I tacchini, il pranzo di Natale e il Tribunale dei conflitti

Mauro Di Marzio
02 Agosto 2019

Sotto la direzione della presidente Giulia Sarti, lo scorso martedì 22 gennaio, la commissione giustizia della Camera dei deputati ha effettuato l'audizione informale del primo presidente della Corte di cassazione e del procuratore generale presso la Corte, sulla proposta di legge avente ad oggetto delega al governo per l'istituzione del Tribunale superiore dei conflitti presso la Corte di cassazione.
Churchill e i tacchini

Sotto la direzione della presidente Giulia Sarti, lo scorso martedì 22 gennaio, la commissione giustizia della Camera dei deputati ha effettuato l'audizione informale del primo presidente della Corte di cassazione, non sappiamo per quanto ancora Corte suprema di cassazione, e del procuratore generale presso la Corte, sulla proposta di legge, primo firmatario una deputata di Forza Italia, magistrato ordinario fino all'elezione in Parlamento, avente ad oggetto delega al governo per l'istituzione del Tribunale superiore dei conflitti presso la Corte di cassazione. L'idea, in breve, è questa: sottrarre la soluzione delle questioni di giurisdizione alle sezioni unite della Corte di cassazione, cui (principalmente) tali questioni sono affidate dall'art. 374 c.p.c., per demandarle all'istituendo Tribunale superiore dei conflitti composto da dodici magistrati, sei della Corte di cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti.

Sentite le opinioni critiche, moderate, rispettose, ma critiche, del presidente e del procuratore generale, la proponente deputata ha così replicato: «Non me ne vogliate, io mi ricordo Churchill, e lo devo dire, è come dire, scusi procuratore, il tacchino che fa, anticipiamo il pranzo di Natale?».

Chi vuole può verificare guardando il video all'indirizzo https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=8419.

Tacchini a Natale

La costruzione sintattica della frase non è delle migliori. Il significato è però chiaro: le opinioni, come ho detto critiche, espresse dai due, meritano di suscitare, secondo la deputata proponente, lo stesso distacco, la stessa sensazione di fastidio, di indifferenza, di noia, se non di scherno, che ipotizzo provocherebbe nei commensali del pranzo di Natale l'opinione inutilmente dissenziente, quanto scontata, manifestata dal tacchino, che del pasto natalizio è chiamato a costituire la portata principale. Ora, l'affermazione pone un duplice problema.

Il primo, quello più serio. Non so se e quando sia stata pronunciata una battuta di Winston Churchill su tacchini e pranzi di Natale fra le tante fulminanti che gli vengono attribuite. Mi sbaglierò, ma a me non risulta, certo — questo è certo — non nella formulazione sciatta e contorta che ho riportato alla lettera. Ho fatto delle ricerche e non ho trovato nulla di preciso, se non un generico richiamo alla frase (peraltro non ad una frase precisa, ma a versioni diverse del medesimo concetto) in alcuni articoli di stampa e in un discorso alla Camera di un politico ormai da tempo sparito dalla scena. Nutro qualche dubbio, devo dire, che la proponente deputata, ne sapesse di più e che non si sia invece espressa per sentito dire.

È celeberrima, viceversa, la storiella del tacchino induttivista narrato da Bertrand Russel al fine di evidenziare la fallacia del metodo induttivo: «Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che … gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino … Elaborò un'inferenza induttiva come questa: "Mi danno il cibo alle 9 del mattino". Questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato». Non so. La proponente deputata non avrà scambiato Winston Churchill con Bertrand Russel? Fermo il fatto che per lei le opinioni di presidente e procuratore generale meritano di essere considerate al pari di quelle di un tacchino votato al sacrificio natalizio. Beh, se avesse sbagliato, si dirà, non sarebbe poi così grave. Si può sbagliare. Ed anzi, citando Garibaldi, si potrebbe dire, n'interrompez jamais un ennemi qui est en train de faire une erreur; in fondo Churchill e Bertrand Russel sono entrambi inglesi, entrambi vissuti nel ‘900, entrambi autori di battute indimenticabili: non stiamo a sottilizzare, l'errore è in agguato. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better, come diceva Wystan Auden.

Ma — ecco il punto davvero dirimente, almeno per me, e forse anche per Winston Churchill: «Un uomo può perdonare ad un altro qualsiasi cosa, tranne una cattiva prosa» — possiamo fidarci, ad esempio, di uno come me, che attribuisce Worstward Ho, da cui è tratta la citazione sullo sbagliare meglio, a Wystan Auden e non a Samuel Beckett? Ad un confusionario che scambia Garibaldi con Napoleone Bonaparte? Ad uno che, nell'ipotesi più benevola, si esprime per sentito dire?

Tacchini e ceffoni

Il secondo problema, quello meno importante. Tutti gli attori della commedia, nel corso dell'audizione, si sono trovati d'accordo nell'osservare che l'istituzione del Tribunale dei conflitti deve essere riguardata in un'ottica di funzionalità del servizio giustizia. Ma non è così, non ci giriamo intorno: il tema del contendere, a voler essere pratici, a voler dire le cose come stanno, non è se fare o non far funzionare meglio il meccanismo di soluzione dei conflitti di giurisdizione, è se dare o non dare un ceffone alla Corte di cassazione. Problema, come dicevo, in definitiva non molto importante: la Corte di cassazione di ceffoni ne ha presi e ne prende tanti, qualcuno ogni tanto se lo dà da sola, travolta da irrefrenabili impeti di autolesionismo (basti dire che la stessa storia del Tribunale dei conflitti nasce da un non esattamente memorabile memorandum del 2017, sottoscritto anche dall'allora primo presidente), sicché, un ceffone in più, uno in meno, cambia poco. Si tratta solo di praticare la virtù della rassegnazione.

Mi spiego. Qui, con la storia del tacchino, Churchill o Russel, siamo di fronte ad un lapsus freudiano: ça parle — mi pare che lo abbia detto Lino Banfi, no? — è l'inconscio che parla, e non mente. La proposta di legge dice di perseguire «l'obiettivo di trovare il punto di equilibrio fra le esigenze di celebrazione di un giudizio conforme a giustizia e quelle, altrettanto rilevanti, di un processo celere e spedito». Insomma, a fondamento dell'istituzione del Tribunale dei conflitti vi sarebbe essenzialmente il principio di ragionevole durata: ora, io dico, se ne poteva escogitare una un po' meglio, perché giustificare la creazione di questa nuova figura con il tormentone della ragionevole durata semplicemente non ha un gran senso: non siamo molto lontani dal cur turbulentam fecisti mihi aquam bibenti, come deve aver detto Esopo, o forse Fedro, o forse La Fontaine, o magari non lo so. Chiunque sa che, ove in un giudizio sorga una questione di giurisdizione, le parti possono avvalersi del celere strumento del regolamento preventivo per ottenere dalla Corte di cassazione — la quale provvede in tempi rapidi, anche con l'adozione del giudizio camerale — all'individuazione del giudice dotato di giurisdizione. La si poteva pensare meglio, ed infatti, nel corso dell'audizione del primo presidente e del procuratore generale, la proponente onorevole ha corretto il tiro ed ha affermato che, in realtà, la ragione è un'altra e che, cioè, la «colpa» della Cassazione, tale da richiedere la creazione del Tribunale dei conflitti, risiede in alcuni mutamenti di giurisprudenza che sarebbero intervenuti su talune questioni di giurisdizione. Dunque il Tribunale dei conflitti occorrerebbe per sgombrare il campo da possibili incertezze. Anche questa giustificazione, evidentemente, non convince: ci tornerò, ma è evidente che non convince. E allora la ragione della proposta mi pare un'altra: la Corte di cassazione è il tacchino con cui imbandire il pranzo. Si tratta, se non proprio di sgozzare — non esageriamo, via —, di dare un altro ceffone alla Corte di cassazione. E perché bisogna dare un ceffone alla Corte di cassazione? Perché, mi pare, la Cassazione pascola (o meglio ha tentato in passato di pascolare, ovvero di abbeverarsi, come nella favola alla quale poc'anzi facevo cenno, in effetti narrata sia da Esopo, sia da Fedro, sia da La Fontaine) dove non deve pascolare: nei pascoli riservati al Consiglio di Stato, questo il senso del riferimento, contenuto nell'illustrazione della proposta di legge, ai «limiti esterni del sindacato sull'eccesso di potere giurisdizionale».

Limiti esterni della giurisdizione e tacchini

Mi riferisco alla ormai datata decisione — che ha però poi inaugurato un filone — secondo cui, ai fini dell'individuazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, che tradizionalmente delimitano il sindacato consentito alle S.U. sulle decisioni del Consiglio di Stato, è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto a quel potere (Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30254).

Soluzione bocciata dalla Corte costituzionale, secondo cui l'eccesso di potere giudiziario denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, senza che possano ammettersi «soluzioni intermedie», come quella secondo cui la lettura estensiva debba essere consentita nei casi in cui si sia in presenza di sentenze «abnormi» o «anomale» ovvero di uno «stravolgimento» delle norme di riferimento (Corte cost. 18 gennaio 2018, n. 6).

Queste a parer mio le ragioni dello schiaffo.

A che serve il Tribunale dei conflitti?

Ma veniamo al merito della proposta. Le obiezioni del primo presidente e del procuratore generale si sono collocate perlopiù sul piano della costituzionalità della nuova previsione. Vedremo tra breve di quali obiezioni si tratta ma, per la verità, non credo che per prender posizione nei riguardi della proposta di legge fosse necessario andare a scomodare la Costituzione.

Ho già detto dell'inutilità dell'istituzione del Tribunale dei conflitti quale strumento utile all'osservanza del principio di ragionevole durata del processo. Il problema della celerità della decisione sulla giurisdizione non si pone affatto, sicché non ha senso creare un nuovo giudice, ovvero anche una nuova sezione della Corte di cassazione, per risolvere un problema che non c'è. Le questioni di giurisdizione sono state in passato utilizzate dalla parte che sapeva di avere torto per allungare i tempi del processo, creando artatamente l'incidente dinanzi alla Corte di cassazione: tuttavia, quest'uso strumentale del regolamento di giurisdizione mi pare sia ampiamente scemato e, in ogni caso, devo aggiungere che, con tutto il rispetto, è difficile credere che l'innesto di magistrati provenienti dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti, uffici che non paiono propriamente funzionare all'insegna del più severo stakanovismo, possa comportare un aumento di produttività della Corte suprema che già oggi è, ampiamente, quella più produttiva dell'universo mondo.

Veniamo al singolare addebito alla Corte di cassazione, emerso nel corso dell'audizione, di aver talora cambiato giurisprudenza su specifiche questioni di giurisdizione così da creare incertezza e, per tale aspetto, nuocere all'efficienza del sistema-giustizia. Che cambiamenti di giurisprudenza ci siano stati è indubbio: ma presentare una cosa del genere come un fenomeno patologico non mi pare abbia un fondamento roccioso in un contesto in cui il riparto di giurisdizione, fatti salvi i casi di giurisdizione esclusiva, è tuttora legato, au fond, alla distinzione intrinsecamente labile, liquida, come tale a volte controvertibile sul piano dell'applicazione pratica, tra diritti e interessi legittimi. Come, in qual modo l'apporto di sei magistrati, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti, possa scongiurare ogni possibile dubbio interpretativo, sicché per il futuro non abbiano a manifestarsi contrasti di opinioni di alcun genere, in tema di giurisdizione, rimane per vero, per me, un mistero. Ed anzi, per la verità, mi sorprende l'idea stessa di immaginare la sterilizzazione dei contrasti: mi sovviene quell'idea che giudico infantile, del processo come macchina, da affidare ad appositi programmi informatici. Al di là di questo, nei fatti esiste già tra le corti un dialogo, talora informale, a volte realizzato attraverso il collaudato strumento del convegno o del seminario, nel quale convergono magistrati dell'uno e dell'altro plesso giurisdizionale e, in genere, un paio di professori versati nel ramo. Come la si giri e come la si volti, l'idea dell'apporto rischiaratore dei sei innesti provenienti dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti mi pare, per dirla — forse — con Talleyrand, peggio che un crimine, un errore.

Per conto mio il discorso sul Tribunale dei conflitti si potrebbe chiudere qui. È una cosa che non serve, salvo, beninteso, a soddisfare l'antipatia, che rilevo diffusa, che posso anche capire, nei confronti dei tacchini.

I tacchini e la Costituzione

Secondo la proponente l'impasse potrebbe essere superato attraverso l'applicazione del secondo comma dell'art. 102 Cost., in forza del quale presso gli organi giudiziari ordinari possono essere istituite sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. Non so bene se un consigliere del Consiglio di Stato o della Corte dei conti sarebbe felice di sentirsi definire «cittadino estraneo alla Ma degli aspetti di costituzionalità si dibatte. E poi il fatto che non serva non vuol dire che il Tribunale dei conflitti non si farà. E dunque riassumerò brevemente quelli che, secondo me, sono i termini della questione. A Costituzione invariata, il Tribunale dei conflitti, mi pare, non si può fare.

Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 111 Cost. contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso il ricorso in Cassazione, sia pure per i soli motivi inerenti alla giurisdizione: ora, non occorre un nume del giure per comprendere che il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è il ricorso ad un giudice composto da consiglieri della Corte di cassazione: non certo il ricorso ad un coso chiamato Corte di cassazione ma composto da consiglieri degli stessi Consiglio di Stato e Corte dei conti. Vi piacerebbe una norma che dicesse che il ricorso per cassazione si propone ad un collegio composto anche — che so — dal presidente e dall'estensore della sentenza d'appello che del ricorso per cassazione è oggetto? Beh, in effetti, mentre scrivo mi avvedo che non sarebbe poi una cattiva idea: almeno l'estensore le carte le conosce già, e potrebbe facilitare il lavoro … Ma qualche controindicazione forse c'è.

Suvvia… Tanto più che, secondo la deputata proponente, Consiglio di Stato e Corte dei conti avrebbero numericamente la meglio almeno per due anni su tre. Il congegno, come riferisce la proponente nell'audizione che, come ho detto, potete vedere ed ascoltare, sarebbe questo: il collegio decidente del Tribunale dei conflitti sarebbe composto da otto consiglieri, quattro della Cassazione, due del Consiglio di Stato e due della Corte dei conti, ed in caso di parità deciderebbe il voto del presidente, ed il presidente sarebbe assegnato a rotazione annuale alle tre corti: e dunque, come dicevo, per due anni su tre i quattro della Cassazione sarebbero minoranza, sottoposti al volere degli altri quattro, i quattro dell'Ave Maria, diremmo per ricordare il film-capolavoro di John Ford (Pino Colizzi ha invece diretto Stagecoach, Ombre Rosse), i due del Consiglio di Stato più i due della Corte dei conti.

Ancora. La deputata proponente, nel corso dell'audizione, ha sottolineato con forza che il Tribunale dei conflitti non sarebbe congegnato come giudice speciale, ma come sezione della Corte di cassazione. La sottolineatura è ben comprensibile, giacché, se si trattasse di giudice speciale, la proposta sarebbe destinata ad infrangersi ineluttabilmente in faccia agli scogli; ma non supera il problema di costituzionalità e ne crea uno diverso.

L'art. 102, comma 1, Cost. rinvia e dunque costituzionalizza l'ordinamento giudiziario, il che rileva per due aspetti.

Primo aspetto. Dove lo mettiamo l'art. 65 dell'ordinamento giudiziario secondo cui: «La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge»? Deve essere chiaro che Corte di cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti non sono, nel quadro costituzionale, giudici equiordinati: ed è per questo, come mi pare chiarissimo, che le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti si impugnano in Cassazione, sia pure soltanto per ragioni di giurisdizione. Ciò sul piano, ovviamente, ordinamentale, non certo su quello della pari dignità, ça va sans dire. Ed anzi, non posso che confessare il mio sincero sentimento di invidia motivato dai diversi modelli di progressione stipendiale che separano nettamente la Corte di cassazione dalle più fortunate corti amministrative. Ma la questione è la seguente: per l'art. 65, come dicevo costituzionalizzato, la nomofilachia, almeno in senso proprio, spetta alla Corte di cassazione e non ad altri: potrei citare diverse decisioni del giudice delle leggi dalle quali si desume l'attribuzione in esclusiva della funzione nomofilattica, nell'impianto costituzionale, alla Corte di cassazione, ma non è così che ho impostato questo mio leggero commento, chi vuol leggere quelle sentenze non avrà difficoltà a trovarle. E, difatti, il giudizio di cassazione è congegnato come giudizio di legittimità, il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti è costruito sul modello dell'appello.

Secondo aspetto, collegato al primo ed a quanto dicevo poc'anzi. La Corte suprema di cassazione è tale perché composta di consiglieri di cassazione: e per l'ordinamento giudiziario i consiglieri di cassazione sono evidentemente giudici ordinari e non possono non esserlo. Non possono essere portalettere, impiegati di banca, professori di estimo, e neppure consiglieri del Consiglio di Stato o della Corte dei conti. Il che trova lampante conferma nella previsione del secondo comma dell'art. 106 Cost., ove è prevista una ed una sola eccezione alla regola secondo cui in Cassazione ci vanno solo i giudici ordinari, l'eccezione dei c.d. «meriti insigni», i quali, beninteso, sono scelti dal Consiglio superiore della magistratura, mentre i sei del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sarebbero scelti dai rispettivi Consigli. Per di più, del cospicuo peso che nel Consiglio di Stato e nella Corte dei conti hanno i consiglieri di nomina governativa ne vogliamo parlare? Vogliamo considerare che negli anni di spettanza della presidenza alle magistrature amministrative il Tribunale dei conflitti potrebbe avere una maggioranza tutta governativa?

Insomma, o il Tribunale dei conflitti è un giudice speciale, e allora l'argomento è chiuso; o il Tribunale dei conflitti è una sezione della Cassazione, e allora non può essere composto da appartenenti alle magistrature amministrative nominati dai rispettivi Consigli. Se, dunque, è composto da appartenenti alle magistrature amministrative, nominati dai rispettivi Consigli, non può essere una sezione specializzata della Corte di cassazione e torna pertanto ad essere, senza scampo, tertium non datur (come diceva Epicuro, naturalmente, almeno così ho sentito dire), un giudice speciale. Comunque la si guardi, siamo di fronte ad un cortocircuito costituzionale.

Insomma, non ci siamo proprio.

magistratura», ma temo di no. La realtà è che quella norma costituzionale riguarda evidentemente tutt'altro, come ad esempio le sezioni specializzate agrarie, nelle quali operano cittadini idonei estranei alla magistratura: si tratta perlopiù di laureati in agraria, il cui compito è evitare che il giudice ordinario affermi su questioni di tecnica agraria di cui non sa granché cose inesatte. Ma, ovviamente, non si può dire che sulle questioni di giurisdizione i consiglieri del Consiglio di Stato o della Corte dei conti ne sappiano di più dei componenti delle Sezioni Unite. Taccio, inoltre, sulla questione se la giurisdizione possa essere considerata una delle «materie» cui si riferisce la norma costituzionale: quando ho fatto l'università la giurisdizione non era una materia, ma ormai sono passati tanti anni, chissà che le cose non siano cambiate.

Flaiano e i tacchini

Si dice infine che il Tribunale dei conflitti ci vuole perché c'è in Francia e c'è anche in Germania. Se non temessi di essere identificato come pericoloso sovranista direi: e chi se ne frega. Non c'è invece in Spagna (dove la funzione giurisdizionale amministrativa viene affidata a giudici specializzati all'interno della stessa giustizia ordinaria) e non c'è in Inghilterra. Ma qui il problema è in realtà assai più complesso. E mi guardo bene dal parlarne. Il punto è che in Europa ci sono tuttora sistemi dualisti e sistemi monisti, e dunque il quadro è eterogeneo assai, ma, forse, ci sono elementi che depongono per una complessiva tendenza alla riduzione delle distanze, se non proprio all'avvicinamento. Ed in una simile prospettiva non è che non possa pensarsi ad una meditata, seria, pensata, equilibrata, complessiva revisione del sistema, volendo mantenere il modello dualista, nell'ambito del quale sia contemplata anche l'istituzione di un giudice che vigila sul riparto di giurisdizione e che è composto da membri delle diverse giurisdizioni. Quello che non si dovrebbe fare è istituire un Tribunale dei conflitti anzitutto inutile, e per di più incostituzionale, solo per scarsa simpatia per i tacchini. O forse mi sbaglio, forse si può fare. Come diceva Flaiano (lo diceva davvero Ennio Flaiano): «L'italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia».

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