Il caso “Vos Thalassa”: rimpatrio verso un porto non sicuro e legittima difesa

30 Luglio 2019

Il rimpatrio in Libia per delle persone migranti a bordo di una imbarcazione costituisce un pericolo attuale, essendo La Libia un Paese che, alla luce sia dei precedenti che delle norme internazionali vigenti in materia, non può essere considerato porto sicuro (POS – Place of Safety).
Massima

Il rimpatrio in Libia per delle persone migranti a bordo di una imbarcazione costituisce un pericolo attuale, essendo La Libia un Paese che, alla luce sia dei precedenti che delle norme internazionali vigenti in materia, non può essere considerato porto sicuro (POS – Place of Safety).

Nel caso di specie le condotte contestate ai due imputati (resistenza a pubblico ufficiale) sono state scriminate atteso che gli stessi hanno agito a difesa della incolumità propria e di tutti i migranti presenti a bordo, ritenendo dunque sussistente la causa di giustificazione della legittima difesa - in quanto gli stessi hanno agito per salvaguardare dei diritti primari come quello alla vita, alla integrità fisica e all'integrità sessuale.

Il caso

Domenica 8 luglio 2018 la nave Vos Thalassa, addetta alla sorveglianza di una piattaforma petroliera al largo delle coste libiche, vicino al limite delle acque territoriali tunisine, soccorre un barcone con 67 naufraghi a bordo. La centrale operativa della Guardia Costiera di Roma (IMRCC), in assenza di un immediato riscontro da parte della guardia costiera libica, ordinava al comandante della nave di fare rotta verso Lampedusa. In seguito, tuttavia, il comandante riferiva al Comando di Roma, di essere stato contattato dalla Guardia Costiera libica (GCL), che gli ordinava di dirigere l'imbarcazione verso le coste africane, al fine di effettuare il trasbordo dei migranti su una motovedetta libica.

Ricevuta tale comunicazione il comandante della Vos Thalassa si dirigeva a sud verso il punto di incontro indicato dall'autorità libica, sito a circa 15 miglia dalla costa africana, in acque internazionali. Alle ore 23.34, tuttavia, il comandante della Vos Thalassa richiedeva a IMRCC l'immediato invio di una unità militare italiana comunicando una grave situazione di pericolo per l'equipaggio del rimorchiatore il quale sarebbe stato fatto oggetto di minacce e violenze da parte di alcuni dei migranti soccorsi i quali, avendo capito che la Vos Thalassa stava per fare rotta verso la Libia, iniziarono ad agitarsi e a gridare: “no Libia”; temendo, appunto, il verificarsi di tale pericolo. Secondo quanto riferito da alcuni membri dell'equipaggio, i migranti avevano minacciato di tagliare loro la gola se la nave avesse continuato la rotta verso la Libia.

La situazione di pericolo che veniva così rappresentata determinava IMRCC all'invio dell'unità navale “Diciotti” della Guardia Costiera italiana. Il giorno dopo, ossia il 9 luglio 2018 alle ore 21.00 circa, la nave “Diciotti” iniziava il trasbordo dei 67 migranti.

Ai due imputati è stato contestato il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (art. 12, comma 3, d.lgs. 286/1998) e violenza o minaccia a resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336, 337 e 339 c.p.), il processo si è celebrato con le forme del giudizio abbreviato.

La questione

Le azioni compiute dai migranti, che si sarebbero opposti con la minaccia dell'uso della forza al loro rimpatrio in Libia da parte dei pubblici ufficiali a bordo della nave commerciale che li aveva soccorsi, possono essere riconosciute come una causa di giustificazione e, nella specie, quella della legittima difesa?

Le soluzioni giuridiche

Il caso in esame, certamente collegato a un episodio di soccorso in mare, attiene, nello specifico, alla verifica della sussistenza di condotte penalmente rilevanti o, al contrario, alla loro riconducibilità a una causa di giustificazione.

Il Tribunale ha ritenuto sussistente la legittima difesa, che si differenzia dalla scriminante ex art. 54 c.p. (stato di necessità) poiché «in questo caso viene offeso l'aggressore, mentre nello stato di necessità persona offesa è un estraneo». In particolare, osservava il Tribunale che i naufraghi tutti avevano diritto allo sbarco in un luogo sicuro e che «laddove le persone soccorse in mare, oltre che ‘naufraghi', si qualifichino – in termini di status – anche come ‘migranti/rifugiati/richiedenti asilo, soggetti quindi alle garanzie e alle procedure di protezione internazionale, l'accezione del termine ‘sicuro' (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla norme internazionali sui diritti umani […], impedendo che avvengano ‘sbarchi' in luoghi ‘non sicuri', che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di ‘espulsioni collettive', e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di ‘protezione internazionale' accordati ai rifugiati e ai richiedenti asilo». Il Tribunale osservava, altresì, che il contesto libico è caratterizzato da violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e che non essendo mai stata ratificata la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati da parte della Libia «difficilmente questa poteva essere considerata un luogo sicuro». Quindi, il Tribunale rilevava come «senza la reazione posta in essere dagli imputati e dagli altri (più di dieci non identificati) – tutti i migranti raccolti dalla nave sarebbero stati ricondotti in Libia. Né era ipotizzabile una diversa difesa del proprio diritto ad essere condotti in un POS (Place of safety)».

Osservazioni

La vicenda da cui scaturisce il processo di Trapani si colloca in una fase di transizione dovuta ai primi effetti della costituzione formale di una zona SAR (ricerca e salvataggio) “libica”, notificata unilateralmente dal governo di Tripoli all'IMO (Organizzazione Internazionale Marittima) di Londra il 28 giugno 2018, e alla svolta impressa alle attività di soccorso in acque internazionali derivante dalla politica dei “porti chiusi” inaugurata dal governo Conte su proposta del Ministro dell'Interno Salvini. Venivano così superati i tempi (2015, 2016 e primo semestre del 2017) durante i quali le attività di soccorso nelle acque internazionali antistanti le coste libiche venivano svolte da assetti militari italiani ed europei (missioni Triton di Frontex ed Eunavfor Med- Operazione Sophia) con il concorso delle organizzazioni non governative e lo sbarco, nella maggior parte dei casi, in un porto italiano.

Sulle attività svolte dalle Ong in quel periodo, quando più intenso era il rapporto di collaborazione con la Guardia Costiera e la Marina italiana, sono al momento aperti diversi procedimenti penali che hanno riguardato il caso della nave “Iuventa”, peraltro sempre in corso di indagini preliminari da quasi due anni presso la Procura della Repubblica di Trapani, e la Ong “Open Arms” presso il Tribunale di Ragusa. Altri procedimenti penali sono stati aperti, più di recente, presso il Tribunale di Agrigento nei confronti di comandanti e capi missione delle navi “Mare Ionio di Mediterranea e della Sea-Watch, tutte organizzazioni non governative impegnate nell'attività di soccorso in mare dei migranti.

Anche su questi procedimenti penali, sarà interessante verificare l'incidenza della sentenza del Tribunale di Trapani. In realtà, l'istituzione di una zona SAR “libica” non ha modificato del tutto la situazione perché sono i libici a confermare che le attività di ricerca e soccorso, da loro svolte, in realtà vere e proprie intercettazioni in acque internazionali, avvengono ancora sotto il coordinamento delle autorità italiane. Non si può ritenere che il diritto internazionale del mare ed il diritto dei rifugiati (Convenzione di Ginevra del 1951) siano derogabili da provvedimenti dell'esecutivo (Direttive) o da leggi nazionali che rimangono sottoposte ai vincoli derivanti dagli articoli 10 e 117 della Costituzione. Anche se non si ritenesse vincolante il diritto del mare, non si può certo escludere il carattere cogente della Convenzione di Ginevra che tutela i richiedenti asilo stabilendo che chiunque, anche se giunge irregolarmente in frontiera, ha il diritto di presentare una domanda di protezione e che, al fine di rendere effettivo l'esercizio di questo diritto, nessuno può essere respinto verso un paese nel quale vedrebbe a rischio la vita, l'integrità fisica o la libertà personale (art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951). Previsione che, in base alla sentenza del Tribunale di Trapani è rafforzata, con norme inderogabili a livello nazionale, dall'art. 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo che vieta trattamenti inumani o degradanti nonché dall'art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU che vieta le espulsioni e i respingimenti collettivi (ribadito anche dall'art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea).

Nessuna norma interna può avere come effetto la creazione di obblighi di riconsegna ai libici di migranti comunque soccorsi in acque internazionali. La sentenza del Tribunale di Trapani, nel solco delle precedenti decisioni del Tribunale di Ragusa del 11.05.2018 (Caso Open Arms), conferma come non possa ricorrere alcun obbligo di riconsegna di naufraghi alla guardia costiera libica nel caso di salvataggio operati dalle Ong nell'alto mare.

Pertanto, la Libia non può, in alcun modo, essere considerata come un paese che garantisca “porti sicuri di sbarco” e con cui collaborare in attività di intercettazione in mare, ciò viene, peraltro, confermato anche dai recenti rapporti dell'Onu e del Commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa.

Guida all'approfondimento
LUCA MASERA, La legittima difesa dei migranti e l'illegittimità dei respingimenti verso la Libia (Caso Vos-Thalassa), in Diritto Penale Contemporaneo;FULVIO VASSALLO PALEOLOGO, Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell'ordinamento interno, in Questione Giustizia; LEONARDO MARINO, Il soccorso dei migranti in mare. L'art. 54 c.p. e la speciale causa di giustificazione “umanitaria”, in ilPenalista;LEONARDO MARINO, Il soccorso in mare dei migranti e dei rifugiati nelle convenzioni internazionali, in ilPenalista;STEFANO ZIRULIA, Soccorsi in mare e porti sicuri: pubblicate le raccomandazioni del commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, in Diritto Penale Contemporaneo.

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