi di profitti (ex art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs. 159/2011), i presupposti applicativi devono ritenersi mutati in forza della stessa pronuncia della Corte Costituzionale, dovendo consistere in: a) delitti commessi abitualmente dal soggetto; b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui; c) i quali a loro volta costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l'unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Il caso

La vicenda in esame trae origine da un decreto emesso nell'ottobre 2017 dalla Corte di Appello di Lecce, in sede di prevenzione personale e patrimoniale, che accoglieva parzialmente gli appelli proposti dagli imputati C.L. (deceduto), C.G., M.D., C.D. e L.P.V., con restituzione agli appellanti di taluni beni oggetto di confisca in primo grado. Il decreto di confisca, emesso in primo grado (del gennaio 2016), veniva confermato nel resto.

Più specificamente, la parte confermativa del suddetto decreto, prevedeva che:

  • nei confronti di C.G. (essendo l'altro soggetto destinatario della misura personale deceduto) veniva confermata anche la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con divieto di soggiorno in Martina Franca per tre anni;
  • l'inquadramento soggettivo delle persone portatrici di pericolosità c.d. semplice era stato effettuato in riferimento a quanto previsto dall'art. 1, comma 1, lett. a), del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. 159 del 2011), essendosi ritenuti i due C. soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi e dall'art. 1, comma 1, lett. b), in quanto il provento dei reati commessi sarebbe stato destinato alle esigenze di vita. Venivano valorizzate le risultanze istruttorie contenute in due titoli cautelari emessi in sede penale, nel 2014 e nel 2015, e relative a plurime condotte di usura ed estorsione, consumate nel corso degli anni antecedenti;
  • infine, veniva confermato il giudizio di sproporzione reddituale e la riconducibilità di fatto degli investimenti ai soggetti portatori di pericolosità.

Avverso detto decreto gli imputati proponevano ricorso per cassazione con una pluralità di motivi. In particolare, veniva contestata:

  • l'erronea applicazione delle previsioni regolatrici;
  • l'assenza di motivazione su punti decisivi;
  • il contrasto delle previsioni di legge applicate con taluni diritti fondamentali previsti nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e nella Costituzione.

Negli atti di ricorso e nelle successive memorie si rappresentava la pendenza di incidente di legittimità costituzionale relativo alla disciplina di cui all'art. 1 del d.lgs.159/2011 citato e si chiedeva di sollevare un nuovo incidente di costituzionalità.

La questione

La questione oggetto della decisione in commento attiene alla complessa materia delle misure di prevenzione, oggi disciplinata dal Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia (d.lgs. 159/2011), e alla incidenza in tale materia di una decisione di illegittimità costituzionale che ha riguardato la disciplina prevista proprio dall'art. 1 del suddetto Codice.

Più specificamente, il giudice delle leggi non ha ritenuto conforme alla Costituzione la previsione della categoria di pericolosità di cui all'art. 1,comma 1, lett. a), del codice antimafia (coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi), espungendo la disposizione di legge dall'ordinamento vigente, in virtù di un forte deficit di tassatività descrittiva, e facendo salva, invece, in via interpretativa, la previsione di cui alla lett. b) della stessa norma (coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose), ritenendola sufficientemente tassativa, e, come tale, non in contrasto con i principi costituzionali. In forza di ciò ci si chiede: come opera tale dichiarazione di incostituzionalità in relazione al caso in esame? Inoltre, che incidenza ha l'accoglimento di suddetta questione sugli altri procedimenti pendenti simili?

Le soluzioni giuridiche

Con riguardo al caso sottoposto alla nostra attenzione, la Corte di Cassazione annulla con rinvio la decisione impugnata; per giungere a tale soluzione procede dando atto preliminarmente di due circostanze essenziali:

  • la prima è rappresentata dal fatto che in sede di merito si è fatta applicazione, quanto all'inquadramento soggettivo dei proposti in una delle categorie tipizzate di pericolosità, anche della disposizione di legge di cui all'art.1, lett. a), del codice antimafia, essendosi ritenuta l'attività di usura un traffico delittuoso cui erano dediti due degli imputati;
  • la seconda circostanza, invece, consiste nell'adozione da parte della Corte Costituzionale della sentenza n. 24 del 2019, i cui contenuti, secondo la giurisprudenza (così, Cass. pen., Sez. Unite, n. 33040 del 2015; Cass. pen., Sez. VI, n. 14995 del 2014) devono essere oggetto di valutazione anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 609, comma2, c.p.p.

La sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale. Con la decisione n. 24 del 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato:

  • l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della l.del 27 dicembre 1956, n. 1423, recante Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, nel testo vigente sino all'entrata in vigore del d.lgs. 159 del 2011, nella parte in cui consente l'applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza anche ai soggetti indicati nel n. 1);
  • l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 della l.152 del 22 maggio 1975, recante Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, nel testo vigente sino all'entrata in vigore del citato d.lgs. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall'art. 2 terdella l. 31 maggio 1965, n. 575 (recante Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell'art. 1, n. 1), della l. 1423 del 1956;
  • l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, lett. c), del d.lgs. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell'art. 1, lett. a).
  • Infine, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 del suddetto d.lgs. del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli artt. 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell'art. 1, comma 1, lett. a).

Il giudice delle leggi non ha, quindi, ritenuto conforme alla Costituzione la previsione della categoria di pericolosità di cui all'art. 1,comma 1, lett. a),codice antimafia (coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi) espungendo la disposizione di legge dall'ordinamento vigente, perché carente di tassatività descrittiva. Secondo la Corte Costituzionale, infatti, «la descrizione normativa in questione non soddisfa le esigenze di precisione imposte dall'art. 13 Cost., in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., e dall'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno; né quelle imposte dall'art. 42 Cost. e, in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., dall'art. 1 del Prot. add. CEDU, per quanto riguarda le misure patrimoniali del sequestro e della confisca».

Da questa soluzione, che salda i principi espressi in Costituzione, diretti a considerare il settore delle misure di prevenzione come coperto da garanzie costituzionali proprie (in quanto misure aventi finalità special-preventive, ma incidenti su diritti costituzionalmente protetti), e quelli contenuti nella CEDU, in tema di qualità della legge e prevedibilità ove la stessa consenta la limitazione di diritti fondamentali, deriva, quale importante conseguenza, l'inapplicabilità della disposizione dichiarata incostituzionale anche ai procedimenti in corso, ai sensi dell'art. 30, comma3,l.87 del 1953, in forza del quale le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Le conseguenze della sentenza della corte costituzionale in relazione al caso di specie. Dalle illustrate censure mosse dalla Corte Costituzionale deriva, con riguardo al caso di specie, la preclusione di mantenere in essere la decisione impugnata, che della disposizione dell'art. 1,comma 1, lett. a), codiceantimafia ha fatto applicazione, in quanto, in caso contrario, si finirebbe per consolidare un provvedimento contrastante con le disposizioni costituzionali.

Le ragioni della conformità costituzionale dell'art. 1, lett. b), del d.lgs. 159 del 2011. A fronte di quanto detto fino a qui, occorre, tuttavia, osservare che la decisione della Corte Costituzionale, nel sottoporre a scrutinio le disposizioni di cui alle lettere a) e b) del Codice Antimafia, ha, allo stesso tempo, ritenuto che la disposizione di cui alla lett. b), per come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità più recente (antecedente e successiva alla nota decisione della Corte Edu De Tommaso contro Italia, volta ad attribuire alla disposizione maggiore tassatività descrittiva), non sia in contrasto con i principi costituzionali, mantenendone la vigenza.

La lettura convenzionalmente orientata parte dal presupposto metodologico secondo cui la fase prognostica, relativa alla probabilità che il soggetto delinqua in futuro, è necessariamente preceduta da una fase diagnostico-constatativa, nella quale vengono accertati gli elementi costitutivi delle cc.dd. "fattispecie di pericolosità generica", attraverso un apprezzamento di «fatti», costituenti a loro volta «indicatori» della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (Così, Cass. pen., Sez. I,n. 24707 del2018; Cass. pen., Sez.II, n. 26235del2015; Cass. pen., Sez.I, n. 31209 del 2015).

Con riferimento, nello specifico, alle fattispecie di pericolosità generica, disciplinate oggi dall'art. 1, lett. a) e b), cod. antimafia, i loro elementi costitutivi sono stati dalla Corte di Cassazione precisati nei termini seguenti:

  • l'aggettivo «delittuoso» viene letto nel senso che l'attività del proposto debba caratterizzarsi in termini di "delitto" e non di un qualsiasi illecito (così, Cass. pen., Sez.I, n. 43826 del 2018; Cass. pen., Sez.II, n. 16348 del 2012);
  • l'avverbio «abitualmente», invece, viene letto nel senso di richiedere una «realizzazione di attività delittuose non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto», in modo che si possa «attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate» (Cass. pen., Sez.I, n. 349 del 2018), talora richiedendosi che esse connotino «in modo significativo lo stile di vita del soggetto, che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi» (Cass. pen., Sez.II, n. 11846 del 2018);
  • con riguardo ai «proventi» di attività delittuose, di cui alla lett. b) della disposizione censurata, si richiede la «realizzazione di attività delittuose che siano produttive di reddito illecito» e dalle quale sia scaturita un'effettiva derivazione di profitti illeciti (Cass. pen., n. 31209 del 2015).

Nell'ambito di questa interpretazione “tassativizzante” la Corte di Cassazione - in sede di interpretazione del requisito normativo degli «elementi di fatto», ex lett. a) e b) art. 1 d.lgs. 159 del 2011, su cui l'applicazione della misura deve basarsi – fa, infine, confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal presupposto che il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via autonoma gli episodi storici in questione, mancando la pregiudizialità e sussistendo la possibilità di azione autonoma di prevenzione (Cass. pen.,n. 43826 del 2018), è stato precisato che i “meri indizi” sono insufficienti, perché la locuzione utilizzata va considerata in senso più rigoroso di quella utilizzata dall'art. 4 del d.lgs. 159 del 2011 per l'individuazione delle categorie di c.d. “pericolosità qualificata”, dove si parla di «indiziati» (Cass. pen., n. 43826 del 2018 e Cass. pen.,n. 53003 del 2017); che, salvo alcune ipotesi eccezionali, l'esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce che esso possa essere assunto a fondamento della misura (Cass. pen.,n. 43826 del 2018); che, infine, occorre un pregresso accertamento in sede penale che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Cass. pen., n. 11846 del 2018, Cass. pen.,n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015).

Secondo la Suprema Corte, tali parametri interpretativi orientano la decisione del giudice delle leggi verso l'accertamento di conformità della previsione di cui al citato art. 1, comma 1, lett. b) ai valori imposti dalle superiori norme regolatrici. In particolare, quando si versi, come nelle questioni in esame, fuori della materia penale, non può escludersi del tutto che l'esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell'interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative caratterizzate dall'uso di clausole generali o comunque da formule imprecise. Quello che conta è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l'applicazione della misura stessa (Così, Corte EDU, Sez. V, sentenza del 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte EDU, Sez. I, sentenza del 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia).

Nell'esaminare, pertanto, se la giurisprudenza della Corte di Cassazione citata sia riuscita nell'intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta dai parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie normative in parola, occorre innanzitutto eliminare ogni sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di c.d. tassatività processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità al metro dei parametri sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova; il secondo attiene, invece, alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è pertanto riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali (come il diritto di difesa, exart. 24 Cost., e il diritto a un "giusto processo", ai sensi dell'art. 111 Cost. e dall'art. 6 CEDU), i quali, seppur importanti al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità in esame.

Non sono, dunque, pertinenti, in relazione al caso interessato, gli sforzi della giurisprudenza di selezionare i cc.dd. «elementi di fatto», suscettibili di essere utilizzati come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle "fattispecie di pericolosità generica", descritti dalle disposizioni censurate; requisiti consistenti, relativamente alle ipotesi di cui alla lett. a) dell'art. 1 del d.lgs. 159 del 2011, nell'essere i soggetti proposti abitualmente dediti a traffici delittuosi, e, con riferimento alla lett. b), nel vivere essi abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose.

La Suprema Corte, nella pronuncia in esame, ritiene che, alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza De Tommaso, risulti possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie oggi confluita nell'art. 1,lett.b), d.lgs. 159/2011, così da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente i «casi» e i «modi» in presenza dei quali potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.

La locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione di specifiche “categorie" di reato. In tal modo è soddisfatta l'esigenza di individuazione dei tipi di comportamento assunti a presupposto della misura.

Le "categorie di delitto" che possono essere assunte a presupposto della misura sono suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie in virtù del triplice requisito per cui deve trattarsi di:

a) delitti commessi abitualmente dal soggetto; b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui; c) i quali a loro volta costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l'unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Tali requisiti dovranno essere provati sulla base di precisi «elementi di fatto» e indicati nella motivazione. Inoltre, ai fini dell'applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, sarà necessaria anche la valutazione dell'effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, exart. 6, comma 1,d.lgs. 159 del 2011. Quanto, invece, alle misure patrimoniali del sequestro e della confisca, i requisiti enucleati dovranno essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l'illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare. Posto che, secondo quanto affermato dalle SU, la necessità della correlazione temporale in parola «discende dall'apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Cass. pen., Sez. Unite, n. 4880 del 2015), l'ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità congruente rispetto al valore dei beni che s'intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare.

La decisione “interpretativa di rigetto” della Corte Costituzionale. Secondo la Suprema Corte, dall'analisi delle predette argomentazioni formulate dalla Corte Costituzionale deriva che la tipologia di decisione emessa, quanto ai contenuti della previsione di legge di cui all'art. 1,comma 1, lett. b),d.lgs. 159 del 2011, è c.d. interpretativa di rigetto. Si tratta di quella tipologia di decisioni che, al fine di comporre il contrasto tra norme di legge ordinaria e il contenuto delle norme costituzionali, individuano il percorso interpretativo idoneo ad evitare la demolizione delle prime.

In relazione al caso di specie, tale percorso interpretativo è stato riconosciuto in quello già espresso in alcune pronunce della stessa Corte di legittimità, che hanno consentito alla Corte Costituzionale di superare i dubbi sollevati in sede sovranazionale nella decisione della Corte Edu De Tommaso c. Italia. Nel tempo, infatti, si è stabilizzata una lettura della disposizione che, attraverso il recupero di connotati di tassatività, assicura la predeterminazione legale dei 'tipi di comportamento' assunti a presupposto delle misure personali e patrimoniali. In tal modo si attribuisce valore di orientamento ai contenuti della decisione, nel senso che eventuali «deroghe» dalla suddetta linea interpretativa delle parole utilizzate dal legislatore porrebbero il caso concreto fuori dall'attuale confine dell'interpretazione maggioritaria e dal perimetro di legalità costituzionale e convenzionale.

Sul tema del valore ermeneutico delle decisioni interpretative di rigetto non vi sono ragioni, secondo la Suprema Corte, per discostarsi dall'insegnamento fornito dalle SU nella sentenza n. 25 del 1998, secondo cui sussiste il dovere del giudice comune di uniformare l'interpretazione di una disposizione ai contenuti di simile decisione della Corte Costituzionale, salva l'emersione di validi motivi contrari, di cui occorre fornire una puntuale e rafforzata spiegazione.

Quanto ai limiti e alla natura di questo vincolo, sempre in tale sentenza si legge che la categoria delle sentenze cc.dd. interpretative di rigetto rappresenta un tertium genus tra quelle di accoglimento e di semplice rigetto. Tale categoria è stata introdotta dalla giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale a partire dalle decisioni n. 8 del 1956, n. 1 del 1957 e n. 11 del 1965, a cui ha fatto seguito una notevole giurisprudenza costituzionale, che ha sviluppato e definito principi e regole valide per la fissazione di alcuni precetti di carattere generale.

Ciò premesso, circa il significato delle sentenze "interpretative di rigetto" si è specificato che possono essere emanate sentenze di rigetto "nel senso di cui in motivazione", e cioè pronunce fondate sulla premessa secondo la quale ogni disposizione legislativa deve essere interpretata «al fine di accertarne la legittimità costituzionale nell'attuale sistema nel quale vive»; posto che «lo stabilire quale sia il contenuto delle norme impugnate appartiene al giudizio della Corte non meno della comparazione che ne consegue fra la norma interpretata e la norma costituzionale, l'una e l'altra essendo parti inscindibili di un giudizio che è propriamente suo» (in tale senso, le sentenze della Corte Costituzionale richiamate n. 8 del 1956 e n. 11 del 1965).

In generale si è ritenuto che non si debba trattare di risoluzioni che possano contrastare con il c.d. "diritto vivente", inteso come le interpretazioni giurisprudenziali prevalenti o consolidate. In tali ipotesi, infatti, la stessa Corte Costituzionale adegua la sua funzione interpretatrice. Esistono molte decisioni costituzionali, infatti, con le quali la Corte si è adeguata ad un "diritto vivente". Ovviamente questa autolimitazione della Corte Costituzionale non può sempre funzionare, «avendo la Corte la funzione di porre a confronto la norma, nel significato ad essa attribuito, con le disposizioni della Costituzione, per rilevarne eventuali contrasti e trarne le conseguenze sul piano costituzionale» (Così, Corte cost. sentenza n. 129 del 1975). Ciò significa che il vincolo del "diritto vivente" non va inteso nel senso di subordinazione della interpretazione del giudice delle leggi alla interpretazione giudiziaria; ma che, al contrario, la consuetudine interpretativa uniforme rappresenta un sostegno alla valutazione effettuata dalla Corte Costituzionale. E questo in quanto, a fronte della separazione dei due sistemi normativi (ordinario e costituzionale), la Corte Costituzionale ha adottato il criterio del collegamento c.d. intersistemico, in virtù del quale in ciascuno dei due sistemi normativi devono essere presenti le regole costituzionali ed ordinarie; con la conseguenza che la norma impugnata può essere dichiarata illegittima anche in forza di una ricostruzione non coincidente con quella prospettata nell'ordinanza di rinvio o che la questione può essere dichiarata infondata in base ad una interpretazione non considerata dall'autorità denunziante. Da qui deriva che il giudice delle leggi, in casi simili, non pronuncia direttamente la dichiarazione di incostituzionalità, ma preferisce una decisione che salvi l'esistenza della norma a condizione che alla stessa venga attribuito un significato che sia non incompatibile con il parametro costituzionale. Ma, ove la giurisprudenza della Corte di Cassazione non si sia ancora consolidata o esista contrasto di decisioni, la Corte Costituzionale riacquista la sua completa autonomia interpretativa.

Nel primo caso la dottrina parla di decisioni "correttive", mentre, nella seconda ipotesi, in cui viene disattesa la interpretazione fornita dal giudice remittente, le decisioni vengono definite "adeguatrici", nel senso che le stesse mirano a far valere i principi costituzionali sulla base di un sindacato di legittimità rivolto alla norma, per renderla "non incompatibile" con le norme della Costituzione.

L'adozione del criterio della "non incompatibilità" appare il più idoneo per la formula del rigetto, soprattutto in relazione al principio che la decisione deve intendersi "nel senso di cui in motivazione" e spiega le ragioni quanto agli effetti della stessa decisione nei confronti del giudice remittente, e, per certi versi, nei confronti di tutti gli altri procedimenti similari.

Sul punto occorre ricordare l'importante decisione delle Sez. Unite del 13 dicembre del 1995, che ha fissato alcuni importanti principi in materia. Innanzitutto ha affermato che le sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale non sono efficaci erga omnes e che, pertanto, le stesse assumono il valore di mero precedente; che il giudice può discostarsi dalla interpretazione fornita dalla Corte e sollevare anche una nuova questione di legittimità della stessa disposizione per le stesse ragioni già dalla Corte disattese; che, però, la sentenza interpretativa di rigetto determina nel giudizio a quo il sorgere di una preclusione endoprocessuale. Tale vincolo deriva dal carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale e dal nesso di necessaria pregiudizialità che lo lega a quello principale, con la conseguenza che la stessa questione non può essere riproposta nello stesso giudizio, né nello stesso grado, né in quelli successivi; che, infine, lo stesso giudice ordinario non può attribuire alla norma di legge denunciata una portata esegetica ritenuta non giusta dalla Corte Costituzionale.

A fronte di quanto detto, sono, tuttavia, necessarie, secondo la Suprema Corte, alcune precisazioni. In primo luogo, poiché le sentenze di rigetto, come chiarito, non hanno per loro natura efficacia erga omnes e poiché la eccezione di illegittimità è stata respinta sulla base della motivazione adottata con il criterio della "non incompatibilità della soluzione con i principi costituzionali", ne deriva che lo stesso giudice remittente, anche se obbligato a quella interpretazione, può comunque procedere ad una ulteriore soluzione interpretativa, con il solo limite di non concludere nel senso escluso dalla Corte Costituzionale; ma sempre sulla base di una valutazione che comunque sia compatibile con le norme costituzionali. Tuttavia, nel caso in cui, dalla motivazione della decisione della Corte Costituzionale, appaia evidente che la soluzione adottata sia l'unica compatibile, essendo state scartate tutte le altre possibili soluzioni, è chiaro che la sentenza di rigetto, pur se interpretativa, non consente al giudice remittente alcuna possibilità di sollevare altre eccezioni di illegittimità costituzionale, essendo vincolato integralmente alla decisione adottata. Da queste considerazioni deriva che esistono vincoli positivi della sentenza di rigetto interpretativa in relazione al procedimento che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità, nel senso che il giudice a quo può essere tenuto a fare applicazione della disposizione nei termini posti a base della decisione costituzionale senza altra facoltà. In caso contrario, una eventuale nuova eccezione di illegittimità costituzionale condurrebbe necessariamente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma.

Con riguardo agli altri giudizi, invece, si afferma che non esiste alcun effetto vincolante della decisione di rigetto interpretativa del giudice delle leggi. Tale conclusione, sebbene corretta nella sua premessa generale, richiede dei chiarimenti e dei correttivi.

Per fare ciò, occorre, in primo luogo, rammentare la distinzione tra disposizione e norma, necessaria per affermare che le sentenze interpretative di rigetto, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, non fanno riferimento alla sola disposizione indicata nella ordinanza o nel ricorso sospettati di illegittimità, ma si riferiscono anche a norme diverse ma comunque, a giudizio della Corte, deducibili dalle predette disposizioni, laddove sia possibile da quest'ultime ricavare norme diverse, ma costituzionalmente legittime, secondo una valutazione che compete a tale organo, il quale deve operare una interpretazione delle regole della legislazione ordinaria, ma soprattutto una valutazione dei precetti costituzionali ritenuti come valido criterio di paragone. Tale attività, svolta dalla Corte Costituzionale nell'esercizio del suo compito di sindacato di costituzionalità degli atti legislativi, pone la stessa in posizione di vertice, pertanto, il giudice ordinario non può semplicemente essere di contrario avviso, ma ha l'obbligo, anche giuridico, di spiegare adeguatamente le ragioni per le quali dissente da quella soluzione. Questo principio è ricavabile dalla prassi secondo la quale il giudice ordinario, ove ritenga di non aderire alla decisione costituzionale, è tenuto a sollevare ancora nuova questione di legittimità. Dal canto suo, la Corte Costituzionale, nel caso in cui non vengano addotte questioni nuove o prospettazioni originali, usa decidere con ordinanza dichiarativa di inammissibilità per manifesta infondatezza.

Alla luce di quanto detto, secondo la Suprema Corte, è evidente che non può disconoscersi l'efficacia di "precedente" alle decisioni di rigetto e l'influenza di dette pronunce nei confronti dei giudici comuni, i quali, in mancanza di validi motivi, devono uniformarsi alla sentenza, che finisce per assumere la figura di una "doppia pronuncia", nel senso che contiene una duplice affermazione: da un lato, l'atto, proprio perché espressione di un principio proveniente dalla Corte Costituzionale, è costituzionalmente legittimo e, dall'altro, che, nella diversa interpretazione del giudice a quo, lo stesso non è conforme a Costituzione.

Sebbene, infatti, non si tratti di vincolo giuridico, è, però, innegabile il valore persuasivo di tale pronuncia, costituendo un precedente autorevole, nonché il risultato di una interpretazione sistematica in funzione adeguatrice proveniente dall'organo più qualificato in tema di interpretazione costituzionale. A ciò si aggiunga, poi, che, in tali sentenze, la motivazione non rappresenta solo il motivo della decisione, ma diviene elemento costitutivo della stessa che, con diversa motivazione, avrebbe avuto esito diverso. Che un tale vincolo sia in effetti esistente, deriva, infine, dalla considerazione che, secondo la prevalente dottrina e la più recente giurisprudenza, tutti i giudici sono tenuti a non fare applicazione delle disposizioni in un senso diverso da quello affermato dalla Corte Costituzionale senza aver prima sollevato questione di legittimità costituzionale.

Da quanto detto, deriva che, sul fronte interpretativo, le coordinate espresse nei recenti arresti della Suprema Corte sul tema della piena «tassatività» delle previsioni di legge che descrivono i connotati delle fattispecie di pericolosità rappresentano, secondo il collegio impegnato nella decisione in esame, un limite nella applicazione concreta degli istituti, il cui superamento determina l'annullamento delle decisioni di merito.

Ciò premesso, secondo i giudici, appare evidente che nel caso in esame la rielaborazione dei connotati fattuali posti a base del giudizio di pericolosità prevenzionale non può essere realizzata in sede di legittimità. E ciò non soltanto perché la trattazione camerale del procedimento di prevenzione non consente la realizzazione del contraddittorio, passaggio necessario di qualsiasi operazione di diversa qualificazione giuridica della parte constatativa del giudizio di pericolosità (così, Cass. pen., Sez. VI n. 3716 2015; Cass. pen., Sez. VI, n. 41767 del 2017), ma anche perché l'eventuale inquadramento nella fattispecie di cui alla citata lett. b) dell'art., 1 comma 1,d.lgs.159 del 2011 esige, per quanto detto, una piena verifica di coerenza logica e di esistenza di tutti i passaggi esplicativi di quella 'opzione tassativizzante' elaborata in sede di legittimità e recepita dalla Corte Costituzionale.

In altre parole, l'operazione di riqualificazione della fattispecie di pericolosità, pur rispettosa del dictum del giudice delle leggi, risulta possibile, una volta riaperto il contraddittorio, se ed in quanto i materiali istruttori offrano la possibilità di ritenere e qualificare le pregresse condotte delittuose non solo temporalmente sequenziali in modo significativo, ma anche produttive di reddito illecito utilizzato, almeno in parte, per il soddisfacimento dei bisogni primari del soggetto e il mantenimento del tenore di vita. Si tratta, pertanto, di attività di verifica che involgono profili di merito pieno, da rimettere al vaglio della Corte di Appello competente, in sede di rinvio, quale giudice di merito.

Osservazioni

Nella complessa sentenza in esame, la Corte di Cassazione, dopo aver ricostruito il percorso argomentativo seguito dalla Corte Costituzionale per dichiarare l'illegittimità costituzionale dall'art. 1, comma 1, lett. a) d.lgs. 159/2011 e, al contrario, la legittimità costituzionale della lett. b) della stessa disposizione, avvenuta in forza di una interpretazione “tassativizzante” della stessa, correttamente conclude nel senso di escludere il mantenimento in essere della decisione impugnata, che della prima delle due disposizioni ha fatto applicazione, perché, in caso contrario, si consoliderebbe un provvedimento contrastante con le disposizioni costituzionali.

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