Danno cagionato a terzi da reato del proprio dipendente, commesso per fini egoistici e non istituzionali: la rc si estende comunque alla P.A. di appartenenza

Ilvio Pannullo
30 Luglio 2019

La responsabilità del danno cagionato a terzi dal pubblico dipendente che commette un reato per realizzare un fine personale può essere estesa alla PA di appartenenza?
Massima

Lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa - e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi - non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo.

Il caso

Tizio agiva in giudizio chiedendo la condanna di Caio e del Ministero della Giustizia (di qui, “PA”) al risarcimento del danno a lui derivato dal comportamento illecito di Caio il quale, cancelliere di Tribunale, si era appropriato di somme versate su libretti di deposito da lui custoditi per ragioni di Ufficio, precisando che Caio era stato condannato per peculato.

La PA si costituiva chiedendo il rigetto della domanda, Caio rimaneva contumace, e il Tribunale, ritenendo sussistenti i presupposti ex art. 28 Cost. per l'estensione della responsabilità civile alla PA, condannava il Ministero.

Avverso detta sentenza la PA proponeva appello lamentando l'omessa condanna di Caio, autore materiale dell'illecito, e l'estensione della responsabilità, avendo Caio agito al solo fine di procurare a se stesso un vantaggio illecito.

La Corte distrettuale rigettava il primo motivo e accoglieva il secondo, riformando la sentenza di primo grado con conseguente rigetto della domanda attorea e condanna di Tizio al pagamento delle spese di giudizio.

Avverso detta sentenza Tizio proponeva ricorso per Cassazione e la PA resisteva con atto di costituzione in giudizio. La Suprema Corte, ritenuta la questione oggetto di giurisprudenza non univoca, rimetteva alle Sezioni Unite (di qui, “SS.UU.”) il quesito circa la sussistenza o meno della responsabilità civile della PA per fatto illecito del proprio dipendente, qualora questo, profittando delle sue precipue funzioni, commetta un illecito per finalità esclusivamente personali. Il punto è il seguente: la responsabilità del danno cagionato a terzi dal pubblico dipendente che commette un reato per realizzare un fine personale può essere estesa alla PA di appartenenza?

La questione

Il punto è il seguente: la responsabilità del danno cagionato a terzi dal pubblico dipendente che commette un reato per realizzare un fine personale può essere estesa alla PA di appartenenza?

Le soluzioni giuridiche

Oggetto della sentenza in commento è la questione inerente alla sussistenza o meno della responsabilità civile della PA per i fatti illeciti del proprio dipendente, qualora questo, profittando delle proprie funzioni, commetta un illecito penale per finalità esclusivamente personali.

La sentenza delle SS.UU. prende le mosse dall'ordinanza di rimessione che aveva individuato i diversi orientamenti sul punto, peraltro emersi sia nelle opposte sentenze di merito sia negli atti processuali portati all'attenzione del Giudice di legittimità.

Da una parte, infatti, il Tribunale ritiene sussistenti i presupposti per l'estensione alla PA della responsabilità del danno cagionato a Tizio dal comportamento penalmente rilevante di Caio, proprio dipendente, dall'altra, la Corte d'Appello -richiamando l'orientamento tradizionale- riforma la sentenza impugnata giudicando necessaria per l'estensione la sussistenza, oltreché del nesso di causalità fra comportamento ed evento lesivo, anche della riferibilità alla PA del comportamento stesso, la quale presuppone che il comportamento lesivo del dipendente si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico, ossia tenda al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'Ufficio a cui il dipendente è addetto.

Le SS.UU., dopo aver ripercorso l'evoluzione dottrinale dell'art. 28 Cost., analizzano le due tesi contrapposte, avendo cura di contestualizzarle alla luce delle diverse pronunce emerse negli anni in ambito sia penale che civile, oltre a richiamare i principali arresti del Giudice delle leggi e l'orientamento della giurisprudenza amministrativa sul punto.

In particolare, per quanto attiene alla tesi tradizionale, a mente della quale la riferibilità del comportamento dannoso alla PA -presupposto per l'estensione della responsabilità- viene meno quando il dipendente agisca come privato per un fine strettamente egoistico che si rilevi estraneo alla PA stessa, rilevano il possibile contrasto con la ratio sottesa all'art. 28 Cost. ossia la garanzia di un più agevole conseguimento del risarcimento del danno da parte del privato, con la conseguenza di sbilanciarne evidentemente gli effetti ad esclusivo favore della PA.

Per quanto attiene, invece, la diversa tesi emergente in ambito penale -a mente della quale è configurabile la responsabilità civile della PA anche per le condotte dei dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di reati, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, costituendo un non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni- le SS.UU. tracciano un'interpretazione sistematica capace di comporre la disomogeneità tra i due orientamenti emersi nella giurisprudenza delle Sezioni semplici: da una parte, la prima, per cui, in forza di criteri pubblicistici, la responsabilità degli enti pubblici per il fatto illecito dei propri dipendenti è diretta e sussiste esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali; dall'altra, la seconda, per cui, in forza di criteri privatistici, la responsabilità degli enti pubblici sussiste in applicazione di schemi essenzialmente corrispondenti a quelli ex art. 2049 c.c. salva la presenza di un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.

Giudicando infatti che, nell'odierno contesto socio-economico, nulla più giustifica un trattamento differenziato dell'attività degli enti pubblici quando non sia connotata dall'esercizio di poteri pubblicistici, le SS.UU. affermano che la concorrente responsabilità della PA e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori delle finalità istituzionali deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune e, segnatamente, le regole in materia di responsabilità del preponente.

Osservazioni

La sentenza in commento è particolarmente degna di nota per l'articolata e pregevolissima motivazione a sostegno del principio di diritto posto a chiarimento dell'articolato contrasto giurisprudenziale oggetto di approfondimento.

Se il Rimettente, infatti, muovendo il ragionamento da tutti i parallelismi individuabili nelle diverse ipotesi di responsabilità conosciute in casi analoghi e, specialmente, nei rapporti di preposizione privatistici, aveva addirittura dubitato dell'esistenza di un effettivo insanabile contrasto, le SS.UU., con la sentenza in esame, riducono ad unità gli opposti orientamenti, entrambi capaci di esprimere un'attitudine “carsica” emergendo e riemergendo nel corso dei decenni, probabilmente perché espressione di un diversa visione del rapporto tra pubblica amministrazione e privati cittadini.

Difatti, da un lato, gli opposti orientamenti costantemente interpretano la responsabilità ex art. 28 Cost. come una responsabilità diretta della PA, dall'altra, se la configurano solo nel caso di attività strumentalmente connessa all'attività dell'Ufficio cui è assegnato il dipendente, in realtà non la escludono in caso di condotte illecite o illegittime, purché l'azione si innesti nell'attività dell'ente e sia anche solo indirettamente collegabile alle sue attribuzioni, non potendosi così connotare dal carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime.

Per superare dunque la rigida alternatività fra criteri di imputazioni pubblicistico-diretto e privatistico-indiretto, il pregevole ragionamento dell'Organo intestatario della funzione nomofilattica muove dall'evoluzione della ricostruzione dogmatica dell'estensione ex art. 28 Cost. della responsabilità civile alla PA per i fatti dannosi dei propri dipendenti: superate le prime tesi sulla natura sussidiaria, s'impone, infatti, tanto in dottrina quanto nella stessa giurisprudenza costituzionale, la natura concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruendosi quella della PA come diretta, in forza dei principi sull'immedesimazione organica.

Di qui, la motivazione si arricchisce dell'utile confronto con la consolidata giurisprudenza amministrativa a mente della quale è interrotto il rapporto di immedesimazione organica, e dunque l'imputazione giuridica dell'attività e delle sue conseguenze, ogni qualvolta questa sia posta in essere da un Organo al fine di perseguire un interesse personale del tutto avulso dalle finalità dell'ente. In questo senso, il venir meno dell'imputabilità dell'atto alla PA per interruzione del rapporto organico determina la nullità dell'atto stesso per mancanza di uno degli elementi essenziali ex art. 21-septies l. n. 241/1990, escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in essere da una PA nell'esplicazione di un'attività amministrativa.

Nelle trame del percorso argomentativo si intravede, tuttavia, quasi a motivare il senso istintivo di una scelta solo in seguito magistralmente motivata con articolatissimi riferimenti giurisprudenziali, un approccio che si potrebbe definire sociologico.

Il Supremo Collegio, infatti, introduce nel ragionamento la disciplina ex art. 2049 c.c. -e la sua evoluzione dottrinale- della responsabilità dei padroni e committenti, in origine immaginata per economie rudimentali caratterizzate da rapporti di preposizione assai stretti ma, nel corso del tempo, ampliata in forza di un'interpretazione evolutiva diretta a valorizzare i molti casi in cui, nelle economie moderne, alcune figure si avvalgono dell'opera di altri soggetti, non necessariamente in forza di vincoli di subordinazione o di mera dipendenza, per conseguire i propri fini.

Dando conto del superamento dell'originaria configurazione della responsabilità in parola come soggettiva per fatto proprio, identificandosi in una culpa in eligendo o in vigilando, e della sua interpretazione consolidata come di un responsabilità oggettiva per fatto altrui, le SS.UU. rilevano come un simile principio risponda in ultima analisi ad esigenze generali dell'Ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di altri.

In questa prospettiva, emerge, dunque, quale presupposto indefettibile della responsabilità della PA per il fatto dannoso del proprio dipendente, la c.d. occasionalità necessaria, che nell'orientamento tradizionale ricorre quando il dipendente non abbia agito quale privato per fini esclusivamente personali, ponendo invero in essere una condotta ricollegabile, anche solo indirettamente, alle attribuzioni proprie della PA agente. Nel qual caso, tuttavia, le SS.UU. giudicano irrilevante che il dipendente abbia superato il limite delle mansioni affidategli, od abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali, alla condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo avere fondamento giuridico accollare le conseguenze dannose di condotte del preposto quando queste non siano ricollegabili -secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione, da esprimersi alla luce dei noti principi della causalità adeguata- alle ragioni della preposizione.

In sostanza, il Supremo Collegio -implicitamente richiamandosi alla c.d. teoria eclettica della responsabilità ex art. 28 Cost.- ammette la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi: quello della responsabilità diretta in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta per fatto altrui, perché il primo non esclude il secondo e ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della PA posta in essere. Infatti, il comportamento della PA che può dar luogo al risarcimento del danno o si riduce nell'esercizio di un potere pubblicistico ovvero ad una mera attività materiale: se nel primo caso sussiste certamente l'immedesimazione organica e la responsabilità diretta dell'ente, nel secondo caso non vi è più alcun motivo valido per negare l'operatività di un diverso criterio, giacché una diversificazione di trattamento in favore della PA si risolverebbe in un privilegio in palese contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 6 CEDU e l'art. 48 CDFUE, oltre a non essere più giustificabile alla luce della moderna sensibilità giuridica che non ammette più che laddove illeciti sono posti in essere da dipendenti pubblici la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti da privati per mezzo dei loro sottoposti.

Deve pertanto ritenersi fonte di responsabilità per gli enti pubblici il danno determinato dall'azione del proprio dipendente, pur se deviante o contrario rispetto ai fini istituzionali, purché la condotta illecita dannosa non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo.

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