Falsi abusi: il difficile “controllo di garanzia” del magistrato sulla metodologia di ascolto del minore

28 Agosto 2019

Le recenti, clamorose notizie di cronaca giudiziaria, con al centro dell'inchiesta un presunto giro di affidi illeciti di minori nei comuni della Val D'Enza, al di là dello sconcerto provocato nell'opinione pubblica, offrono l'opportunità di affrontare l'argomento molto più ampio e delicatissimo della formazione dei magistrati e delle loro competenze nell'esercizio del “controllo di garanzia” sulle qualità dell'esperto, cui affidare una perizia o una consulenza di parte.
Alcune premesse

Le recenti, clamorose notizie di cronaca giudiziaria, con al centro dell'inchiesta un presunto giro di affidi illeciti di minori nei comuni della Val D'Enza, al di là dello sconcerto provocato nell'opinione pubblica, offrono l'opportunità di affrontare l'argomento molto più ampio e delicatissimo della formazione dei magistrati e delle loro competenze nell'esercizio del “controllo di garanzia” sulle qualità dell'esperto, cui affidare una perizia o una consulenza di parte.

Questa terribile storia rimanda ad altre vicende giudiziarie altrettanto clamorose, che avevano interessato alcuni paesi della nebbiosa Bassa Modenese, alla fine degli anni '90, ma anche a quelle dell'asilo di Rignano Flaminio nei primi anni 2000 e, prima ancora, al triste e drammatico epilogo del suicidio di un'intera famiglia di Sagliano Micca (Biella) del 1996, incolpata ingiustamente di abusi sessuali. Tutti questi casi disgraziati vedono al centro magistrati sia requirenti che giudicanti, che si erano affidati a sedicenti esperti in discipline psicologiche (v. TRINCIA P.; CERASA C.). Le indagini erano partite con il conforto di pareri di assistenti sociali e giovani psicologhe che avevano vantato una specifica formazione sull'ascolto dei minori, vittime di abuso. Gli esiti di tali indagini avevano interessato giudici che si erano convinti delle conclusioni di esperti con alle spalle la frequentazione di corsi sullo stesso specifico tema. I tribunali per i minorenni non avevano fatto altro che prendere atto in modo quasi sempre acritico dei responsi di questi specialisti.

Non siamo neppure sfiorati dal dubbio che questi magistrati, nella scelta degli esperti, non avessero agito in perfetta buona fede. Tutti gli incaricati erano provvisti di una sorta di “bollino di garanzia” loro derivante da una formazione specifica, in tema di protezione dei minori maltrattati e abusati, formazione che si scoprirà essere stata autoreferenziale.

Un'associazione nazionale, tuttora ben radicata nel territorio italiano, nota con l'acronimo CISMAI – Coordinamento Italiano dei Servizi contro il MaLtrattamento e l'Abuso all'Infanzia con sede a Calstelnuovo Rangone (MO) – aveva coltivato relazioni con le Amministrazioni pubbliche locali, ma anche con il mondo della Giustizia, relazioni che negli anni si sono consolidate. Aveva organizzato corsi di formazione per operatori, educatori, assistenti sociali e psicologi, ma anche per magistrati. Aveva infatti stabilito una stretta collaborazione con il Consiglio Superiore della Magistratura e la Scuola Superiore di Scandicci (si veda l'articolo di ANTONUCCI E., Come ti plasmo il giudice antiabusi, Il Foglio, n. 173, 24.07.2019).

Alcuni di questi corsi erano riservati a magistrati in tirocinio, che avevano superato il concorso e stavano svolgendo il loro percorso di formazione, prima di essere destinati a svolgere le funzioni di requirenti e di giudicanti, anche minorili.

Negli ultimi vent'anni è stato un fiorire di convegni e con essi la promozione, sempre più capillare, del metodo per l'ascolto dei minori, utilizzato nel tempo da centinaia di professionisti, sparsi per il Paese.

La metodologia (enunciata nella Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale del CISMAI) poggia sull'assunto (sprovvisto peraltro di dati statistici oggettivi tali da consentire una verifica della frequenza di base del fenomeno) che l'abuso sessuale sui minori sia un “fenomeno diffuso” e “in grande prevalenza sommerso”, che gli adulti non vadano mai ascoltati, perché “quasi sempre negano”, e che l'abuso debba essere rintracciato anche in assenza di rivelazioni del minore

Sul sito web del CISMAI, si legge che i dati proverrebbero dall'OMS e sarebbero apparsi nel 2013, ma non vi è alcuna evidenza del genere sui dati ISTAT dello stesso periodo. I dati pubblicati tra il 2015 ed il 2016 in Italia sono relativi alle chiamate ricevute da Telefono Azzurro (servizio 114) e su 1068 casi denunciati di abuso in generale solo il 10% veniva classificato come abuso sessuale.

L'abuso sessuale sui minori sarebbe, secondo questa impostazione, un fenomeno dalle dimensioni endemiche nella cultura del Paese. Ma tale fenomeno, nonostante le asserite proporzioni massicce, sarebbe destinato per molti aspetti a restare sommerso e impensabile. Una teoria del genere, in più di venticinque anni, non ha mai avuto il conforto di uno studio scientifico socio- antropologico del fenomeno.

L'adozione di criteri rigorosi nell'ascolto dei minori, secondo i protocolli della Carta di Noto o della Consensus Conference 2010, contribuirebbe, secondo i fautori della dottrina CISMAI, ad aumentare il rischio di falsi negativi, cioè di situazioni in cui l'abuso sarebbe avvenuto ma non viene rilevato.

La Consensus Conference, conclusasi a Roma il 6 novembre 2010, è un documento fondamentale che detta le Linee Guida Nazionali sull'Ascolto del Minore Testimone. L'elaborato è il prodotto del lavoro dei massimi esperti italiani nominati dalle società scientifiche: Società Italiana di Criminologia (rappresentata dai Proff. Tulio Bandini e Roberto Catanesi), Società Italiana di Medicina Legale (Proff. Piero Ricci e Marco Marchetti), Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile (Proff. Ugo Sabatello e Giovanni Camerini), Società Italiana di Neuropsicologia (Proff. Giuseppe Sartori e Andrea Stracciari), Società Italiana di Psichiatria (Proff. Liliana Lorettu e Francesco Scapati), Società di Psicologia Giuridica (Proff. Guglielmo Gulotta e Luisella De Cataldo). Il documento è stato poi sottoposto alla supervisione degli esperti ed approvato da: Prof. Massimo Ammaniti (Ordinario di Psicologia Dinamica dell'Università La Sapienza di Roma), Prof. Ernesto Caffo (Ordinario di Neuropsichiatria Infantile dell'Università di Modena Reggio e presidente di Telefono Azzurro), Prof. Ugo Fornari (Ordinario di Psicopatologia Forense dell'Università di Torino), Prof.ssa Giuliana Mazzoni (Full Professor Department of Psychology, University of Hull – UK).

Con la conseguenza che, se una denuncia viene smentita in sede giudiziaria, significa probabilmente che la giustizia ha sbagliato.

Esisterebbero indicatori e segni psicologici, sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e somatici aspecifici che, anche in assenza di rivelazioni, possono far presumere l'esistenza dell'abuso (cfr. Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale, 15 maggio 2015 in www.cismai.it).

Validation era l'espressione che originariamente sintetizzava l'intervento di diagnosi psicologica mirata all'accertamento dell'avvenuto abuso. Attraverso tale tecnica empirica di indagine (tutt'ora utilizzata dagli operatori del CISMAI e dai professionisti di questo ambiente) l'esperto dovrebbe accertare, in chiave verificazionista, alcuni parametri (storia personale, presenza di indicatori, stile e contenuto della narrazione, ecc.) che gli consentirebbero di dimostrare l'esistenza dell'abuso (DE CATALDO NEUBURGER L.). L'esito è quasi di regola scontato. Tale strumento non è volto ad accertare la credibilità del minore, ma si limita ad investigare l'esistenza di questi parametri attraverso i quali al massimo si può ipotizzare che il minore stia vivendo una situazione generica di malessere le cui causa sono tutte da accertare (v. GULOTTA G. CUTICA I.; CAFFO E., CAMERINI G.B., FLORIT G.).

L'Accademia dei pediatri americani aveva già messo in guardia circa vent'anni fa gli operatori contro il pericolo di scambiare per segni di abuso comportamenti che, invece, erano collegati con la fase di dissoluzione del legame matrimoniale. Per molti bambini le tensioni continue e l'intero processo del divorzio potevano rappresentare una lunga e bruciante esperienza. In particolare i bimbi sotto i tre anni potevano riflettere le preoccupazioni, le ansie, le angosce degli adulti con crisi di pianto, paura, ansia da separazione, insonnia, comportamento aggressivo, regressioni a stadi precedenti di sviluppo. I bambini tra i quattro e cinque anni potevano sviluppare sensi di colpa per l'assenza o infelicità dei genitori e diventavano molto vulnerabili sotto il profilo dell'autostima (American Academy of Pediatrics, Guidelines for the evaluation of sexual abuse of children: subject review. Pediatrics, 1, (103) 186-191, 1999)

Va subito chiarito a tal proposito che la comunità scientifica internazionale si è sempre dimostrata cauta nel considerare l'esistenza di indicatori di abuso, che andassero oltre la presenza di specifiche evidenze fisiche. Alcune posizioni, inizialmente sostenitrici dell'esistenza di segni di carattere cognitivo, comportamentale o emotivo, sono state addirittura riviste dagli stessi autori, cui il CISMAI aveva fatto riferimento (BROWNE A., FINKELHOR D.).

La stessa giurisprudenza del Supremo Collegio, chiamata a pronunciarsi sul sistema della “validation”, sostenuto in un ricorso dall'Accusa, si doveva esprimere in termini molto critici, affermando che tale metodo non aveva alcuna valenza di certezza scientifica (V. Cass. pen., Sez. III, 6 dicembre 1995, n. 1040: «La cd. “validation”, cui il ricorrente si ispira quasi come un dogma di fede, in realtà è soltanto un metro di valutazione, che non ha nessuna valenza di certezza scientifica che può, in taluni casi, costituire, in un quadro probatorio completo e certo, chiave d'interpretazione delle difficoltà delle vittime delle violenze nel rilevare le vicende più riservate. Esso, però, non è applicabile sempre e comunque, da un lato, non è sostitutivo della prova e, dall'altro, non assume rilievo in un caso come questo, per tutti i motivi di sospetto già innanzi ricordati»).

Avverso l'impostazione metodologica del CISMAI si dovevano alzare molte voci critiche, sia in ambito giuridico che in quello psicoforense, voci che avrebbero portato il mondo accademico e professionale a produrre le Linee Guida contenute nella Carta di Noto, nelle sue quattro successive edizioni, della Consensus Conference e del Protocollo di Venezia (2007).

Alla base delle critiche vi era il monito rivolto ai magistrati di far ricorso al sapere scientifico, per indagare sui fatti di preteso abuso, di rifuggire da criteri metodologici che fossero inclini al bias della conferma, causa prima dell'errore giudiziario, e di saper verificare l'accreditamento scientifico delle informazioni utilizzate (FORZA A., MENEGON G., RUMIATI R.; BLAIOTTA R.; GULOTTA G. CUTICA I.).

Il miglior sapere scientifico possibile

Ha scritto recentemente FERRACUTI, affrontando questo delicatissimo argomento: «[...]è un ambito dove abitualmente si indaga sulla presenza o meno di un abuso sessuale e quest'ambito consente il dispiegarsi di pregiudizi, fanatismi, approssimazione e pseudoscienza. Nel corso degli anni abbiamo avuto modo di osservare errori nella descrizione delle condizioni cliniche del testimone, errori nella valutazione della covarianza (il bambino si è innervosito e allora è stato abusato o viceversa), errori nello sviluppo della causalità (siccome il padre è stato abusato allora per questo ha abusato il figlio) e sistematici errori di previsione, come le affermazioni per le quali se il minore effettuerà una psicoterapia dinamica certamente starà meglio, anzi certamente guarirà».

L'Autore con un approccio prudente e laico, nel dare conto della attuale incompletezza e dei limiti della conoscenza del fenomeno dell'abuso sui minori, auspica che ogni approccio avvenga attraverso il “migliore sapere scientifico possibile”, tralasciando decisioni fondate sull'aneddotica, o sulle esperienze personali, o sui casi singoli o su teorie mai dimostrate (per un esempio di indagine basata sull'aneddotica v. MALACREA).

Ma qual è il miglior sapere scientifico possibile e come è possibile definirlo? Le domande a questo punto si impongono.

Ricordava STELLA come la storia delle singole scienze, dalla fisica alla medicina, sia la storia di errori compiuti e che le leggi scientifiche non perdono mai la loro natura di ipotesi.

L'incertezza è il paradigma con il quale i giudici devono costantemente misurarsi per risolvere i casi e le controversie loro affidate. Ma come rimediare allora, si interrogava l'autore, a questa condizione e, soprattutto, come distinguere tra scienza spazzatura e buona scienza?

«Un rimedio non c'è [rispondeva Stella]: si può solo cercare di evitare che condanne di innocenti si ripetano nel futuro. Ecco perché è indispensabile una rinnovata riflessione sulla scienza e sul metodo scientifico, sulla validità e opinabilità delle ipotesi scientifiche». E concludeva assumendo che nessun giudice può ormai permettersi di ignorare questi problemi che non sono astratti, tipici della teoria della conoscenza e del dibattito epistemologico, ma rivestono una enorme importanza pratica.

Il giudice deve accertare che l'esperto sia portatore di un sapere affidabile e non di convincimenti soggettivi, di infondate teorie o di approcci metodologici estemporanei. La sua opinione deve poggiare su di una solida base nelle conoscenze e nell'esperienza della disciplina di riferimento.

Sulla definizione di metodo scientifico

Si è sostenuto che il metodo scientifico, inteso come conoscenza indubitabilmente certa, di fatto non esiste se non nell'area delle scienze analitiche, come la matematica, la geometria e la logica nelle quali, partendo da assiomi e postulati, si arriva deduttivamente alle conclusioni (FEYERABEND affermava che non esiste un metodo che consenta di acquisire una conoscenza certa e sicura e, su tale premessa, sosteneva che l'epistemologia era una forma inesplorata di follia).

Con riferimento più specifico al processo penale, l'espressione viene utilizzata, in generale, per definire il metodo funzionale a una giusta decisione sulla colpevolezza o innocenza dell'imputato, ma anche, in particolare, come metodo di lavoro dei periti, di consulenti tecnici e, non ultimo, del giudice, per risolvere questioni specifiche di carattere scientifico-tecnico (FERRUA P., 2008).

L'incontenibile evoluzione, che la scienza ha subito da Galileo a oggi, rende problematico individuare con precisione le caratteristiche di una metodologia unica, universalmente applicata e applicabile, anche nelle diverse epoche storiche, nelle diverse discipline. E tutto ciò ci porta ad affermare che non vi è un solo metodo scientifico ma vi sono, invece, tanti metodi scientifici. Metodi che, pur nella loro diversità, si avvalgono di procedimenti di ricerca basati sul rispetto di regole e principi che garantiscano l'attendibilità e la verificabilità dei risultati ottenuti. Regole e principi che la comunità scientifica di riferimento prescrive nell'attività di ricerca, sia con finalità descrittive-esplicative del dato empirico, sia con finalità più propriamente prescrittive (FORZA A.).

Ritornando allora all'accostamento delle due espressioni metodo scientifico e processo penale, si dovrebbe parlare degli strumenti gnoseologici di carattere scientifico da introdurre dialetticamente nel processo penale e da utilizzare per le decisioni, in quanto costituiti da attività controllabili e razionalmente giustificabili (UBERTIS U., 2016). Strumenti di conoscenza che rappresentino l'espressione di un sapere qualificato (DI GIOVINE O.). Prove che rechino una sorta di “bollino di qualità”. E, per essere di qualità, l'evidenza deve essere oggettiva, ripetibile e falsificabile. E tutto ciò, lo possiamo qui anticipare, manca nella teorizzazione del CISMAI, tutta basata, invece, su un'ipotesi di partenza da validarsi con modalità estranee ai criteri scientifici, frutto del soggettivismo dell'operatore, non rigorosa ma approssimativa e, soprattutto, non misurabile, così come la scienza impone. Nei casi di presunto abuso non si può intervenire, dando sempre per scontata l'ipotesi dell'investigatore, ma l'esperto deve innanzitutto preoccuparsi della credibilità del minore ed indagare con gli strumenti più aggiornati che le scienze psicologiche hanno messo a punto negli ultimi trent'anni.

La relazione tra scienza e non scienza

I problemi che da sempre la giustizia si è trovata, e continua, ad affrontare, nella prospettiva di guadagnare al processo conoscenze affidabili, da usare nella ricostruzione del fatto, sono

legati alla relazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, anche se si appalesa come tale (TONINI P. 2008, al riguardo, propone una definizione di scienza condivisibile, quale tipo di conoscenza «che ha le seguenti caratteristiche: ha per oggetto i fatti della natura; è ordinata secondo un insieme di regole generali che sono denominate leggi scientifiche e che sono collegate tra loro in modo sistematico; accoglie un metodo controllabile dagli studiosi nella formazione delle regole, nella verifica e nella falsificabilità delle stesse»).

Quando allora il risultato conoscitivo della prova può essere considerato frutto del sapere scientifico e quando, invece, il dato fornito dall'esperto non appartiene al dominio della scienza ma ad altre forme di conoscenza?

Ciò che gli epistemologi ritengono oggi qualificare la scientificità di una disciplina non è tanto l'ambito di ricerca, in ragione dei suoi contenuti, ma è il modo con cui questi contenuti vengono investigati e trattati (AGAZZI E., 1992). Le caratteristiche della scientificità di una disciplina vengono ricondotte a quegli ambiti di ricerca che si sono dotati di un loro metodo di indagine e i cui requisiti fondamentali sono costituiti dal rigore e dall'oggettività (AGAZZI E., 1979).

Il rigore scientifico rappresenta un requisito imprescindibile all'interno di ogni disciplina. Ogni affermazione dello scienziato deve risultare giustificata e logicamente correlata, così da poter essere verificata dagli altri studiosi di quella disciplina.

L'oggettività, nel suo significato più condiviso, è un aspetto che si caratterizza per la sua intersoggettività, intesa come modalità di conoscenza legata all'uso di procedimenti scientifici, accettati dalla comunità di appartenenza.

In questo senso l'enfasi viene attribuita alle caratteristiche di ripetibilità e di controllabilità del dato. E così è scientifica quella prova che si caratterizza per il suo approccio metodologico al dato empirico.

Non è l'autorità di chi afferma una certa cosa, non è il rigore logico dell'affermazione, non è il dato confermato dall'esperienza del singolo, per quanto significativa, a vestire di scientificità l'assunto probatorio. Questi metodi di acquisizione delle conoscenze corrispondono ad altrettanti modelli pre-scientifici non affidabili, perché carenti sul piano empirico e, quindi, deficitari sul piano della verificabilità (McBURNEY D.H.).

A questi temi importanti di carattere epistemologico i giuristi, almeno sino all'introduzione del nuovo codice di rito, sono rimasti sostanzialmente estranei.

Come è stato autorevolmente sottolineato, l'esperienza giuridica italiana sconta un ritardo culturale dovuto ad un deficit epistemologico, riconducibile al mancato adeguamento delle gnoseologie giudiziarie alle correnti di pensiero filosofico-scientifico anglosassoni (UBERTIS U., 2016).

Se si ripercorrono, ad esempio, le tappe attraverso le quali questa problematica si è sviluppata nel processo penale statunitense, si può apprezzare a pieno lo sforzo che la giurisprudenza ha dovuto incontrare per mettere a punto dei criteri volti a garantire l'affidabilità di un sapere da acquisire nel processo.

Si tratta di un percorso che, partendo dalla fine dell'Ottocento, si snoda lungo tutto il Novecento per approdare, attraverso le tappe più significative costituite da altrettante sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, dalla decisione Frye a quelle che vanno sotto il nome di trilogia Daubert, sino al loro cristallizzarsi nella più recente modifica delle Federal Rules of Evidence (rule 702) del 1 dicembre 2000 (la FRE 702 fu “ammodernata”, più per ragioni stilistiche che di contenuto, nel 2011).

Una lunga storia delle varie regole e pratiche con cui il sistema giuridico statunitense ha cercato di esercitare un “controllo di garanzia” sulla qualità dell'esperto (expert witness) cui così spesso si affida.

Il discorso sarebbe lungo ma limitiamoci all'insegnamento derivante dall'ormai famosa sentenza Daubert, che ha influenzato anche la giurisprudenza della nostra Suprema Corte (Daubert vs. Merrill Dow Pharmaceuticals Inc., 509 U.S. 113 S. Ct. 2786, 1993). Scriveva il giudice Harry Blackmun, l'estensore della motivazione, «l'aggettivo scientifico implica un radicamento nei metodi e nelle procedure della scienza; per qualificare una conoscenza come scientifica, l'inferenza o l'affermazione deve derivare da una metodologia scientifica. La testimonianza [dell'esperto Ndr] che viene offerta deve essere sostenuta da appropriata convalida e cioè da un solido fondamento basato su ciò che si conosce». In altri termini, la “conoscenza” implica molto di più che convincimenti soggettivi o infondate speculazioni ed il principale criterio per desumere lo status scientifico di una teoria deriva dalla sua falsificabilità, come da tempo, a partire da Popper, sostiene la moderna filosofia della scienza.

Assieme al criterio della falsificabilità, la decisione Daubert aveva individuato alcuni ulteriori indici con cui il giudice poteva verificare la correttezza dell'operazione probatoria.

Questi indici, generali e non tassativi, oltre a quello della falsificabilità, erano stati individuati nel:

  1. controllo del principio scientifico da parte dei membri della comunità scientifica di riferimento;
  2. la pubblicazione dei risultati delle ricerche su riviste specializzate;
  3. il rilievo del tasso di errore;
  4. il rispetto degli standard di corretta esecuzione delle operazioni.

Sono questi, dunque gli elementi che contribuiscono a definire la good science e che consentono di intercettare ed impedire l'ingresso nel processo della scienza cattiva (junk science)

Il dopo Daubert e le difficoltà applicative

Nonostante gli aggiustamenti intervenuti nel corso del tempo sul dato normativo, costituito dalla rule 702, le istituzioni statunitensi dovevano prendere atto che l'area vera di criticità era rappresentata dalle formazioni e dall'aggiornamento dei giudici.

Vi sono statistiche recenti secondo le quali nei diversi Stati dell'Unione esiste una grossa percentuale di giudici che non è nemmeno a conoscenza del contenuto del c.d. Daubert test.

Molti, addirittura, non sanno proprio dell'esistenza della stessa sentenza Daubert. E, comunque, la formazione dei giudici non è tale da consentire loro di affrontare le nuove responsabilità imposte loro dalla Daubert (HAACK, p. 136).

Al di là dell'autorevolezza dell'esperto, i giudici statali, nella loro stragrande maggioranza, non posseggono gli strumenti epistemologici e critici per giudicare in concreto l'attendibilità dei metodi applicati dall'esperto. Ed è quanto meno evidente che non si può pretendere da chi non è stato formato su queste tematiche che possa, di punto in bianco, entrare in una querelle scientifica e decidere perentoriamente attraverso una scelta di campo in ambiti disciplinari, e spesso interdisciplinari, sempre più complessi.

Di lì il fiorire di iniziative, assolutamente auspicabili anche nel nostro Paese, volte a formare giudici, avvocati e scienziati forensi per intraprendere modalità di formazione collaborative.

L'anno dopo la Daubert, il National Institute of Justice pubblicava la prima edizione del suo Reference Manual on Scientific Evidence, al quale fecero seguito aggiornamenti contenuti in una seconda edizione nel 2000 ed una terza nel 2011.

Il Manuale raccoglie le considerazioni di giuristi e di scienziati su vari argomenti (epistemologia, analisi del DNA, epidemiologia, teoria delle probabilità, neuroscienze, psicologia, ecc. …), che possono stare alla base delle varie vicende giudiziarie. Vengono proposti precedenti giudiziali su questioni teoriche prettamente scientifiche. Il Manuale si sta rivelando molto utile per la formazione e l'aggiornamento dei giudici americani che intendono affrontare e prepararsi su argomenti scientifici di loro specifico interesse.

Riferisce la Haack, nel suo recentissimo studio, di una istituzione nazionale (National Commission on Forensic Science) che ha organizzato un centro di formazione di base e continua, destinato ad organizzare conferenze di studio, da tenersi annualmente su questi temi, e a certificare l'affidabilità dei metodi, degli strumenti e delle misurazioni scientifiche in ambito processuale (HAACK, p. 138).

Il metodo scientifico e l'esperienza italiana

Volgendo, quindi, lo sguardo al modello processuale domestico, al di là di ogni altra considerazione sul ritardo con il quale queste problematiche sono state affrontate dagli studiosi del processo, vi sono alcune considerazioni che meritano di essere qui sottolineate.

Guardando al nostro panorama giurisprudenziale, antecedente la sentenza Cozzini, si ha l'impressione di un quadro epistemologicamente arretrato, che si caratterizza per alcune decisioni slegate tra loro (VICOLI). Manca uno sviluppo ragionato e una riflessione attenta alle varie problematiche che la prova scientifica pone (Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 49786). Si può affermare che lo sforzo della dottrina di adeguamento della conoscenza giudiziaria con acquisizioni aggiornate dell'epistemologia sia cosa molto recente (STELLA; DOMINIONI O.; FERRUA P., 2008; UBERTIS 2014).

La nostra giurisprudenza, solo a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite Franzese, ha enunciato novità per così dire dirompenti, rispetto ad un passato fortemente ancorato a modelli arretrati (Cass. pen., Sez. Unite, 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese. Vedasi, tra gli altri DOMINIONI; TONINI, 2012).

Anche il quadro giurisprudenziale più recente, soprattutto di merito, continua a presentare molte ombre, nonostante che di tanto in tanto si accendano delle luci che non hanno però la forza di dissipare il buio che continua ad avvolgere le prassi giudiziarie.

I fari, che irradiano nuova luce, sono rappresentati da tre decisioni del terzo millennio, che, a ragione, sono state considerate la “trilogia” italiana: Franzese, Cozzini e Cantore (Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786 Cozzini cfr. commento di TONINI P. in Dir. Pen. e Processo, 2011, 2; Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, Cantore). A queste personalmente aggiungerei una quarta: la Sollecito, Knox per la sua portata innovatrice sul ruolo del giudice peritus peritorum rispetto all'esperto (Cass. pen., Sez. V, 7 settembre 2015, n. 1105. Cfr. TONINI P., SIGNORI D., Il caso Meredith Kercker: novità dei principi giuridici affermati dalla Cassazione, in Il penalista, 26 settembre 2016).

Vi è da aggiungere, come è stato puntualmente osservato, che il codice di rito non indica «il criterio per valutare in positivo o in negativo la scientificità di un metodo proposto da un tecnico nominato dal giudice medesimo o da una parte» (TONINI P., 2007). Manca, purtroppo, una disciplina che imponga al giudice di impedire l'acquisizione di prove, asseritamente scientifiche, che non hanno in realtà nulla di scientifico come nei casi della Bassa Modenese.

A partire da queste carenze si è sviluppata una giurisprudenza che, nel tentativo di risolvere le incertezze, ha tendenzialmente opzionato soluzioni interpretative di carattere conservativo, ricorrendo a schemi autoritari datati.

Allo sforzo di aggiornamento culturale, e di recepimento di nuove concezioni epistemologiche, si continua a privilegiare l'uso di metodi procedurali risalenti, ancorati al brocardo iudex peritus peritorum, di chiara natura inquisitoria. Il giudice, anche se non esperto di una materia specialistica, può decidere di non nominare un perito e risolvere con una valutazione personalissima questioni di natura tecnico-scientifica. Nulla gli impedisce di disattendere le argomentazioni svolte da un consulente e di sostituire ad esse argomentazioni tratte da personali cognizioni (vedasi in proposito TONINI P., 2015). In entrambe le situazioni sarà sufficiente per lui motivare la propria decisione, magari facendo ricorso a formule argomentative se non a espressioni dal mero carattere retorico.

A questo deficit epistemologico si accompagnano prassi operative diffuse e prima facie poco esplorate e ne è un caso tipico quello degli incarichi nei processi di abuso su minori. Nella quotidianità viene del tutto deprezzato il momento iniziale dell'affidamento dell'incarico, sia con la nomina del perito che con l'introduzione dei consulenti, momento che dovrebbe, viceversa, seriamente impegnare il giudice sulle questioni relative all'accertamento delle capacità dell'esperto, della sua professionalità, della sua esperienza e del suo back ground e alla valutazione della scientificità delle teorie e dei metodi che prevede di utilizzare per la validità della prova (CANZIO G.). E nei processi di presunto abuso su minori è difficilissimo assistere a verifiche approfondite sulla formazione, esperienza, capacità dell'esperto.

Al di là di rarissime eccezioni, questa fase, viene pretermessa perché si finisce per dare tutto per implicito, salvo ricordare le posizioni in sede di valutazione finale. L'esperienza maturata nelle aule di giustizia ci dice che il fatto di sindacare sulla preparazione dell'esperto viene vissuta dal magistrato come una sorta di affronto personale. Si è affermato che questa non è una criticità banale, costituendo, infatti, un corollario del principio del contraddittorio, il fatto che le parti abbiano conoscenza anticipata dei criteri in ragione dei quali esse possano, in concreto, esercitare il proprio diritto alla prova (TONINI P.).

Non sarebbe sufficiente far riferimento al principio del libero convincimento, perché questo attiene al momento della valutazione della prova e non alla sua prodromica ammissione. Spesso si assiste in sentenza a una critica sui metodi e sulla scientificità in genere della prova. Ma così facendo viene sottratta alla parte la possibilità di insistere per l'ammissione di altri e differenti mezzi di prova, con conseguente violazione del diritto di conoscere in anticipo quali siano le prove che sono ammesse, a mente dell'art. 495c.p.p.

È stato autorevolmente osservato che è inaccettabile che le parti, nell'esercitare il diritto alla prova scientifica, siano soggette al criterio del libero convincimento del giudice, essendo tale criterio del tutto soggettivo (FERRUA P., 1998).

Viene, altresì, ignorato nella prassi giudiziaria un secondo momento importante, costituito dall'accertamento dell'astratta idoneità della prova scientifica a fornire, nel caso specifico, un valido accertamento in grado di fornire al giudicante un'informazione utile (BRUSCO). E così, concentrandosi il tutto nello stadio finale, deputato propriamente alla valutazione della prova, il giudice, quando non è in grado di argomentare sull'affidabilità scientifica dei criteri e metodi utilizzati dall'esperto, tende ad uscirne dall'imbarazzo con tralatizi enunciati, spesso generici, di pressoché nulla fruibilità per un controllo oggettivo sulla prova. Qualsiasi analisi, a quel punto, finisce per perdere ogni utilità.

Se la prova, infatti, fosse dichiarata non scientifica, già in sede di ammissione della perizia, la parte avrebbe tutto il tempo e la possibilità di riorganizzare la propria linea difensiva ed operativa (CAPRIOLI; il quale parla coerentemente di giudizio postumo di idoneità del modus operandi).

Nei sistemi processuali d'oltre oceano, invece, alla discussione sull'ammissibilità della testimonianza dell'esperto viene dedicata un'udienza apposita, senza la partecipazione della giuria, e l'esperto viene esaminato e controesaminato per stabilire l'affidabilità scientifica della teoria proposta e della metodologia da lui utilizzata.

La nostra giurisprudenza, per un evidente deficit culturale sulle problematiche della materia, ha dimostrato di risolvere le questioni con genericità di argomenti e con superficialità, mettendo in campo enunciati vaghi che, il più delle volte, dimostrano la non conoscenza del dibattito epistemologico in ambito scientifico e sul rapporto fra la scienza e la conoscenza giudiziaria (DOMINIONI O.).

Le questioni sulla scelta del perito

Nella scelta del perito il giudice dovrebbe poi essere guidato, secondo la previsione di cui all'art. 221 c.p.p., dalla appartenenza del perito all'elenco degli esperti tenuto in ogni Tribunale, dandosi per scontato che l'iscrizione rappresenti garanzia di competenza e professionalità. Chiunque abbia però un minimo di esperienza, sulle modalità di iscrizione a questi elenchi, sa quanto mal riposta sia una simile fiducia.

Assegnare all'esperto il compito di: «valutare se esiste una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria, inerente allo specifico caso esaminato», secondo le indicazioni della Cozzini, pare un impegno di difficile attuazione, conoscendo il sistema burocratico ed obsoleto di formazione ed aggiornamento di questi elenchi (artt. 67-68 disp. att.). Un sistema che non tiene conto dei criteri di valutazione della formazione, professionalità, competenza e valore scientifico degli aspiranti all'iscrizione, secondo le metodologie più aggiornate.

Solo nei casi in cui le indagini e le valutazioni risultino di notevole complessità o richiedano competenze in una specifica disciplina, il giudice può rivolgersi a esperti non appartenenti agli elenchi e, quasi sempre, a soggetti che svolgono la loro attività tecnico-scientifica presso un Ente Pubblico. In questo caso la garanzia dovrebbe essere data dall'aver superato, da parte dell'esperto, un concorso pubblico.

Queste modalità di reclutamento del perito, si risolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, in rituali burocratici, destinati a non assicurare al processo una scelta tra gli esperti di maggior valore di una comunità scientifica; tra l'altro Un discorso molto simile si potrebbe fare nella nomina del consulente di parte fatta dai P.M., nomina peraltro più ispirata a una logica strumentale, funzionale all'affermazione di un'ipotesi investigativa. E, probabilmente, è questo che deve essere successo nelle disgraziate vicende giudiziarie qui richiamate.

In questi casi può farsi veramente difficile l'impegno del giudice che dovrebbe essere «custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo», secondo l'asserto della Cozzini, ulteriormente approfondito e articolato dalla Cantore.

In conclusione

Convince la tesi secondo la quale, all'epoca dell'approvazione del codice del 1988, si dava per scontato che, attraverso la perizia, entrasse nel processo quella scienza che si considerava, in modo acritico, la sola e infallibile (CONTI C.). Non sollevava questioni allora il tema, oggi più che mai attuale, dell'ammissibilità della prova scientifica, della validità del suo impianto teorico, dell'affidabilità delle tecniche utilizzate dall'esperto, da scegliere di regola sulla base della sua semplice appartenenza ad un elenco accreditato presso l'ufficio giudiziario o, semplicemente, in quanto dipendente di una pubblica amministrazione.

Larga parte della giurisprudenza, soprattutto di legittimità, prima delle citate decisioni Franzese, Cozzini e Cantore, aveva continuato ad interpretare le disposizioni sulla prova scientifica secondo i criteri del vecchio codice del 1930 (TONINI P., 2011).

Andava così maturando, da più parti, la convinzione che fosse necessario operare un adeguamento delle “tecniche processuali di governo della prova scientifica”, atteso il senso di inadeguatezza dell'impianto codicistico ad affrontare e risolvere i problemi che il progresso scientifico veniva a porre al diritto (DOMINIONI).

L'interpretazione giurisprudenziale, poi, invece di agevolare un superamento razionale delle incongruenze e favorire nuove e diverse concezioni epistemologiche, spesso le aveva rimarcate in chiave conservativa (DOMINIONI).

Questo dibattito oggi è quanto mai vivo.

Ma volendo tornare alle drammatiche vicende giudiziarie dei bambini della Bassa Modenese e trarne una morale, quello che si può oggi sicuramente affermare, visti i dolorosi esiti, è che si era introdotto nei vari processi un sapere psicologico deficitario dal punto di vista scientifico, metodologicamente opaco, ignaro delle acquisizioni che la ricerca scientifica nazionale ed internazionale aveva prodotto, nel frattempo, in tema di ascolto del minore, anche a beneficio della conoscenza in ambito forense.

Si era dato credito a professionisti ancora fermi all'idea che il bambino dica sempre la verità, che la memoria del bambino non possa essere manipolata e che sia sempre possibile elicitare le “memorie represse”.

Decenni di ricerche invece hanno provato che la memoria è manipolabile e che si possono indurre facilmente falsi ricordi di ogni genere (si veda CECI S. J., BRUCK M.; LOFTUS E.F.; MAZZONI G., SCOBORIA A., HARVEY L.; CLARK A., NASH R., MAZZONI G.; MAZZONI G., CLARK A., NASH R.; SCOBORIA A. et al.; OTGAAR H., SCOBORIA A., MAZZONI G.)

Purtroppo, quei professionisti hanno continuato, spesso come prima, a operare nelle aule di giustizia, inducendo spesso i magistrati a credere che in Psicologia coesistano diverse scuole di pensiero e che sullo stesso argomento la comunità possa trovarsi divisa. Ma non è così.

Esistono professionisti aggiornati e rigorosi nell'applicazione del metodo scientifico, che si contrappongono ad altri sostenitori di teorie, magari seducenti, ma scientificamente infondate, impreparati sul piano metodologico, approssimativi nel giudizio.

La Psicologia, probabilmente, si presta più di altre discipline ad ospitare questo genere di professionisti, che fondano il loro sapere sull'aneddotica, su teorie mai dimostrate, sulle esperienze personali o sui casi singoli. Purtroppo gli Ordini Professionali, spesso per ragioni politiche, ideologiche e per il mantenimento di equilibri interni, continuano a non operare un'adeguata verifica sulla formazione dei loro iscritti, che chiedono di entrare a far parte degli elenchi di esperti senza possedere un'adeguata formazione.

Quello che è avvenuto tra le nebbie della Bassa Modenese, alla fine degli anni '90, è che psicologi ed operatori socio-sanitari, invece di agire con metodo scientifico, cercando di falsificare l'ipotesi di partenza, hanno operato con idee aprioristiche, come se ci fosse stato un abuso perché di abuso si era parlato. Hanno usato tecniche volte a trovare il possibile e l'impossibile. E nell'ascolto del minore è facilissimo trovare tutto e il contrario di tutto, soprattutto quandO nel delicatissimo lavoro dell'ascolto vengano operate forzature e minacce, dette anche impietose bugie, come è emerso dalle registrazioni di Reggio Emilia (TRINCIA P.).

E allora, per concludere, non è possibile contrapporre, così come è stato detto, a centinaia di studi pubblicati su riviste internazionali prestigiose con le idee di un'associazione domestica che, sia pure meritevole negli intenti iniziali, continua a propugnare teorie che hanno prodotto nelle aule di giustizia veri e propri mostri e molte vittime innocenti.

Non si può accettare che nel processo si possa prescindere dal rigore scientifico ed introdurre una metodologia impostata su di una dottrina alternativa, e fieramente giustizialista, che è riuscita a farsi strada, anche tra i magistrati, grazie ad un ecosistema in cui la cultura del sospetto ha trionfato, a discapito dei principi di garanzia del giusto processo e della nostra Carta costituzionale.

Duole da ultimo sottolineare come, in un recente opuscolo promosso dal Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologici, datato 24 novembre 2017, si ritrovino gli echi di quel protocollo di intesa nel contesto dell'abuso, stilato 21 gennaio 2004, che meglio di ogni altra cosa spiegherebbe quanto accaduto a Reggio Emilia. Cfr. AA.VV., Maltrattamento e Abuso all'infanzia. Indicazioni e Raccomandazioni, Stamperia Romana, Roma, 2018.

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