Codice della crisi. Vecchie e nuove ipotesi di responsabilità penale degli amministratori e sindaci

Ciro Santoriello
02 Settembre 2019

Per chi voglia soffermarsi sui riflessi, diretti e indiretti, che investiranno la disciplina in tema di responsabilità degli amministratori e sindaci a seguito della entrata in vigore dalla nuova normativa in tema di crisi di impresa si aprono tre fonti di riflessioni. In primo luogo, si possono analizzare le (poche) effettive modifiche che, rispetto ai "vecchi” articoli di cui agli artt. 216 e ss. r.d.n. 267/42, ha apportato il d.lgs. n. 14 del 2019. Si tratta, come accennato, di un profilo di scarso rilievo: condivisibile o meno che sia la scelta del legislatore è innegabile che la riforma del 2019 ha poco o nulla inciso su tale aspetto riforma. In secondo luogo, il d.lgs. n. 14 del 2019, senza modificare in alcun modo la lettera della norma incriminatrice, può determinare
Premessa

Per chi voglia soffermarsi sui riflessi, diretti e indiretti, che investiranno la disciplina in tema di responsabilità degli amministratori e sindaci a seguito della entrata in vigore dalla nuova normativa in tema di crisi di impresa si aprono tre fonti di riflessioni.

In primo luogo, si possono analizzare le (poche) effettive modifiche che, rispetto ai "vecchi” articoli di cui agli artt. 216 e ss. r.d.n. 267/42, ha apportato il d.lgs. n. 14 del 2019. Si tratta, come accennato, di un profilo di scarso rilievo: condivisibile o meno che sia la scelta del legislatore è innegabile che la riforma del 2019 ha poco o nulla inciso su tale aspetto riforma.

In secondo luogo, il d.lgs. n. 14 del 2019, senza modificare in alcun modo la lettera della norma incriminatrice, può determinare, in ragione delle innovazioni civilistiche in esso contenute, una significativa diversità di approccio nella lettura e applicazione delle disposizioni in tema di bancarotta da dissesto, di cui agli artt. 223, comma 2, n. 2, e 224, comma 1, r.d. n. 267/1942. Come si vedrà più avanti, gli obblighi organizzativi la cui adozione è ora imposta con le prescrizioni di cui al d.lgs. n.14 del 2019 e l'introduzione degli adeguati assetti di cui fa menzione il nuovo comma secondo dell'art. 2086 c.c. segnano prescrizioni comportamentali la cui mancata adozione da parte degli amministratori – unitamente al mancato doveroso attivarsi dei sindaci – può determinare in capo a questi soggetti, accanto a rimproveri di carattere civilistico, anche responsabilità penali per un aggravamento (doloso o colposo) dello stato di dissesto registrato al momento dell'apertura della procedura concorsuale.

Da ultimo, sempre facendo riferimento alle innovazioni di carattere civilistico, intese ad introdurre nell'ambito dell'impresa commerciale idonei strumenti organizzativi in grado di cogliere prontamente i segnali di rilevazione del possibile stato di insolvenza dell'azienda, può ritenersi che la violazione di tali prescrizioni di compliance possa dar luogo, quando l'omissione assuma connotazione intenzionale, a ulteriori fattispecie delittuose pur in assenza di dichiarazione delle liquidazione giudiziale della società, come ad esempio i reati di impedito controllo o ostacolo alle autorità di vigilanza.

Nei paragrafi che seguono ci si soffermerà separatamente sui tre profili anzidetti.

Le modifiche normative delle disposizioni in tema di bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice

Come accennato, le modifiche alle disposizioni penali in tema di fallimento di cui agli artt. 216 ss. r.d. n. 267 del 1942 operate con il d.lgs. n. 14/2019 sono state pochissime e di scarso rilievo. In particolare, oltre alla nuova sedes della disciplina della bancarotta e degli altri reati fallimentari, la quale oggi è contenuta nel Titolo IX del nuovo Codice, dedicato alle Disposizioni penali (artt. 322-347) e alla sostituzione delle espressioni di fallimento e fallito con quelle di società in liquidazione giudiziale, imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale o amministratore di società dichiarata in liquidazione giudiziale, va segnalato quanto segue.

In primo luogo, si registrano abrogazioni di alcune fattispecie di reato, peraltro ormai già in via di prassi scomparse dalle aule di giustizia. In particolare, limitandosi ai reati che interessano i dirigenti apicali dell'azienda in crisi, sono stati eliminati a) l'art. 221 legge fallimentare, in tema di rito sommario nel fallimento, procedura ormai scomparsa; b) l'art. 235 relativo all'omessa trasmissione dell'elenco dei protesti cambiari al presidente del tribunale, obbligo non più in vigore; c) il delitto di omissione di beni dell'inventario nella domanda di liquidazione di cui all'art. 14 della vigente legge n. 3 del 2012, sul sovraindebitamento.

Sempre con riferimento ai vertici aziendali sono state poi introdotte alcune nuove fattispecie di reato e in particolare: a) l'art. 344, comma 2, del codice della crisi sanziona il debitore incapiente che, per accedere all'esdebitazione produce documenti falsi o contraffatti o distrugge quelli che permettono la ricostruzione della propria situazione debitoria; b) l'art. 345 del medesimo testo normativo sanziona le falsità nelle attestazioni dei componenti degli organismi di composizione della crisi (OCRI) relative ai dati aziendali del debitore che voglia presentare domanda di concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti. Si noti tuttavia che la novità di tale previsione incriminatrice è solo apparente posto che, per espressa indicazione presente nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 14 del 2019, tale disposizione è modellata su quella dell'art. 342 (falsità in attestazioni per l'accesso al concordato) che, a sua volta, riproduce il contenuto dell'art. 236-bis (falso in attestazioni e relazioni) r.d. n. 267 del 1942.

Con la riforma sono state poi introdotte alcune c.d. misure premiali ovvero incentivi rivolti agli imprenditori o amministratori di società affinché operino onde far emergere tempestivamente la crisi d'impresa per consentire alle aziende ancora sane di evitare l'insolvenza, agevolando lo svolgimento di trattative tra debitore e creditori. Alcuni di tali benefici – richiamati dal primo comma dell'art. 25 d.lgs. n. 14 del 2019 - riconosciuti all'imprenditore che si attiva prontamente per la rilevazione dello stato di crisi della sua azienda hanno una valenza prettamente economica (si pensi alla riduzione degli interessi sui debiti tributari ed alla riduzione delle sanzioni dovuti per l'inadempimento degli obblighi di versamento delle imposte), mentre il comma 2^ dell'art 25 prevede che «quando nei reati di cui agli articoli 322, 323, 325, 328, 329, 330, 331, 333 e 341, comma 2, lettere a) e b) [ovvero, tutte le fattispecie di bancarotta, il ricorso abusivo al credito, i reati dell'institore, i reati commessi in sede di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione], limitatamente alle condotte poste in essere prima dell'apertura della procedura, il danno cagionato è di speciale tenuità, non è punibile chi ha tempestivamente presentato l'istanza all'organismo di composizione assistita della crisi d'impresa ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui al presente codice se, a seguito delle stesse, viene aperta una procedura di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo ovvero viene omologato un accordo di ristrutturazione dei debiti».

È presumibile che la portata applicativa della disposizione sarà assai esigua e comunque assai complessa pare l'individuazione dei relativi presupposti. In primo luogo, occorre che il debitore si sia mosso tempestivamente – ovvero l'istanza di composizione o di altra procedura concorsuale sia presentata entro tre mesi (sei mesi per le altre procedure concorsuali) dal verificarsi di una delle tre condizioni previste dal precedente art. 24 del codice – tuttavia, non si comprende su che basi possa valutarsi il momento in cui l'imprenditore è venuto a conoscenza della condizione di crisi della sua azienda e quindi su quali basi giudicare della tempestività o meno dell'iniziativa.

In secondo luogo, alla luce di quella che è la giurisprudenza in tema di riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 219, comma 3, r.d. n. 267 del 1942 (Cass. pen., Sez. V, 16 aprile 2015, n. 15976; Cass. pen., Sez. V, 24 aprile 2015, n. 17351) pare di poter sostenere che la circostanza del danno di particolare tenuità (alla cui ricorrenza è subordinato il riconoscimento del beneficio della causa di non punibilità) sarà rinvenuta assai di rado dall'autorità giudiziaria. Tale conclusione risulta confermata anche alla luce di quanto dispone il secondo periodo dell'art. 25, comma 2, in commento, che prevede una circostanza attenuante a effetto speciale disponendo che «fuori dai casi in cui risulta un danno di speciale tenuità, per chi ha presentato l'istanza o la domanda la pena è ridotta fino alla metà quando, alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza, il valore dell'attivo inventariato o offerto ai creditori assicura il soddisfacimento di almeno un quinto dell'ammontare dei debiti chirografari e, comunque, il danno complessivo cagionato non supera l'importo di 2.000.000 euro»; in tale ipotesi, dunque, in cui le conseguenze nefaste della condotta dell'imprenditore non sono certo significative, il debitore rimane comunque punibile sia pure avendo diritto all'applicazione di una speciale attenuante (con, appunto, diminuzione della sanzione ma non riconoscimento della causa di non punibilità dei fatti), con il che è da ritenere che il beneficio di cui alla prima parte del comma primo dell'art. 25 in commento potrà essere concesso in casi davvero di rarissima verificazione.

Gli obblighi di istituzione degli adeguati assetti societari ed i riflessi sulle fattispecie di bancarotta per aggravio del dissesto

Fra le modifiche che hanno interessato la formulazione lessicale delle disposizioni di cui agli artt. 216 ss. r.d. n. 267 del 1942 rientra anche la parziale riformulazione dell'art. 223, comma 2, nn. 1 e 2, il quale, nella versione attualmente in vigore punisce gli amministratori, i sindaci, i direttori generali ed i liquidatori che, con varie modalità, cagionino il fallimento della società, mentre dopo la riforma, all'espressione fallimento è subentrata l'espressione dissesto sicché appunto quest'ultimo (e non più il fallimento) a essere l'esito finale della condotta delittuosa dei dirigenti dell'impresa. La modifica è di scarso rilievo giacché da sempre la giurisprudenza ha ritenuto che l'espressione fallimento che compare nel comma secondo del citato art. 223 vada intesa non come riferita alla pronuncia giudiziaria che apre la procedura concorsuale (evento rispetto al quale, trattandosi di una sentenza, non è ipotizzabile attribuire efficace causale al comportamento del singolo) bensì allo stato di crisi dell'azienda (il dissesto economico appunto), il quale viene appunto cagionato da condotte delittuose dell'amministratori o altri soggetti apicali (Cass. pen., Sez. V, 29 aprile 2003, n. 19806); di talché, la modifica lessicale del termine altro non ha fatto che prendere atto della interpretazione giurisprudenziale.

Piuttosto, la figura di reato della bancarotta da dissesto societario, sia nella sua forma dolosa disegnata dall'art. 223, comma 2 n. 2, r.d. n. 267 del 1942, che nella sua tipologia colposa cui fa richiamo il numero secondo del successivo art. 224 dello stesso testo normativo, può venire ad assumere una diversa portata applicativa non in ragione di modifiche espresse apportate dalla riforma alle predette previsioni incriminatrici quanto considerando come nell'impostazione presente nel d.lgs. n. 14 del 2019 la gestione della crisi economica rappresenti la modalità comportamentale richiesta all'imprenditore per anticipare, prevenire e contenere le conseguenze dannose del possibile stato di insolvenza dell'azienda.

Espressione di tale scelta è il menzionato nuovo secondo comma all'art. 2086 c.c. (oggi significativamente rubricato Gestione dell'impresa), che estende a tutti gli imprenditori l'obbligo «di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Tale disposizione del codice civile, peraltro, va letta unitamente all'art. 3 d.lgs. n. 14 del 2019 (Obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell'insolvenza), con cui si precisa che l'imprenditore collettivo «deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell'art. 2086 del codice civile ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative» e all'art. 14 dello stesso testo (Obbligo di segnalazione degli organi di controllo societari), che al primo comma, pone a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e della società di revisione, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni, «l'obbligo di verificare che l'organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l'esistenza di fondati indizi della crisi».

La lettura di tali disposizioni (una delle quali, l'art. 2086 c.c., è già pienamente in vigore) dimostra come il legislatore richieda all'imprenditore un atteggiamento “proattivo” nei confronti dell'evento rappresentato dalla crisi aziendale – la quale nel nuovo quadro normativo assume i connotati di un “rischio immanente” all'attività commerciale –, che dai dirigenti aziendali va prevista e fronteggiata in modo adeguato, non solo allorché si manifesti in termini di attualità e di impellente cogenza (come stato d'insolvenza), ma, ancor prima, nell'ambito della gestione ordinaria dell'esercizio dell'impresa. Non solo: tale attività di gestione dei rischio di crisi non riguarda solo l'amministratore societario, ma si tratta di un obbligo che riguarda, con le declinazioni comportamentali tipiche di ciascuno di essi, tutti gli attori coinvolti nella gestione dell'impresa e nel relativo controllo, cosicché all'organo amministrativo spetta la valutazione, l'attuazione e la cura dell'assetto funzionale alla rilevazione (ed al contrasto) dello stato di crisi (secondo lo schema tracciato dall'art. 2381 c.c.); mentre all'organo di controllo compete, come d'ordinario (art. 2403 c.c.), la vigilanza sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo a tal fine adottato.

Indiscutibilmente, la violazione di tali obblighi di previsione e/o prevenzione della crisi aziendale e di ottimale gestione dell'eventuale successivo stato di insolvenza rivestirà un rilievo primariamente civilistico ma pare di poter sostenere altresì che – pur con la dovuta attenzione a differenziare il giudizio sulla valenza penale del fatto dalle ipotesi di mala gestio fondante la responsabilità degli amministratori ex art. 2392 c.c. o con il caso di omesso intervento dei sindaci di cui agli artt. 2407 e 2049 c.c. – in capo agi amministratori, dirigenti e sindaci della società che non abbiano prestato ottemperanza ai suddetti doveri di adeguata organizzazione dell'impresa e abbiano omesso di approntare i necessari strumenti per una pronta rilevazione della crisi siano rinvenibili profili di responsabilità penale con riferimento alle conseguenze in tema di aggravamento del dissesto aziendale che sono derivate dalla loro condotta inottemperante e negligente.

In particolare, quando si sia in presenza di una intenzionale mancata adozione degli strumenti per la valutazione e gestione dei rischi di insolvenza dell'impresa e tale inadempienza si rilevi un fattore causativo del fallimento (melius, se ne evidenzi la rilevanza eziologica sull'ammontare del dissesto registrato al momento dell'apertura della procedura concorsuale), la scellerata scelta degli organi di vertice dell'azienda potrà senz'altro essere sussunta all'interno della previsione di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, r.d. n. 267 del 1942. Del pari, allorquando l'inadeguatezza della compliance sarà stata determinata da negligenza o mancata cautela, nulla impedirà di richiamare il meno severo reato di cui all'art. 224, numero 2, l. fall.

Analoga conclusione potrebbe essere assunta in caso di inadeguatezza dell'assetto organizzativo e/o del piano di risanamento, posto che assai agevolmente, laddove dovessero emergere lacune nelle procedure che hanno portato ad una determinata scelta organizzativa – poi rivelatasi dannosa – o una superficiale e scarsa istruttoria, o una incompleta ricognizione delle condizioni operative dell'impresa, si potrebbe sostenere la sussistenza di una negligenza gestionale che si è poi riflessa in un'errata scelta organizzativa. In particolare, tale soluzione sarebbe obbligata quando si dovesse dimostrare un'effettiva incidenza causale dell'inidoneità del sistema organizzativo adottato rispetto al verificarsi (o aggravarsi) del dissesto, potendo la distanza tra la regola di comportamento attesa e assunta come doverosa ed il comportamento tenuto nel caso specifico fungere da elemento di valutazione per la ricostruzione dell'elemento soggettivo che ne ha accompagnato la realizzazione.

In questa prospettiva, nell'impossibilità di prevedere e analizzare (in questa sede) tutte le possibili forme in cui potrebbe declinarsi la (ritenuta) inidoneità dell'assetto organizzativo, pare comunque destinato ad assumere particolare importanza operativa il confronto tra la scelta a tal fine concretamente assunta e le indicazioni al riguardo fornite dalla best practice di riferimento. In particolare, il ruolo di necessario e naturale paradigma di riferimento pare destinato ad essere assunto dalle norme di comportamento predisposte dagli Ordini professionali e dalle Associazioni di categoria: tanto maggiore sarà la possibilità di giustificare una determinata scelta operativa o valutativa alla luce della sua compatibilità e coerenza con le indicazioni desumibili da tali modelli comportamentali, tanto maggiore, di conseguenza, sarà la possibilità di dimostrarne la ragionevolezza e, quindi, il suo attestarsi al di sotto della soglia del rischio consentito, in quanto tale penalmente irrilevante.

I reati societari derivanti dalla mancata osservanza delle prescrizioni in tema assetto organizzativo. Il reato di impedito controllo

Come accennato in premessa, è infine possibile rinvenire una pluralità di ipotesi in cui la mancata osservanza delle prescrizioni in tema di adozione di un efficace assetto organizzativo per la rilevazione della crisi può determinare la responsabilità penale degli amministratori e sindaci della società, giacché sono facilmente enucleabili alcune circostanze in cui la mancata e intenzionale capacità dell'imprenditore di mappare lo stato finanziario, economico e patrimoniale della propria azienda determina l'insorgenza di una fattispecie di reato. Nelle pagine che seguono, saranno per l'appunto illustrate alcune delle circostanze in cui possono venire in essere le ipotesi cui abbiamo fatto riferimento, ma prima occorre una precisazione.

Va infatti considerato come la mancata osservanza delle prescrizioni contenute nel codice della crisi possa presentarsi secondo due diverse modalità. In primo luogo, la mancata rilevazione della crisi o, meglio, la mancata emersione dello stato di tensione economica o finanziaria dell'azienda, può dipendere da una intenzionale volontà dell'imprenditore di occultare i relativi dati che attestano la crisi dell'azienda, di cui tuttavia lo stesso risulti comunque in possesso. In sostanza, la violazione della disciplina in tema di liquidazione giudiziale può derivare dalla circostanza che l'imprenditore ha sì adottato un adeguato assetto organizzativo in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa ma poi, acquisita la consapevolezza delle difficoltà in cui la stessa versa, ha taciuto, non presentandoli ai revisori dei conti, predisponendo un bilancio falso che non riporta i dati in modo corretto, ecc. In questi casi, evidentemente, i reati che possono ipotizzarsi sono molteplici, a partire, chiaramente, dalla violazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., ma si tratta di vicende su cui non ci soffermeremo, da un lato, in quanto in tali casi il problema, l'origine della possibile responsabilità dell'imprenditore risiede non nell'inadeguatezza del sistema organizzativo – il quale anzi ha consentito l'emersione degli indici di insolvenza -, ma nella circostanza che l'amministrazione societaria non comunica, occulta, tace di tali dati, e dall'altro, proprio perché l'imprenditore volontariamente occulta le reali condizioni economiche della sua azienda e quindi è pienamente consapevole della possibile rilevanza penale della sua condotta di mendacio; inoltre, in tali casi la responsabilità penale degli organi di vertice dell'azienda non presenta alcun profilo particolare rispetto a quanto è dato riscontrarsi nelle ordinarie ipotesi in cui tali soggetti occultino lo stato di insolvenza dell'impresa commerciale: detto altrimenti, le fattispecie penali rinvenibili nelle circostanze da noi ora indicate non sono state in alcun modo modificate, né in maniera indiretta né in maniera diretta, dalla riforma contenuta nel Codice della crisi.

Le ipotesi in cui soffermeremo la nostra attenzione sono invece quelli in cui la mancata circolazione o emersione delle informazioni relative allo stato di crisi dell'azienda è determinato da una cattiva strutturazione della stessa ovvero dalla circostanza che l'imprenditore, consapevole di quanto pretende il d.lgs. n. 14 del 2019 e delle carenze della sua impresa, non ha voluto introdurre nella stessa quell'assetto organizzativo previsto dalla nuova disciplina sullo stato di insolenza. Volendo esemplificare, si pensi a un'impresa che dispone di strumenti informatici che le consentono di trarre le informazioni necessarie in ordine alla sostenibilità economica della propria attività, ma non ne prevede il trattamento e l'utilizzo in ordine alle esigenze di cui all'art. 2086 c.c. e all'emersione del relativo stato di allerta oppure si pensi all'imprenditore che, pur potendo, non si attiva per procedere alla chiusura trimestrale dei conti disinteressandosi così di conoscere e valutare l'andamento corrente dell'azienda: tali scelte possono essere determinate dalla necessità di contenere i costi o dall'intento di trasferire sui creditori il rischio dell'insolvenza dell'impresa evitando sistematicamente di segnalare lo stato di crisi agli organi di controllo che imporrebbero determinati modalità di attivazione, evitare oneri segnaletici che comporterebbero una riduzione del merito di credito presso i fornitori e le banche, ecc.

Una prima ipotesi delittuosa che potrebbe configurarsi nel caso da noi esemplificato è quella di impedito controllo di cui all'art. 2625 c.c., ai sensi del quale «1. Gli amministratori che, occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento della attività di controllo o di revisione legalmente attribuite ai soci, ad altri organi sociali o alle società di revisione, sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.329 euro. 2. Se la condotta ha cagionato un danno patrimoniale ai soci, si applica la reclusione fino ad un anno e si procede a querela della persona offesa. 3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'art. 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58».

Che la mancata adozione di un adeguato assetto organizzativo possa, sia pure in alcuni particolari casi, integrare la fattispecie delittuosa in parola ci pare evidente. Infatti, fra le condotte illecite ritenute penalmente rilevanti dalla disposizioni rientra in primo luogo l'occultamento di documenti che in questo modo vengono sottratti alla disponibilità dei soci o dei sindaci nonché della società di revisione: orbene, se il nascondimento di documenti può concretarsi nell'adozione di comportamenti attivi – si pensi all'amministratore che, notte tempo, si rechi in azienda e sottragga la contabilità simulando un furto -, nulla esclude che al medesimo risultato possa pervenirsi per il tramite della semplice mancata predisposizione dei documenti necessari perché i soci, i sindaci e la società di revisione possano esercitare il loro potere di controllo. Ecco quindi che, richiamando il disposto dell'art. 2086 del codice civile, l'amministratore il quale, in maniera intenzionale e volontaria, non introduce nell'impresa un adeguato assetto organizzativo ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative, impendendo così agli organi di controllo societari e alla società di revisione, la possibilità «di verificare che l'organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l'esistenza di fondati indizi della crisi», nulla impedisce di formulare una contestazione di violazione dell'art. 2625 c.c., anche in ragione del fatto che l'ipotesi di occultamento di documenti non ricorre solo in caso di integrale distruzione delle scritture contabili, ma anche nel caso in cui l'acquisizione delle stesse risulti più difficoltosa, così come il reato sussiste in caso (non di alterazione e falsificazione, bensì) di cattiva ed irregolare tenuta della contabilità.

Al più può sostenersi che in presenza di circostanze equivoche, in cui non è manifesta né l'intenzione dolosa né l'idoneità della condotta a impedire o ostacolare l'attività di controllo da parte degli organi competenti, non è sufficiente a concretare una violazione della disposizione penale in parola la mera inerzia, sia pur antidoverosa, degli amministratori rispetto all'adempimento degli obblighi che li riguardano, laddove questo comportamento omissivo non sia preceduto da una espressa manifestazione di volontà da parte dei sindaci, soci o responsabili della società di revisione di esercitare il proprio potere di controllo e vigilanza.

È bene precisare che infine che le condotte di occultamento della documentazione hanno rilevanza penale solo se in grado di impedire o ostacolare l'attività di controllo di competenza di terzi soggetti. In proposito si ritiene che l'espressione normativa vada intesa in senso non assoluto, non essendo necessaria quindi una preclusione durevole ed invincibile allo svolgimento dell'attività di verifica, potendo questa essere anche solo momentaneamente sviata o resa inefficace; rileveranno quindi ai fini penali rilevano anche condotte produttive di un semplice intralcio, non insuperabile e di fatto superato, allo svolgimento delle funzioni di controllo e revisione. Occorre tuttavia che dalle condotte di cui diremo fra un attimo derivi il verificarsi di un danno in capo ai soci: tale evento lesivo difficilmente potrà sussistere se non a seguito di condotte di impedimento ed ostacolo che abbiano ad oggetto il controllo su vicende societarie effettivamente rilevanti e, prevalentemente, attinenti la gestione dell'impresa.

(Segue). Il reato di ostacolo all'autorità di vigilanza

Considerazioni analoghe a quelle che hanno concluso il paragrafo precedente possono essere formulate con riferimento a un altro illecito ovvero il delitto di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Tale illecito è previsto dall'art. 2638 c.c., il quale prevede che «1. Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. 2. Sono puniti con la stessa pena gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società, o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali, in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacolano le funzioni. 3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58».

L'ambito di applicazione della disposizione si presenta particolarmente esteso. Infatti, la previsione in commento sarà sicuramente applicabile quando le condotte considerate siano tenute da soggetti posti in posizione apicale nell'ambito di società o enti svolgenti attività creditizia – come in precedenza disposto dalla abrogata disposizione di cui all'art. art. 134 del d.lgs. n. 385 del 1993 –, nonché nell'ambito di persone giuridiche ammesse alla quotazione nel mercato mobiliare – cui si riferivano gli abrogati artt. 171 e 174 del decreto legislativo n. 58 del 1998. Accanto a tali soggetti, però, la disposizione è destinata a trovare applicazione anche nei confronti di quanti siano sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti: quest'ultima categoria di soggetti è decisamente eterogenea, e saranno solo le singole specifiche previsioni normative ad individuare i relativi destinatari dell'obbligo di comunicazione alle autorità di vigilanza.

La norma, per individuare le autorità il cui operato deve essere tutelato dalla disposizione in commento, fa generico riferimento alle autorità pubbliche di vigilanza, non specificando se con tale locuzione abbia inteso riferirsi alle sole autorità operanti nell'ambito dei mercati finanziari – come la Banca d'Italia o la CONSOB – ovvero richiamare tutte le autorità amministrative che con il tempo hanno fatto ingresso nel nostro ordinamento giuridico. Alcuni autori ritengono che la collocazione dell'art. 2638 c.c. all'interno del codice civile dovrebbe far propendere per una valenza della fattispecie limitata alle autorità che espletano la vigilanza sulle società che operano nei mercati finanziari, ma altri autori evidenziano come la circostanza che la norma non delimiti in alcun modo il suo ambito di applicazione dovrebbe far propendere per una sua destinazione alla tutela di qualsiasi autorità di vigilanza, e quindi anche con riferimento agli enti che prima dell'entrata in vigore dell'art. 2638 c.c. erano privi di qualsiasi tutela a presidio penalistico.

La disposizione di cui all'art. 2638 c.c. dà vita a due ipotesi di reato, accomunate solo dalla identità dei soggetti attivi, dalla natura dell'oggetto delle comunicazioni e dal bene giuridico protetto, ma profondamente divergenti quanto alla descrizione dell'elemento materiale.

Il primo comma della disposizione fa riferimento all'esposizione alle autorità di controllo, nelle relative comunicazioni previste dalla legge, di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza nonché all'occultamento con altri mezzi fraudolenti di fatti concernenti la situazione medesima che si sarebbero dovuti comunicare. Va sottolineato tuttavia che l'ipotesi dell'occultamento di fatti e dati che si sarebbero dovuti comunicare all'autorità di vigilanza rileva solo nel caso in cui il nascondimento sia stato realizzato con mezzi fraudolenti, diversi dalla falsità: non è sufficiente dunque una semplice omissione ma occorre che il silenzio sia tenuto con strumenti decettivi, sì da non consentire, almeno in astratto, che il destinatario della comunicazione possa avvedersi della incompletezza della informazione fornita. Inoltre, è necessario che il comportamento omissivo investa un dato la cui comunicazione è obbligatoria; non delimitando la norma in alcun modo la scaturigine del dovere, si ritiene che la fonte dell'obbligo di informazione non debba essere necessariamente di natura legislativa, e l'obbligo di esternazione sarà sussistente anche laddove l'informazione sia richiesta dalla autorità di vigilanza.

In relazione a tale ipotesi di reato, l'elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico: consapevole della mendacità delle comunicazioni effettuate in ossequio ad un obbligo di legge, ovvero dell'utilizzo di mezzi fraudolenti onde occultare informazioni dovute all'autorità di controllo, l'agente deve nel contempo anche essere animato dall'intento di ostacolare l'esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti ai predetti pubblici soggetti. Giustamente alcuni autori evidenziano come sia necessario che il dolo specifico contrassegni tutti gli elementi del fatto e non rimanga una semplice proiezione della condotta, e ciò in quanto la formula che fa riferimento al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza non descrive soltanto la direzione della volontà verso un evento esterno, ma esprime in particolare l'idoneità della condotta a provocarlo e peranto il fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza sottintende che la falsa comunicazione raggiunga quel minimum di obiettiva idoneità (rectius, pericolosità) per fuorviare effettivamente l'attività dell'autorità destinataria.

La seconda ipotesi delittuosa richiamata nel comma 2 della disposizione concerne la frapposizione di ostacoli alle funzioni di vigilanza attribuite agli organi pubblici competenti. Si tratta, a differenza del primo comma che configura un reato di mera condotta, ad un illecito di evento, da individuarsi per l'appunto nell'ostacolo alle funzioni delle autorità di controllo e la condotta è descritta in termini estremamente sintetici dal legislatore, il quale perciò richiama un delitto a forma libera, realizzabile in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, purché si sia in presenza di una attività di ostacolo che sia idonea ad impedire all'autorità di vigilanza di esercitare le proprie funzioni. L'ostacolo la cui sussistenza dà luogo alla violazione della disposizione consiste in ogni tipo di attività che impedisce all'autorità pubblica di vigilanza di esercitare le sue funzioni: rientrano in tale ambito, senz'altro, i comportamenti ostruzionistici o di mancata collaborazione, come l'opposizione ad ispezioni, il ritardo nelle comunicazioni ecc., nonché, come vedremo nel prossimo paragrafo, la mancata ed intenzionale osservanza del precetto del codice civile di cui all'art. 2086 c.c..

Quanto all'elemento soggettivo richiesto per questa seconda ipotesi di reato, la disposizione richiede che il soggetto agisca “consapevolmente”, onde attribuire rilievo penale alle sole condotte di ostacolo alle funzioni di vigilanza commesse con dolo sì generico, ma diretto, e quindi escludendo la responsabilità a titolo di dolo eventuale.

Guida all'approfondimento

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USLENGHI, LIEDHOLM, Le disposizioni penali, in SANZO, BURRONI (a cura di), Il nuovo Codice della crisi dell'impresa e dell'insolvenza, Bologna 2019, 383;

GAMBARDELLA, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, www.penalecontemporaneo.it, 27.11.2018;

BRICCHETTI, Codice della crisi d'impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare, in Dir. Pen. Cont., riv. Trim., 7-8/2019, 75; SANTORIELLO, Le disposizioni penali nel Codice della crisi, Il Fallimentarista, Focus, 20.2.2019;

CHIARAVIGLIO, Osservazioni penalistiche a prima lettura sul progetto del codice della crisi e dell'insolvenza, in www.penalecontemporaneo.it, 10.5.2018; DE SENSI, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Rivista delle società, 2017, 311;

RIVERDITI, La responsabilità penale degli organi societari, in Rivista DEI, 1/2019, 77; ZANOTTI, Diritto penale dell'economia, Milano, 2017;

MAZZACUVA-AMATI, Diritto penale dell'economia, Torino, 2018;

PERUSIA – SANTORIELLO, La valutazione dell'idoneità del modello organizzativo alla luce delle innovazioni in tema di crisi di impresa, in Riv. Resp. Pen. Enti, 3/2009.

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