Morte del feto per asfissia perinatale: omicidio colposo o aborto colposo?

09 Agosto 2019

Nel concetto di "uomo" indicato quale persona offesa del reato di cui all'art. 575 c.p. rientra anche il "feto nascente". Il termine "feto" precisa ancora la Corte nel dettato normativo dell'art. 578 c.p. è usato in senso improprio: poiché il "nascente vivo" non è più "feto" bensì "persona". Allo stesso modo il termine "aborto" utilizzato nella l. 194 del 1978 non coincide con il concetto di aborto proprio della scienza medica...
Massima

L'inclusione dell'uccisione del feto nell'ambito dell'omicidio non comporta una non consentita analogia in malam partem, bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici.

L'enunciazione della nozione di "uomo" quale vittima del reato in esame, sebbene generica, consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale sopra descritto in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato della parola, che isolatamente considerate potrebbe anche apparire non specifica, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa.

Fonte: ilpenalista.it

Il caso

La sentenza vedeva imputati per omicidio colposo il medico ginecologo e l'ostetrica per la morte cagionata ad un feto per asfisia perinatale.

Le risultanze dell'esame autoptico ed istopatologico, nonché i consulenti concordavano nell'affermare che il feto non aveva mai respirato, era infatti morto per asfisia perinatale che doveva essersi verificata almeno trenta minuti prima dell'espulsione, ossia durante la fase del travaglio. Se la sofferenza fetale fosse stata rilevata tempestivamente il ricorso ad un taglio cesareo o alla ventosa ostetrica avrebbero impedito la morte del feto.

I giudici di primo e secondo grado assolvevano quindi il medico ginecologo, condannando invece l'ostetrica. Secondo la ricostruzione dei giudici, infatti, la condotta dell'imputata era

contraddistinta da gravi profili di colpa professionale per negligenza ed imperizia per non aver assistito in maniera corretta la paziente, a lei affidata, nella fase del travaglio, in particolare per non aver espletato i necessari monitoraggi cardiografici sul feto. L'ostetrica, inoltre, in sala parto, mentre proseguiva le stimolazioni manuali per indurre la dilatazione del collo dell'utero, tranquillizzava due volte il ginecologo sull'andamento lento ma regolare del travaglio, senza più procedere alla rilevazione del battito fetale. Infine, era stato rilevato come il secondo ed il terzo tracciato cardiografico effettuati dall'imputata erano risultati errati per un errore tecnico nel posizionamento delle fasce del tocodinamomentro. Il mancato rilievo del battito cardiaco non consentiva di scoprire la sofferenza fetale già in atto e l'omessa comunicazione al ginecologo della complicanza sopravvenuta impedivano l'adozione delle manovre urgenti ed indispensabili per scongiurare la morte in utero del feto.

Era stato ritenuto sussistente il nesso causale tra l'errato o non adeguato monitoraggio del benessere fatale, che aveva determinato il tardivo intervento del ginecologo, e il decesso del feto per il fenomeno asfitico.

L'imputata era stata pertanto condannata alla pena di anni uno e mesi nove di reclusione per il reato di omicidio colposo, pena confermata in grado di appello. I giudici di merito avevano ritenuto di non riconoscere la concedibilità delle circostanze attenuanti generiche in quanto era emerso che l'ostetrica, evidentemente per tentare di riversare la responsabilità su altri soggetti, aveva falsificato il quarto tracciato cardiotopografico presente nella cartella cinica ed aveva falsamente rassicurato la paziente al momento del parto dicendole che il bambino al momento della nascita era vivo e stava bene, quando in realtà era stato estratto già deceduto.

L'imputata ricorreva per Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello.

La questione

La suprema Corte nella sentenza in oggetto analizza principalmente due temi. Il primo connesso alla qualificazione giuridica del fatto: tra i motivi di ricorso proposti dalla difesa dell'imputato (con richiesta anche di sollevare questione di legittimità costituzionale) veniva infatti sindacata la contestazione del fatto di reato come omicidio colposo e non come aborto colposo, essendo la morte del feto avvenuta sicuramente già nell'utero materno.

Il secondo riguardava invece la configurabilità di una posizione di garanzia in capo all'ostetrica rispetto alle altre figure di sanitari presenti durante il parto, in particolare rispetto al ginecologo e l'applicabilità del principio di affidamento trattandosi di un intervento medico d'equipe.

Le soluzioni giuridiche

Nei motivi di ricorso, la difesa dell'imputata aveva lamentato l'errata qualificazione del fatto come omicidio colposo invece della meno grave ipotesi di aborto colposo prevista dall'art. 17 l. 194 del 1978. Secondo la difesa, infatti, nel concetto di persona indicato nell'art. 589 c.p. non potrebbe essere ricompreso anche il feto. Tale ultima fattispecie violerebbe i principi di tassatività, frammentarietà e determinatezza del diritto penale perché non fornisce un'accezione univoca del concetto di “persona”. Viene quindi richiamato il reato di infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale di cui all'art. 578 c.p., che punisce l'aver cagionato la morte nelle due distinte ipotesi del neonato immediatamente dopo il parto e feto durante il parto.

Secondo la suprema Corte il ragionamento è da ritenersi infondato. Il paragone con l'art. 578 c.p. sarebbe infatti privo di valenza: il reato di infanticidio, infatti, è contraddistinto dall'elemento specializzante della sussistenza delle condizioni di abbandono morale e materiale legate al parto, nonché del momento specifico in cui avviene l'azione criminosa, durante e immediatamente dopo il parto.

In assenza dell'elemento specializzante dell'assenza delle condizioni di abbandono morale e materiale, la condotta della madre volta a sopprimere il prodotto del suo concepimento integra il reato di omicidio ex art. 575 c.p. se commesso dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall'utero materno o il reato di procurato aborto se commessa prima di tale momento.

Il bene giuridico tutelato dai reati di omicidio e di infanticidio è il medesimo: la vita dell'uomo nella sua interezza. Inoltre, anche la condotta materiale che determina l'integrazione dei due reati è la stessa ossia “cagionare la morte”. La morte non può che essere cagionata ai danni di un soggetto vivo, quindi i due reati tutelano la vita umana fin dal suo momento iniziale.

Nel concetto di uomo indicato quale persona offesa del reato di cui all'art 575 c.p. rientra anche il feto nascente. Il termine feto precisa ancora la Corte nel dettato normativo dell'art. 578 c.p. è usato in senso improprio: poiché il nascente vivo non è più feto bensì persona. Allo stesso modo il termine aborto utilizzato nella l. 194 del 1978 non coincide con il concetto di aborto proprio della scienza medica, ossia l'interruzione della gravidanza, spontanea o artificiale, entro il 180esimo giorno dal concepimento. Secondo la nozione giuridica penale, l'aborto è ogni interruzione del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del feto. Il legislatore, infatti, utilizza più correttamente la formula neutra di “interruzione della gravidanza”.

Il momento che determina la distinzione tra il reato di omicidio e quello di feticidio è l'inizio del travaglio, che coincide con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina e quindi il raggiungimento dell'autonomia del feto.

Nel caso di specie, quindi, la Corte ha ritenuto correttamente configurata l'ipotesi delittuosa di omicidio colposo in quanto la sofferenza fetale risultata letale si è verificata durante il travaglio quindi quando il nascituro poteva già essere ricompreso nel concetto giuridico di “uomo” di cui alle ipotesi di omicidio.

L'ulteriore questione analizzata in sentenza riguarda la specifica posizione rivestita dall'ostetrica all'interno dell'equipe medica. Secondo la difesa infatti nel caso in oggetto avrebbe dovuto applicarsi il principio di affidamento proprio dell'attività medica d'equipe, in quanto vi sarebbe stato un obbligo di diligenza del medico nel vigilare sul comportamento dell'ostetrica e quindi, secondo la ricostruzione difensiva, di intervenire per risolvere la situazione.

La Corte richiama sul punto le norme che regolano tale figura professionale (la direttiva 80/155/CE; il d.lgs. 206/2007; il Regolamento per l'esercizio professionale della professione di ostetrica approvato dal Consiglio Superiore di Sanità il 10 febbraio 2000; il D.M. Sanità n. 740 del 1994) e che hanno individuato alcuni compiti specifici attribuiti alle ostetriche tra cui: a) accertare la gravidanza e in seguito sorvegliare la gravidanza normale; b) effettuare gli esami necessari al controllo dell'evoluzione della gravidanza normale; c) attenersi ai protocolli previsti per il monitoraggio della gravidanza fisiologica; d) individuare le situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico, adottando, ove occorrono, le eventuali misure di emergenza indifferibile; e) valutare eventuali anomalie dei tracciati e darne comunicazione ai sanitario.

Secondo la Corte pertanto era emerso dal compendio probatorio come l'imputata avesse commesso una serie di errori e omissioni nello svolgimento di un compito specifico dei propri doveri istituzionali, quale il monitoraggio del battito cardiaco del feto durante il parto, e non solo non aveva sollecitato l'attenzione del ginecologo sulla situazione di sofferenza fetale, che se gli fosse stata tempestivamente comunicata avrebbe potuto porre in essere degli interventi salvifici, ma aveva addirittura per ben due volte rassicurato il medico sulla normalità della situazione. Secondo la Corte non è pertanto invocabile nel caso di specie il principio di affidamento, in quanto colui che per primo versa in colpa non può far affidamento che altri vadano a emendare il suo errore.

Infine la sentenza ritiene congrua la pena inflitta e adeguatamente motivata la sentenza appellata sotto il profilo dell'esclusione delle attenuanti generiche.

Osservazioni

Nel caso in esame viene affrontato il problema della delimitazione della nozione giuridica di uomo, inteso quale soggetto passivo dei reati contro la persona. In particolare l'ordinamento tutela la vita umana fin dal momento del suo concepimento, punendo le condotte omicidiarie poste in essere già nei confronti del soggetto concepito (reati di procurata interruzione di gravidanza), però con esiti sanzionatori meno gravi rispetto alle medesime condotte poste in essere contro la “persona” intesa come soggetto già nato (omicidio ex artt. 575 o 589 c.p.).

Il problema sollevato nel caso di specie riguarda l'individuazione del momento esatto in cui il feto si considera essere autonomo dalla madre e viene quindi tutelato in quanto tale, come uomo e non più come feto.

Il fatto oggetto della decisione in commento infatti riguardava la condotta negligente e imperita di una ostetrica che aveva portato alla morte del feto. Dalle risultanze probatorie era emerso in maniera incontestabile che il feto era già stato estratto deceduto per asfissia perinatale e che tale sofferenza fetale doveva risalire ad almeno 30 minuti prima quindi durante la fase del travaglio.

L'ostetrica era stata condannata in primo e secondo grado per il reato di omicidio colposo. Secondo la difesa tale qualificazione giuridica del fatto non sarebbe stata corretta: essendo il decesso avvenuto quanto il feto era ancora nell'utero materno, non poteva rientrare nella nozione di “uomo” propria dei reati di omicidio (575 e 589 c.p.), ma poteva al più qualificarsi come reato di aborto colposo punito in maniera meno grave dall'art. 17 l. 194 del 1978 (reato oggi previsto dall'art. 593-bis c.p. a seguito della riforma del 2018).

Secondo la difesa un'interpretazione estensiva del concetto di uomo avrebbe rappresentato un'analogia in malam partem vietata dal nostro ordinamento. Non solo, secondo la difesa, l'art. 589 c.p. sarebbe stato in contrasto con gli artt. 25 comma 2, 117 Cost. e art. 7 CEDU per violazione dei principi costituzionali di tassatività, frammentarietà e sufficiente determinatezza della fattispecie penale che non fornisce una definizione univoca del concetto di “persona”. In tal senso si richiama il reato di infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale art. 578 c.p. che chiaramente distingue i due momenti i due concetti di neonato immediatamente dopo il parto e feto durante il parto.

La Corte nella sentenza in commento supera la questione proposta dalla difesa dell'imputata dando un'interpretazione più ampia nel concetto di uomo in senso giuridico, conformandosi al quadro normativo e giurisprudenziale non solo italiano ma anche internazionale che ha progressivamente ampliato la tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è poi estesa al fino all'embrione.

Il momento distintivo tra persona e feto, quindi tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo, è da individuarsi nell'inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell'autonomia del feto, coincidendo quindi con la transizione dalla vita intrauterina alla vita extrauterina. È da ritenersi ormai superata quella giurisprudenza che utilizzava come criterio distintivo il momento del distacco del feto dall'utero materno, perché privo di riferimenti temporali sufficientemente precisi.

Secondo la Corte la suddetta lettura degli artt. 575 e 589 c.p. che comporta l'inclusione del feto nell'ambito dell'omicidio non comporta una non consentita analogia in malam partem ma una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici. Conclude pertanto la suprema Corte evidenziando che l'enunciazione della nozione di uomo quale vittima del reato in esame, sebbene generica, consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale sopra descritto in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato della parola, che isolatamente considerate potrebbe anche apparire non specifica, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa.

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