Mancata esecuzione di un provvedimento del giudice: unicità del procedimento giurisdizionale, pluralità di provvedimenti e divieto di bis in idem

04 Settembre 2019

La questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità concerne la statuizione in ordine alla possibile violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, nell'ipotesi in cui...
Massima

Non integra la violazione del principio del ne bis in idem la pronuncia di due distinte sentenze di condanna, delle quali l'una non definitiva, rese all'esito di due differenti procedimenti penali instaurati nei confronti del medesimo imputato, anche nell'ipotesi in cui il comportamento illecito posto in essere dall'agente rimanga inalterato nel corso dell'arco temporale in cui si sia protratto, durante il quale si pervenga alla violazione di due differenti provvedimenti giurisdizionali emessi all'interno del medesimo procedimento civile, dei quali il primo rappresenti un'ordinanza di natura cautelare ed il secondo la sentenza pronunciata all'esito del giudizio di cognizione, confermativa del contenuto dell'ordinanza

Il caso

La pronuncia in commento trae origine da un caso di conflitto familiare, sviluppatosi tra padre e figlio, concernente le facoltà di utilizzo di un garage.

Difatti, la Corte di appello di Lecce confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Brindisi in data 11 luglio 2014, con cui Tizio veniva condannato per il reato di cui agli artt. 81 e 388 c.p.. I giudici di merito pervenivano ad affermare la penale responsabilità dell'imputato per il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, in quanto l'agente violava ripetutamente gli obblighi derivanti dalla sentenza emessa il 2 marzo 2011 dalla sezione civile del Tribunale di Brindisi, sez. distaccata di Francavilla Fontana, con cui veniva confermata l'ordinanza pronunciata in data 22 settembre 2007 dal Tribunale del medesimo capoluogo pugliese, mediante la perpetrazione di una condotta consistente nel parcheggiare più autovetture all'interno di un garage, in tal modo impedendone un agevole utilizzo da parte del padre.

Avverso la pronuncia del giudice di appello, Tizio esperiva ricorso per cassazione mediante il difensore di fiducia, articolando un unico motivo con cui si adduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla erronea applicazione del principio del ne bis in idem.

A sostegno delle argomentazioni poste a fondamento del ricorso, la difesa produceva la sentenza non definitiva emessa dalla sezione penale del Tribunale di Brindisi in data 6 luglio 2012, n. 316, che era pervenuta a condannare lo stesso soggetto per la medesima imputazione contestata nel presente procedimento. La ragione relativa alla pendenza di un duplice procedimento penale a carico del medesimo imputato, concernente peraltro la stessa vicenda fattuale, discendeva dalla pluralità di denunzie presentate nel corso del tempo ad opera del padre.

Ad avviso della difesa di Tizio, la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale brindisino nel luglio 2014, confermata dalla decisione della Corte di appello di Lecce – oggetto di gravame innanzi al giudice di legittimità – avrebbe comportato la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto nel capo di imputazione i fatti venivano contestati sino al 17 maggio 2012, allorché all'interno della sentenza di condanna emessa all'esito del procedimento penale parallelo dal Tribunale di Brindisi in data 6 luglio 2012, n. 316, si sarebbe sancito che, malgrado la contestazione riguardasse condotte realizzate fino al luglio 2008, l'imputato avrebbe violato gli obblighi discendenti dalle statuizioni pronunciate dal giudice civile sino alla data in cui veniva emessa la sentenza di condanna, individuata per l'appunto nel 6 luglio 2012.

Di tal ché, sulla scorta delle deduzioni articolate dalla difesa del ricorrente, dal momento che i fatti oggetto di accertamento nel presente procedimento venivano contestati sino al 17 maggio 2012, essi dovevano ritenersi assorbiti in quelli accertati con la sentenza di condanna del 6 luglio 2012, n. 316 e, pertanto, la pronuncia di un'ulteriore condanna penale avrebbe condotto alla violazione del principio del ne bis in idem, inteso nella sua accezione sostanziale.

A fronte delle argomentazioni formulate all'interno del ricorso, la Sesta sezione penale della Corte di cassazione è pervenuta a dichiararne l'inammissibilità, reputando il motivo dedotto manifestamente infondato.

Al fine di motivare la propria decisione, i giudici di legittimità hanno richiamato, in prima istanza, l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, tipizzato dall'art. 388, co. 1°, c.p., sia ascrivibile alla categoria degli illeciti a consumazione istantanea, perfezionandosi nel momento in cui il debitore non ottemperi alla ingiunzione di adempiere, posto che in tale frangente temporale si concretizza il danno del creditore e la eventuale permanenza dell'inadempimento rappresenta unicamente la protrazione degli effetti di un fenomeno che si è già realizzato.

Poste tali premesse, la pronuncia in oggetto ha aderito alle conclusioni enucleate dalla sentenza del giudice di appello, affermando che non si potesse ravvisare nel presente caso una violazione del canone del ne bis in idem, dal momento che la sentenza di condanna n. 316/2012 del Tribunale di Brindisi concerneva la contestazione di condotte poste in essere sino al luglio del 2008, dal momento che la dichiarazione testimoniale resa dalla parte offesa (i.e: il padre dell'odierno imputato) nel corso dell'istruttoria dibattimentale, relativa alla circostanza che la condotta si fosse protratta “sino alla data odierna”, andava necessariamente interpretata nel senso che la condotta dell'imputato si sarebbe protratta sino alla data in cui era stata resa la predetta testimonianza, per l'appunto occorsa nel luglio del 2008.

Al contempo, i giudici di legittimità hanno statuito che la sentenza n. 316/2012 concernesse l'inottemperanza all'ordinanza emessa dal Tribunale di Brindisi in data 22 settembre 2007; di contro, la sentenza oggetto di impugnazione riguardava l'inottemperanza alla sentenza pronunciata dal medesimo Tribunale il 2 marzo 2011 – confermativa, peraltro, dell'ordinanza del 2007 – e, per tali ragioni, hanno sancito l'assenza di violazione del principio del ne bis in idem, stante la diversità dei fatti ascritti all'imputato oggetto di accertamento nei procedimenti penali svoltisi parallelamente.

La questione

La questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità concerne la statuizione in ordine alla possibile violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, nell'ipotesi in cui sia stata inflitta a carico del medesimo soggetto una duplice condanna per il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, ex art. 388, comma 1, c.p., qualora l'agente, ponendo in essere la medesima condotta nel corso di uno specifico arco temporale, pervenga a violare una pluralità di provvedimenti giurisdizionali che siano stati emessi in sequenza cronologica, pur se adottati all'interno del medesimo procedimento incardinato innanzi all'Autorità giudiziaria.

In sostanza, il predetto quesito pone l'interprete innanzi ad una duplice opzione ermeneutica, la cui scelta parrebbe postulare, quale requisito preliminare, l'individuazione dell'entità giuridica tutelata dalla fattispecie incriminatrice in commento, il che involge un dibattito che ha a lungo interessato la dottrina, non apparendo, peraltro, ancora del tutto sopito.

Difatti, parrebbe oscillarsi tra un'opzione esegetica che tenda a privilegiare la dimensione pubblicistica dell'illecito, da cui deriverebbe la statuizione di una primazia dell'autoritarietà dei provvedimenti giurisdizionali, sicché alla violazione di ciascuno di essi dovrebbe necessariamente conseguire l'inflizione di una condanna, pur ove non si assistesse ad una variazione delle componenti fattuali caratterizzanti il comportamento concretamente posto in essere dall'agente, ininterrottamente violativo dei decisa contenuti nei singoli provvedimenti.

Sull'altro versante sembrerebbe invece stagliarsi una visione interpretativa che miri a conferire preminenza alla dimensione privatistica dell'illecito, con la conseguenza che le componenti caratterizzanti il fatto storico assumerebbero rilevanza decisiva, nel senso che ove il comportamento perpetrato dall'agente dovesse rimanere immutato durante il decorso del tempo, ciò dovrebbe condurre ad allocare in una dimensione subordinata la circostanza inerente il succedersi di una pluralità di provvedimenti giurisdizionali, malgrado ciascuno di essi risultasse violato dall'agire del reo. In tale ottica, quindi, acquisirebbe un ruolo centrale la tutela dell'interesse del privato, sotteso all'emissione del provvedimento giurisdizionale, da cui deriverebbe, quale corollario, l'ininfluenza dal punto di vista penalistico del contrasto tra la condotta dell'agente – a condizione che essa risulti immutata – ed il contenuto di un successivo provvedimento dell'Autorità giudiziaria. In via conclusiva si perverrebbe a privilegiare una dimensione sostanzialistica di questa specifica tipologia di illecito, in contrapposizione a quella che potrebbe definirsi una concezione formalistica, la quale, ove accolta, condurrebbe ad irrogare la sanzione penale per la mera sussistenza di un contrasto tra la condotta dell'agente ed il provvedimento dell'Autorità, pur se non dovesse riscontrarsi un approfondimento della lesione dell'interesse del privato già inficiato dal comportamento del reo, inosservante del primo provvedimento giurisdizionale.

Le soluzioni giuridiche

La questione affrontata dalla Corte di cassazione – concernente la condotta di un soggetto che, parcheggiando talune autovetture all'interno di un garage e rendendo difficoltoso l'utilizzo del predetto bene da parte del padre, violava taluni provvedimenti emessi dal giudice civile volti a tutelare il diritto reale facente capo al genitore, risultando, per tale ragione, sottoposto ad un duplice procedimento penale stante la pluralità dei provvedimenti giurisdizionali violati con la suddetta condotta, che approdavano all'emissione di due sentenze di condanna per la violazione dell'art. 388, comma 1, c.p., ancorché una di esse non definitiva – sembrerebbe attenere all'individuazione dei presupposti applicativi del principio tradizionalmente suggellato nel brocardo latino ne bis in idem che, come noto, si articola in una duplice dimensione: una di carattere sostanziale, che vieta di punire il medesimo soggetto per la realizzazione di un fatto per cui sia già stato condannato in via definitiva; l'altra di natura processuale, che vieta di sottoporre il medesimo soggetto, che sia già stato prosciolto o condannato con un provvedimento divenuto definitivo, ad un ulteriore procedimento penale relativo alla commissione dello stesso fatto, ancorché diversamente considerato per il titolo, per il grado e le circostanze.

Dalla lettura del corpo motivazionale della sentenza emerge come i giudici di ultima istanza abbiano aderito alla ricostruzione operata dalla Corte di appello, ritenendo insussistente nel caso di specie la violazione del suddetto canone, in ragione del fatto che il primo procedimento penale incardinato nei confronti dell'imputato atteneva alla contestazione dei comportamenti da quest'ultimo posti in essere in violazione del primo provvedimento emesso, in ordine cronologico, dall'organo giurisdizionale civile, i.e. l'ordinanza del Tribunale di Brindisi del 22 settembre 2007, allorché il secondo procedimento penale instaurato nei confronti del medesimo soggetto - approdato sino all'ultimo grado di giudizio – concerneva la contestazione dei comportamenti riguardanti la violazione del secondo provvedimento emesso dal medesimo organo giurisdizionale civile, vale a dire la sentenza del Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Francavilla Fontana, del 2 marzo 2011.

In ragione di ciò, pur in assenza di un'espressa statuizione in ordine a tale profilo, la Corte di cassazione ha ritenuto che i fatti contestati all'interno dei due procedimenti svoltisi parallelamente fossero diversi, con la conseguenza di non poter ritenere integrata la violazione del ne bis in idem.

In aggiunta alle considerazioni che precedono deve peraltro rilevarsi, seppure dal percorso argomentativo sviluppato dai giudici di legittimità tale componente non sembrerebbe acquisire un ruolo dirimente, come la mancata declaratoria della violazione del suddetto principio, inteso sia nella sua accezione sostanziale che processuale, discenda necessariamente dalla circostanza secondo cui il primo procedimento penale instaurato nei confronti dell'imputato, sfociato nella sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Brindisi il 6 luglio 2012, alla data della celebrazione dell'udienza presso la Corte di cassazione non risultasse ancora concluso in via definitiva, in considerazione del fatto che la predetta pronuncia condannatoria veniva per l'appunto qualificata alla stregua di una sentenza non definitiva.

Osservazioni

La pronuncia in commento offre lo spunto per sviluppare talune riflessioni critiche attorno alla portata del principio del ne bis in idem, in specie in ragione della soluzione enucleata dai giudici di legittimità che, per taluni aspetti, non appare pienamente convincente.

Ciò posto, prima di focalizzare la lente d'indagine sul summenzionato profilo, deve osservarsi, sulla scorta del sintetico apparato motivazionale presente all'interno della sentenza, come la Sesta Sezione penale abbia ancorato la propria decisione, confermativa delle statuizioni di condanna rese nel corso dei giudizi di merito, a un principio che, seppur invalso in seno alla giurisprudenza della Corte Suprema, parrebbe concernere esclusivamente la natura del delitto in oggetto sotto il profilo temporale, nel senso di ritenere che il predetto illecito sia a consumazione istantanea e si perfezioni nel momento in cui il debitore non ottemperi all'ingiunzione di adempiere, posto che il danno del creditore si verifica al momento dell'inottemperanza del debitore e l'eventuale permanenza dell'inadempimento rappresenta semplicemente la protrazione degli effetti di un fenomeno che si sia già concretizzato.

Nel caso de quo, in ragione dell'iter argomentativo adottato, sembrerebbe, pertanto, che la declaratoria di insussistenza della violazione del canone del ne bis in idem discenderebbe dalla natura del reato ex art. 388, comma 1, c.p. e dall'applicazione del principio concernente l'individuazione del tempus commissi delicti, dal momento che la realizzazione da parte del reo di un singolo comportamento contrastante col contenuto del primo provvedimento giurisdizionale risulterebbe di per sé idonea ad integrare l'illecito, allorché l'emissione di un secondo provvedimento giurisdizionale e la conseguente attuazione di una condotta a sua volta violativa della regola in esso sancita, parrebbe idonea, alla stregua dell'opzione esegetica adottata dai giudici di legittimità, a configurare un'ulteriore violazione della fattispecie incriminatrice in oggetto.

Ciò nonostante sembrerebbe possibile rilevare – come si illustrerà più approfonditamentenel prosieguo – che in tale ipotesi la Corte sia pervenuta a una simile decisione fondandola su un meccanismo improntato a una piana trasposizione di un principio di diritto enucleato in occasione di un precedente giurisprudenziale, avente però a oggetto una fattispecie concreta dai contenuti differenti rispetto a quelli connotanti la presente vicenda.

Di conseguenza, pertanto, si potrebbe affermare che l'adozione di una decisione tesa a escludere la violazione del divieto di bis in idem avrebbe suggerito, per un duplice ordine di motivi, di elaborare un principio maggiormente pertinente alle caratteristiche della fattispecie concreta, discostandosi invece dalla piana menzione di una regola iuris elaborata in riferimento a una differente vicenda processuale.

In tal modo, difatti, si sarebbe anzitutto perseguito l'obiettivo di garantire una maggiore logicità argomentativa che, come noto, rappresenta un requisito intrinseco dei provvedimenti giurisdizionali, vieppiù ove essi promanino dal giudice di legittimità. Per altro verso, l'approdo ad una differente soluzione, con conseguente enucleazione di un diverso principio, avrebbe consentito di illuminare la futura attività interpretativa, in tal modo assolvendo compiutamente alla funzione nomofilattica che, come noto, alla luce di quanto sancito dall'art. 65, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, rappresenta una delle prerogative istituzionali attribuite al giudice di ultima istanza.

Esperita tale premessa, giova focalizzare l'analisi sul profilo più rilevante emergente dalla pronuncia annotata, gravitante attorno all'individuazione dei confini operativi del principio del ne bis in idem.

Come noto, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano il predetto canone trova un'espressa disciplina normativa limitatamente alla dimensione processuale, in virtù del disposto dell'art. 649, comma 1, c.p.p., ove si statuisce che l'imputato che sia stato prosciolto o condannato con un provvedimento irrevocabile emesso dall'Autorità giudiziaria non possa essere nuovamente sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, ancorché esso venga diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze.

Di contro, malgrado nell'attuale panorama normativo interno difetti un'apposita previsione del medesimo principio sotto il versante sostanziale, esso deve comunque ritenersi operante anche all'interno dei confini nazionali. Da un lato, difatti, come ampiamente sostenuto in seno alla dottrina, un simile principio deve ritenersi immanente ad un ordinamento giuridico improntato alla costante tutela dei diritti dell'individuo, ben potendo esser allocato nella sfera dei diritti irrinunciabili, al fine di contrastare la realizzazione di possibili abusi ad opera dell'Autorità pubblica. Dall'altro, il riconoscimento di una simile regola anche all'interno della dimensione nazionale rinviene la propria linfa in forza del contenuto di talune disposizioni normative racchiuse in testi convenzionali di rango internazionale, a cui ha aderito l'ordinamento italiano.

Particolare rilevanza assumono, in tale dimensione, l'art. 4 del Protocollo n. 7, addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d. Carta di Nizza), a cui peraltro si affianca la previsione sancita dall'art. 14, § 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato nell'ambito delle Nazioni unite.

Limitando la riflessione alle disposizioni normative dettate dal Protocollo addizionale alla CEDU e dalla Carta di Nizza, può osservarsi come entrambe siano idonee ad assumere rilevanza nell'ordinamento interno, pur se differente appare il percorso che conduce al predetto esito, risultando però opportuno rimandare ad una sede differente l'illustrazione dettagliata dei meccanismi che conducano all'operatività nel nostro ordinamento delle predette disposizioni.

Inquadrata la cornice normativa di riferimento, appare utile focalizzare l'attenzione sul caso concreto posto al vaglio della Corte di cassazione, al fine di indagarne le sue peculiarità.

Giova sin da subito premettere come gli elementi presenti all'interno dell'apparato motivazionale della sentenza appaiano, nel complesso, sintetici, il che può condurre al residuare di taluni dubbi in ordine ad una compiuta opera di ricostruzione dei tratti connotanti la vicenda storica.

Ciò posto, alla luce delle coordinate fornite, appare possibile enucleare le seguenti considerazioni.

Tizio, imputato nel processo definito con la sentenza che qui si analizza, poneva in essere una condotta consistente nel parcheggiare una pluralità di autovetture all'interno di un garage ubicato a breve distanza dalla propria abitazione, in tal modo limitando la facoltà del padre di godere, in modo agevole, del predetto bene immobile. A fronte di un simile comportamento il padre si rivolgeva all'Autorità giudiziaria, al fine di veder tutelato il diritto reale vantato sul ridetto bene, conseguendo un provvedimento favorevole, rappresentato dall'ordinanza del Tribunale di Brindisi del 22 settembre 2007 che, sulla base di una deduzione di carattere presuntivo – imposta, come premesso, dalla sinteticità del contenuto della sentenza in commento – era stata emessa all'esito di un procedimento cautelare.

Malgrado la sussistenza della predetta ordinanza cautelare che, come appare agevole desumere dalle regole che disciplinano l'esecutività dei provvedimenti emessi in tale fase procedimentale, appariva produttiva di effetti immediati pur nelle more del giudizio di cognizione proteso ad accertare l'effettiva lesione del diritto vantato da parte del ricorrente, Tizio trasgrediva al precetto in essa contenuto, mantenendo le autovetture all'interno del garage, in modo da precludere all'ascendente un agevole utilizzo del bene.

Alla luce del comportamento posto in essere dal figlio, il padre sporgeva denuncia-querela e da tale iniziativa si incardinava il procedimento penale attraverso cui – sempre in forza di un ragionamento deduttivo esperibile sulla base del testo dell'odierna sentenza – si perveniva alla condanna, ancorché non definitiva, del prevenuto, con sentenza emessa dal Tribunale brindisino il 6 luglio 2012, n. 316, per la ritenuta violazione della fattispecie di cui al comma 1 dell'art. 388 c.p.

Sennonché, anteriormente alla pronuncia della predetta condanna, si era altresì incardinato il procedimento di cognizione innanzi all'organo giurisdizionale civile, volto ad accertare nel merito la fondatezza della pretesa avanzata dalla parte attrice. Tale procedimento si era concluso con una sentenza emessa il 2 marzo 2011 dal Tribunale del capoluogo pugliese, sezione distaccata di Francavilla Fontana, che aveva confermato il decisum dell'ordinanza cautelare, in tal modo riconoscendo la titolarità in capo al padre del diritto fatto valere in giudizio.

Sulla base della ricostruzione contenuta nella sentenza che qui si annota è emerso come, pur a fronte di tale sviluppo processuale occorso nella sede civile, la situazione fattuale non mutava, in quanto Tizio reiterava nel parcheggiare le autovetture all'interno del garage e, a causa di tale comportamento inottemperante, il padre assumeva una nuova iniziativa procedimentale, denunciando il figlio per l'inosservanza della sentenza del 2 marzo 2011.

Dalla proposizione di tale ulteriore querela – pur non conoscendo, peraltro, l'effettiva data di presentazione presso l'Autorità pubblica – discendeva l'instaurazione del presente procedimento, che si concludeva con la pronuncia dell'odierna sentenza definitiva di condanna per la violazione del medesimo art. 388, comma 1, c.p., in ragione del mancato adempimento alle prescrizioni dettate dalla sentenza del giudice civile del 2 marzo 2011.

Al cospetto di una simile cornice di eventi e ancor prima di addentrarsi nella disamina critica relativa alla componente nevralgica del presente caso – attinente alla possibile violazione del divieto di bis in idem – appare possibile sollevare taluni dubbi in ordine alla correttezza della qualificazione giuridica operata con riferimento al comportamento posto in essere dall'imputato che, come visto, in entrambi i procedimenti penali è stato ricondotto al paradigma criminoso di cui al comma 1 dell'art. 388.

Difatti, dall'esegesi della predetta disposizione incriminatrice emerge come la tipicità del fatto presupponga che l'agente ponga in essere taluna delle condotte in essa descritte che, sulla scorta del dato letterale, debbono necessariamente implicare la realizzazione di atti simulati o fraudolenti aventi ad oggetto beni altrui o personali, qualora il comportamento venga posto in essere al fine di sottrarsi all'adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell'Autorità giudiziaria o dei quali sia in corso l'accertamento presso la medesima Autorità. È inoltre tipizzata un'ulteriore modalità di realizzazione della condotta, consistente nel porre in essere altri atti a loro volta connotati dal requisito della fraudolenza, a condizione che anch'essi siano volti a perseguire il medesimo obiettivo.

Sicché, alla luce delle peculiarità caratterizzanti il comportamento concretamente posto in essere da Tizio che, come latamente osservato, si è sostanziato nel godimento di un bene immobile attraverso delle modalità che ne hanno limitato il relativo godimento da parte di un altro soggetto, apparse prive però dei connotati della simulatorietà ovvero della fraudolenza, la sussunzione del predetto comportamento nell'alveo del primo comma dell'art. 388 c.p. parrebbe preclusa dall'esito negativo del giudizio di tipicità esperito a tal fine.

A tale prima annotazione, che di per sé sembrerebbe idonea a far dubitare della correttezza della qualificazione giuridica operata all'interno delle pronunce rese, rispettivamente, dal Tribunale di Brindisi (in data 6 luglio 2012) e dai giudici di merito intervenuti nel presente procedimento, le cui statuizioni risultano peraltro confermate dall'odierna pronuncia, se ne può affiancare una ulteriore, pur se il suo raggio di operatività appare limitato alla sola pronuncia emessa dal Tribunale di Brindisi nel luglio 2012.

Difatti, come rilevato, il procedimento penale sfociato nella pronuncia di tale ultima sentenza di condanna, anche in forza di quanto confermato dalla sentenza che qui si annota, aveva avuto a oggetto l'accertamento relativo alla condotta posta in essere dall'imputato in violazione delle prescrizioni dettate dall'ordinanza cautelare del Tribunale di Brindisi del 22 settembre 2007, che, proprio in ragione della sua natura, non era stata preceduta da un accertamento volto alla piena cognizione del merito della pretesa fatta valere in giudizio dal ricorrente.

Sul punto, come affermato dalla giurisprudenza, nel solco di un orientamento che, allo stato attuale, non appare smentito, l'integrazione del delitto di cui al comma 1 dell'art. 388 presuppone che il soggetto agente, dopo aver posto in essere taluna delle condotte tipizzate nella fattispecie astratta, non ottemperi all'ingiunzione di eseguire il provvedimento giudiziario, ritenendosi che il concetto di ‘provvedimento dell'autorità giudiziaria', espressamente previsto nel testo di legge, debba essere limitato ai provvedimenti emessi in sede giurisdizionale all'esito di una piena cognizione (v., sul punto, Cass. pen., Sez. VI, 19 marzo, n. 4298).

Di contro, ad avviso del medesimo indirizzo interpretativo, laddove il comportamento dovesse porsi in contrasto col contenuto di una decisione giurisdizionale di natura provvisoria, quale evidentemente appare essere un'ordinanza emessa all'esito di un giudizio cautelare, la sussunzione della relativa condotta nel paradigma punitivo tipizzato dal primo comma dell'art. 388 c.p. risulterebbe preclusa, in virtù del difetto di tipicità del fatto imputabile all'agente.

A corollario di un simile approccio ermeneutico la stessa giurisprudenza ha sancito come tale ultima ipotesi appaia autonomamente disciplinata dal secondo comma dell'art. 388 c.p., ove si sanziona la condotta di colui che eluda ‘l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile […] che […] prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito'.

Pertanto, alla luce dei rilievi che precedono sembrerebbe possibile pervenire alla conclusione secondo cui la qualificazione del comportamento perpetrato da Tizio alla stregua della violazione del primo comma dell'art. 388 c.p. parrebbe profilare un'interpretazione contra legem, che a prima vista risulterebbe idonea a dar luogo ad un'applicazione analogica in malam partem, stante, in linea generale, il difetto di tipicità della condotta, nonché, con esclusivo riferimento al procedimento sfociato nell'emissione della sentenza di condanna del Tribunale brindisino nel luglio 2012, per l'ulteriore difetto, nella fattispecie oggetto di giudizio, della tipologia di provvedimento giurisdizionale la cui violazione si rende necessaria per l'integrazione della fattispecie in scrutinio.

Al contempo, la conclusione che precede risulta mitigata dal rilievo secondo cui il comportamento ascrivibile a Tizio non apparirebbe, in via definitiva, privo di rilevanza penale, dal momento che sembrerebbe riconducibile all'ipotesi criminosa disciplinata in via autonoma dal capoverso del medesimo art. 388 c.p.

Ciò posto, appare evidente come la compiuta analisi delle caratteristiche attinenti alla vicenda in esame avrebbe dovuto necessariamente condurre i differenti organi giurisdizionali, chiamati in successione a pronunciarsi sul caso, a pervenire ad una siffatta qualificazione giuridica del fatto.

Dal punto di vista degli effetti, deve ad ogni modo rilevarsi come l'approdo ad una simile conclusione, per quanto imposto dalla vigenza del principio di legalità, sub specie di osservanza del canone della tassatività nell'interpretazione della legge penale, non avrebbe condotto ad una variazione quantitativa della sanzione edittale comminata, in virtù della previsione, disposta dal secondo comma, della parificazione del trattamento sanzionatorio contemplato per le ipotesi criminose disciplinate dal primo e dal secondo comma dell'art. 388 c.p.

Sviluppate le riflessioni che precedono, si rende ora necessario veicolare l'indagine verso la questione più spinosa emergente dalla sentenza in oggetto, relativa alla presunta violazione del principio del ne bis in idem.

Come ampiamente anticipato, nel rigettare il ricorso proposto dal difensore di Tizio, i giudici di legittimità sono pervenuti a ritenere insussistente, nel caso de quo, la violazione del predetto canone. Appare sin da subito utile evidenziare come tale epilogo decisorio non appaia suscettibile di critiche, dal momento che il primo procedimento penale celebrato nei confronti del medesimo imputato, avente a oggetto il medesimo fatto, è risultato ancora pendente alla data di svolgimento dell'udienza presso la Corte di cassazione, in ragione dell'assenza del carattere della definitività della sentenza emessa dal Tribunale di Brindisi nel luglio del 2012.

Pertanto, la statuizione volta a escludere la sussistenza di una violazione del divieto di bis in idem, valevole sia sotto il profilo processuale che sotto il versante sostanziale – malgrado, anche in ordine a tale profilo, la motivazione resa dai giudici di legittimità appaia laconica, omettendosi di compiere qualsiasi ulteriore precisazione – appare conforme sia al dettato normativo interno, stante il difetto dei requisiti disciplinati dall'art. 649 c.p.p., sia alle previsioni racchiuse nei testi normativi sovranazionali a cui aderisce l'ordinamento italiano, quali l'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU e l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, ove si rinviene l'espressa previsione del divieto di punire due volte il medesimo soggetto per la commissione del medesimo fatto.

Di contro, ciò che appare meritevole di talune riflessioni critiche appare il percorso argomentativo posto a fondamento della decisione emessa dal Supremo consesso, il quale è pervenuto ad ancorare la propria scelta sul rilievo che i fatti oggetto dei due procedimenti svoltisi parallelamente non potessero ritenersi accomunati dal requisito della medesimezza, in ragione del ruolo decisivo assunto dall'oggetto della violazione realizzata con la condotta dell'agente, rappresentato da due differenti provvedimenti giurisdizionali: il primo, come visto, coincidente con l'ordinanza cautelare del 22 settembre 2007, il secondo, invece, integrato dalla sentenza civile di primo grado del 2 marzo 2011, peraltro confermativa dell'ordinanza del 2007.

In sostanza, ad avviso del giudice di ultima istanza, l'elemento discretivo con cui dirimere il dubbio interpretativo rappresentato dalla dicotomia unitarietà-pluralità del fatto contestato nei confronti del medesimo imputato, è risultato connesso al numero dei provvedimenti che non siano stati soltanto emessi dagli organi giurisdizionali, ma, ciò che più rileva, siano stati violati in forza della condotta posta in essere dall'agente.

In via astratta, neppure tale conclusione parrebbe suscettibile di rilievi critici. Difatti, appare evidente che attraverso la previsione di una fattispecie incriminatrice volta a sanzionare l'inosservanza di un provvedimento promanante dall'Autorità giudiziaria, l'ordinamento intenda reprimere qualsiasi condotta umana che infranga la regola decisoria dettata all'interno del provvedimento medesimo. Ragionando in tale prospettiva si potrebbe pertanto profilare l'enucleazione di un metodo interpretativo volto a guidare l'attività dell'esegeta, recante i seguenti connotati: egli, difatti, dovrebbe assumere quale pietra angolare della propria opera accertativa i singoli provvedimenti emessi dagli organi giurisdizionali, al fine di verificare l'eventuale lesione alla regola decisoria in essi contenuta; conseguentemente, ove dovesse riscontrarsi una pluralità di violazioni riconducibili all'agire del medesimo soggetto, assumendosi una nozione di ‘pluralità di violazioni' nel senso che ciascuno dei provvedimenti risultasse inficiato da una condotta inosservante ascrivibile all'agente, si dovrebbe concludere nel senso della pluralità di illeciti posti in essere dal medesimo soggetto, secondo la formulazione di un principio che si potrebbe suggellare nell'inedita formula tot judicia, tot crimina.

Ad una simile conclusione dovrebbe pervenirsi, ed è ciò che più rileva nella presente sede, anche nell'ipotesi in cui il comportamento posto in essere dall'agente, una volta accertata la sua identità dettata dall'assenza di variazione delle componenti empiriche che lo contraddistinguono, pur nell'ipotesi in cui la sua concreta estrinsecazione dovesse protrarsi lungo uno specifico lasso temporale, conducesse alla violazione di una molteplicità di provvedimenti giurisdizionali, emessi in momenti cronologici distinti.

Difatti, anche in tal caso, la logica volta a presiedere l'attività dell'interprete dovrebbe necessariamente assumere quale primario parametro di riferimento il singolo provvedimento dell'Autorità giudiziaria e ciò al fine di garantirne l'esecutorietà; sicché l'eventuale vulnus arrecato alla regola decisoria in esso sancita, pur in presenza di un comportamento riconducibile al medesimo autore, che non soltanto apparisse identico nella sua materialità, malgrado il suo protrarsi nel tempo, ma risultasse altresì fonte della violazione di un precedente provvedimento giurisdizionale, sarebbe destinato ad acquisire rilevanza decisiva al fine di sancire l'integrazione di un nuovo fatto penalmente rilevante, dotato di autonomia strutturale in rapporto al fatto precedentemente consumatosi con la violazione del primo provvedimento giurisdizionale.

Appare innegabile come una siffatta impostazione ermeneutica che, malgrado l'assenza di specifici riferimenti all'interno del corpo motivazionale della sentenza in scrutinio, ben potrebbe avere rappresentato la ratio postane a fondamento, non si profili quale un novum interpretativo all'interno del nostro panorama ordinamentale, dal momento che sembrerebbe fondare le proprie basi su quell'indirizzo esegetico diffusosi in seno ad una parte della dottrina e accolto altresì all'interno di una parte del formante giurisprudenziale, secondo cui la previsione incriminatrice di cui all'art. 388 c.p. sarebbe volta, in via primaria, a tutelare un bene di natura pubblicistica.

Difatti, sulla scorta di tale indirizzo interpretativo e al fine di corroborare il predetto assunto, si è osservato come la collocazione sistematica della fattispecie, inserita nella sfera dei delitti contro l'amministrazione della giustizia, rappresenterebbe il primo indice della natura metaindividuale del bene protetto, che per un verso, mantenendosi una dimensione più eminentemente astratta, potrebbe individuarsi nell'esigenza di preservare la forza precettiva che rappresenta un contenuto intrinseco dei provvedimenti giurisdizionali e, per altro verso, valorizzandosi una componente intrisa da un maggior coefficiente di concretezza, potrebbe altresì specificarsi nella necessità di salvaguardare le risorse pubbliche impiegate al fine di pervenire all'emissione di un provvedimento di tal natura, in modo da sanzionare i comportamenti inosservanti dei consociati che appaiano idonei a vanificare l'avvenuto dispendio delle suddette risorse.

Sviluppate le premesse che precedono, l'iter argomentativo adottato nel presente caso dai giudici di legittimità appare prestare il fianco alla formulazione di taluni rilievi critici, potendosi operare alcune precisazioni che, ove accolte, consentano di individuare l'esistenza di un diverso sentiero interpretativo che, se percorso, potrebbe condurre alla formulazione di un principio di diritto di matrice prettamente garantista, volto a scongiurare (rectius: prevenire) la violazione del canone del ne bis in idem, fermo restando che, come ripetutamente affermato, alla luce dei singoli elementi caratterizzanti il caso concreto, un simile epilogo non appariva decretabile nell'ambito dell'odierna vicenda processuale.

Giova premettere che non s'intende revocare in dubbio i presupposti che definiscono la configurabilità del delitto di cui all'art. 388 c.p. Appare difatti possibile rilevare come la struttura del predetto illecito sia articolata secondo una schema triadico: da un lato si rende necessaria la realizzazione, da parte dell'agente, di un comportamento che si estrinsechi nella realtà concreta; al contempo, presupposto indefettibile per l'integrazione dell'illecito – ovvero per la sua punibilità, ove ci si riferisca alla previsione delineata dal primo comma, in cui l'inottemperanza all'ingiunzione di eseguire il provvedimento rappresenta la condizione oggettiva dal cui verificarsi dipende la punibilità del reato – appare rappresentato dall'esistenza di un provvedimento emesso dall'Autorità giudiziaria, che deve costituire l'oggetto della violazione ascrivibile alla condotta posta in essere dall'agente; da ultimo, lo stadio finale che permette di ritenere perfezionato il reato è rappresentato dal ricorrere degli ulteriori requisiti tipizzati nel testo della fattispecie incriminatrice, la cui presenza consente, in via definitiva, di addivenire all'infrazione della legge penale.

Orbene, il contenuto della pronuncia in commento offre lo spunto per provare a fornire talune coordinate che consentano di stabilire, con precipuo riferimento al delitto in oggetto, in quale ipotesi ci si trovi al cospetto del medesimo fatto, ovvero qualora ci si trovi innanzi a dei fatti eterogenei.

Per un verso, al fine di aderire alla prospettata ricostruzione teorica che tende ad articolare l'ossatura del delitto di cui si narra in una struttura triadica, appare innegabile come la statuizione in ordine alla medesimezza ovvero eterogeneità dei fatti contestati non possa ancorarsi all'analisi del solo comportamento ascrivibile all'agente, estrinsecatosi nella realtà empirica – il quale, per attenersi alla vicenda oggetto di giudizio, corrisponde alla condotta dell'imputato consistita nell'ubicare talune autovetture all'interno di un garage, producendo in tal modo il relativo evento consistente nella limitazione della facoltà di utilizzo del medesimo bene da parte del padre – prescindendosi, al contempo, dal contenuto e dalla natura del provvedimento giurisdizionale violato dall'agere del reo.

Il comportamento dell'agente, difatti, isolatamente considerato, non appare idoneo ad integrare la fattispecie delittuosa di cui all'art. 388 c.p., residuando al più un margine di operatività per la configurabilità di una differente ipotesi criminosa, che, a titolo esemplificativo, potrebbe individuarsi nel delitto di violenza privata.

Viceversa, la sussumibilità del medesimo comportamento nel perimetro operativo dell'art. 388 c.p. discende dalla sussistenza di un primo provvedimento emesso dall'Autorità giudiziaria, corrispondente all'ordinanza cautelare del settembre 2007, che nel vietare a Tizio l'utilizzo del bene immobile – o, comunque, nell'intimargli un utilizzo che ne garantisse una fruibilità anche da parte del padre – ha assolto alla funzione di termine relazionale del comportamento posto in essere dall'imputato, risultato in palese contrasto con la regola sancita nella decisione promanante dall'organo giurisdizionale.

Ciò posto, ci si deve interrogare attorno alla possibilità di ritenere configurato un fatto illecito unitario o, al contrario, una pluralità di violazioni della medesima disposizione penale allorché il comportamento dell'agente non si esaurisca in un unico frangente temporale. Sul punto, appare utile prospettare una pluralità di situazioni che ben potrebbero profilarsi nella realtà empirica, al fine di verificare quale soluzione risulti più pertinente per ciascuna di esse.

L'elemento discretivo tra le fattispecie che ci si accinge ad analizzare denota una valenza diacronica, dal momento che si rende necessario indagare se il comportamento inosservante del provvedimento giurisdizionale si protragga senza soluzione di continuità, ovvero, al contrario, se a seguito della realizzazione di una prima condotta che si ponga in contrasto con la decisione giudiziaria, l'agente vi abbia successivamente conformato il proprio comportamento, per poi pervenire a realizzare nuovamente una condotta antitetica ad essa.

Nella prima ipotesi, vale a dire qualora l'inosservanza del provvedimento si protragga nel tempo senza soluzione di continuità, sembrerebbe necessario concludere, proprio in forza dell'orientamento invalso in seno alla giurisprudenza, che risulta peraltro confermato nella presente sentenza, nel senso che ci si trovi al cospetto del medesimo fatto illecito, che risulterebbe integrato nel momento in cui l'agente ponga in essere un comportamento distonico rispetto al contenuto del provvedimento del giudice, mentre l'immutato reiterarsi del medesimo comportamento anche in un arco temporale successivo alla sua prima estrinsecazione dovrebbe necessariamente condurre ad allocare tale segmento fattuale nella sfera degli effetti permanenti di un illecito già perfezionatosi.

Di tal ché, conseguenza di tale opzione ermeneutica appare l'impossibilità di procedere ad una contestazione di una pluralità di illeciti penali a carico del medesimo soggetto, per la violazione della stessa disposizione incriminatrice, e del correlato divieto di pronunciare a suo carico una pluralità di sentenze di condanna, pena la violazione del ne bis in idem, sia nella prospettiva sostanziale che in quella processuale.

Viceversa, lo scenario potrebbe mutare nell'ipotesi in cui l'agente, dopo aver realizzato una prima violazione del provvedimento giurisdizionale, si ravvedesse, conformando la propria condotta alla regola prescritta nella decisione giudiziaria, per poi pervenire a realizzare, in un frangente temporale successivo, lo stesso comportamento, recante le medesime caratteristiche empiriche, che si porrebbe, pertanto, nuovamente in contrasto con l'autorità della predetta decisione.

In tal caso si potrebbe configurare un c.d. intervallo di liceità, durante il quale si assisterebbe alla riespansione della sfera giuridica del creditore, precedentemente compressa dalla condotta posta in essere dall'agente, ed in tale lasso temporale il creditore beneficerebbe del corretto adempimento posto in essere dal debitore.

In una situazione di tal natura si potrebbe pervenire ad affermare che risulti integrata una pluralità di illeciti, stante la violazione in momenti temporali distinti della medesima disposizione incriminatrice, in ragione dell'intervallo cronologico intercorrente tra il primo ed il secondo comportamento inosservante del provvedimento dell'Autorità giudiziaria, pur nell'ipotesi in cui i comportamenti, isolatamente considerati, a prescindere cioè dall'esperimento di un giudizio che li ponga in relazione col contenuto della decisione giudiziaria, possano reputarsi identici, in quanto accomunati dalle medesime caratteristiche fattuali.

Ad una simile conclusione sembrerebbe peraltro più agevole pervenire nell'ipotesi in cui l'intervallo temporale intercorrente tra i due distinti comportamenti posti in essere dall'agente appaia significativo, alla stregua di un giudizio fondato su parametri obiettivi che permetta di valutare il complesso delle circostanze attinenti al caso concreto, dal momento che ove il venir meno del comportamento osservante si inserisca in un frangente temporale di durata talmente esigua da non consentire al creditore di beneficiare del c.d. intervallo di liceità, sembrerebbe più adeguato ritenere che il fatto rimanga il medesimo, trattandosi di una soluzione maggiormente conforme ai principi che informano l'ordinamento, che intendono prevenire una duplicazione di sanzioni a carico dello stesso soggetto per la realizzazione del medesimo fatto, posto che in tal caso ci si troverebbe, per l'appunto, al cospetto di un fatto unitario.

Viceversa, qualora l'intervallo di liceità risultasse più ampio, non parrebbe possibile escludere in radice la configurabilità di una pluralità di illeciti, con la conseguenza, da un punto di vista procedimentale, che le violazioni del medesimo provvedimento giurisdizionale potrebbero costituire oggetto di accertamento nell'ambito del medesimo procedimento e, sotto il versante sostanziale, si potrebbe pervenire all'inflizione di una condanna, pur se attraverso l'emissione di un'unica sentenza, volta a sanzionare la pluralità di illeciti consumatisi, ancorché accomunati dall'identità del reo, delle caratteristiche empiriche del comportamento posto in essere e, da ultimo, dalla violazione della medesima disposizione incriminatrice.

Ad una soluzione di tal segno che, giova premettere, appare suscettibile di essere assoggettata a rilievi critici, si potrebbe giungere valorizzando la componente relativa all'interesse del privato che risulti sotteso al contenuto del provvedimento giurisdizionale. Esso, difatti, apparirebbe inficiato dal moltiplicarsi dei comportamenti inottemperanti posti in essere dall'agente, potendosi prospettare come, in tal caso, i comportamenti successivi al primo non condurrebbero ad un approfondimento dell'offesa già prodottasi con la prima condotta inosservante, quanto al replicarsi ex novo della medesima offesa, attribuendo, in via conclusiva, rilievo autonomo alle singole condotte perpetrate dal reo.

Ad ogni modo, come anticipato, la prospettazione di una simile opzione esegetica potrebbe essere destinata a non trovare accoglimento, in ragione del più marcato tasso di afflittività degli esiti che produrrebbe.

Maggiormente complessa, ancorché più affine alla vicenda processuale sottoposta al vaglio della Corte di cassazione, appare l'ipotesi in cui la fattispecie concreta imponga di esperire un giudizio triadico, nel senso che il comportamento posto in essere dall'agente non entri in collisione con un unico provvedimento giurisdizionale, bensì giunga a violarne almeno due.

Anche in tale ipotesi, al fine di enucleare delle conclusioni che risultino coerenti col dato normativo, appare utile procedere ad un'opera classificatoria.

Si supponga, in primo luogo, che l'agente realizzi un comportamento recante alcune specifiche caratteristiche – ad esempio, il parcheggiare talune autovetture all'interno di un garage – il quale si sviluppi lungo un determinato lasso temporale, senza mai subire una mutazione fisionomica, sulla scorta della percezione che di tale accadimento potrebbe avere un osservatore esterno.

Si ipotizzi, inoltre, che il predetto comportamento si ponga, in una prima fase, in contrasto con un provvedimento giurisdizionale, in tal modo configurandosi non solo la lesione al bene-interesse individuato nella tutela della forza precettiva delle decisioni giudiziarie ma, a fortiori, menomandosi l'interesse del privato la cui iniziativa procedimentale abbia condotto all'emissione di quello specifico provvedimento.

Si supponga, da ultimo, che tale comportamento, rimasto costantemente immutato quanto alle sue caratteristiche empiriche – così potendosi, a titolo esemplificativo, menzionare il caso del medesimo soggetto (Tizio) il quale perpetui nella medesima condotta (il mantenere parcheggiate le stesse autovetture) nell'ambito del medesimo contesto spaziale (lo stesso garage), pervenendo in tal modo alla produzione del medesimo evento lesivo (rappresentato dalla limitazione della facoltà di utilizzo del bene da parte del padre) – giunga, in una seconda fase, a violare un ulteriore provvedimento giurisdizionale, il quale, però, non soltanto abbia ad oggetto la medesima vicenda fattuale, ma si profili altresì alla stregua di un provvedimento che si innesti nel medesimo procedimento giurisdizionale, rappresentando il corollario dell'iniziativa giudiziaria assunta da parte del soggetto che si doleva della lesione di un diritto soggettivo di cui si accerti essere il titolare.

E ancora. Ove dall'esame della relazione intercorrente tra i due provvedimenti succedutisi nel tempo emerga che il primo sia destinato a dispiegare degli effetti a carattere meramente provvisorio, stante la sua natura cautelare, allorché il provvedimento emesso in un'epoca posteriore sia idoneo a garantire la produzione di effetti definitivi, in ragione della sua natura di provvedimento di merito, adottato all'esito di una piena attività di cognizione che consenta, altresì, di conferirgli una forza attrattiva che gli permetta di inglobare al suo interno l'originario provvedimento emesso a titolo cautelare, data l'identità del thema decidendum.

Delineate le predette coordinate, appare porsi un bivio interpretativo innanzi all'esegeta, dovendo stabilire se ci si trovi al cospetto di un unico fatto penalmente illecito – rappresentato dalla violazione dell'art. 388 c.p. – ovvero se l'esistenza di due distinti provvedimenti giurisdizionali, pur se emessi in seno al medesimo procedimento, imponga di ritenere integrata una duplice violazione della legge penale, con correlata duplicazione sanzionatoria.

Sulla scorta dell'argomentazione che si svilupperà nel prosieguo, sembrerebbe preferibile propendere per un'interpretazione volta a valorizzare la componente dell'illecito in scrutinio preposta alla tutela dell'interesse del privato a conseguire l'utilità riconosciutagli con la pronuncia del provvedimento giurisdizionale, dal momento che essa, alla luce di una prospettiva tesa a conferire un rilievo preminente al canone della offensività, con particolare riguardo alla sua dimensione concreta, appare preferibile ove rapportata ad una visione ermeneutica che, al contrario, intenda valorizzare la dimensione pubblicistica del delitto in parola.

Difatti, qualora si dovesse optare per tale secondo binario interpretativo, si dovrebbe giungere a statuire la sussistenza di una pluralità di illeciti, data l'avvenuta violazione di due differenti provvedimenti giurisdizionali mediante l'esecuzione del comportamento imputabile all'agente.

Esso, difatti, ancorché identico sotto il profilo delle sue componenti materiali, violerebbe in due differenti momenti temporali due distinti provvedimenti del giudice e, a ciascuna violazione, dovrebbe necessariamente conseguire l'inflizione di una sanzione, in attuazione del principio in precedenza enucleato del “tot iudicia, tot crimina”.

Una simile impostazione, ancorché in astratto non risulterebbe porsi in contrasto col principio di legalità, dal momento che implicherebbe una duplicazione sanzionatoria in presenza di due condotte differenti sia sotto il profilo temporale nonché per il parametro oggetto della relativa violazione, al contempo non appare pienamente convincente, posto che attraverso la sua attuazione si assisterebbe allo spostamento del baricentro dell'illecito di cui all'art. 388 c.p. verso la sanzione del mero atteggiamento di infedeltà manifestato dall'agente nei confronti dell'ordinamento giuridico, con particolare riferimento alla branca istituzionale rappresentata dall'esercizio del potere da parte degli organi giurisdizionali.

In sostanza, in tal guisa, risulterebbe privilegiata l'esigenza di sanzionare il contegno ribelle assunto dal singolo, che abbia volontariamente deciso di non conformare il proprio operato alle decisioni adottate dall'Autorità giudiziaria, ancorché dal punto di vista della tipologia del comportamento posto in essere durante uno specifico lasso temporale, analizzato a prescindere dalla sua contrarietà con i provvedimenti giurisdizionali, non sembrerebbe possibile scorgere dei mutamenti che consentano di qualificarlo alla stregua di un fatto eterogeneo rispetto a quello originario.

Di conseguenza, il riscontro in ordine alla medesimezza delle componenti sostanziali del comportamento protrattosi nel tempo e, a fortiori, l'accertamento della medesimezza dell'offesa arrecata nei confronti del (giova ripetersi), medesimo interesse facente capo al privato titolare della situazione giuridica soggettiva inficiata dall'agire inosservante del reo, dovrebbero fisiologicamente condurre ad affermare che, malgrado l'avvenuta violazione di due distinti provvedimenti emessi in seno al medesimo procedimento, a condizione che il comportamento del reo si sia realizzato senza soluzione di continuità, ci si trovi al cospetto del medesimo fatto, precludendosi in tal modo la via all'eventualità di veder pronunciata una duplice sentenza di condanna.

Ove così non fosse si opterebbe per privilegiare una visione più marcatamente formalistica che, al fine di ritenere perfezionato il fatto criminoso, si accontenterebbe di accertare la disobbedienza dell'imputato ai provvedimenti dell'Autorità giudiziaria, prescindendosi al contempo da un'attività di accertamento volta a verificare se il reiterarsi del contegno disobbediente apparisse altresì idoneo alla produzione di offese difformi, eventualmente a detrimento di beni eterogenei, ovvero se la reiterata adozione di una condotta inottemperante possa, al più, condurre all'approfondimento di un'offesa già prodottasi con la prima condotta, a sua volta inosservante delle prescrizioni impartite dall'Autorità giudiziaria.

Sulla base dei rilievi che precedono sembrerebbe, pertanto, opportuno suggerire l'adozione di un'interpretazione che ancori il proprio nucleo ad una dimensione più eminentemente sostanzialistica, nel senso che l'interprete non dovrebbe accontentarsi di accertare l'avvenuto contrasto tra la condotta del reo ed i singoli provvedimenti giurisdizionali, ma dovrebbe tendere ad ampliare il raggio dell'accertamento, in modo da verificare l'eventuale coincidenza delle ragioni poste a fondamento dei provvedimenti susseguitisi nel tempo e, ancor di più, l'identità della situazione giuridica tutelata attraverso l'emissione di essi.

In tal modo, la circostanza che la violazione delle decisioni pronunciate dall'Autorità giudiziaria sia avvenuta in due differenti momenti temporali, sarebbe destinata a perdere di importanza nella prospettiva di dover dissipare il dubbio in ordine alla medesimezza ovvero eterogeneità del fatto commesso, posto che il fattore che parrebbe destinato ad assumere una valenza decisiva sarebbe rappresentato dalla natura identitaria dell'offesa arrecata.

La prospettata impostazione teorica risulterebbe fisiologicamente da privilegiare al cospetto di una fattispecie dai contenuti analoghi a quelli connotanti l'odierna vicenda, dal momento che ove la pluralità dei provvedimenti sia comunque riconducibile al medesimo procedimento giurisdizionale e, a fortiori, ove il rapporto intercorrente tra le predette decisioni si collochi sull'asse provvedimento cautelare/provvedimento di merito, confermativo, peraltro, delle statuizioni rese in sede cautelare, si potrebbe suggerire all'interprete di applicare l'equazione secondo cui, da un unitario procedimento giurisdizionale – pur se articolato nell'emissione di una pluralità di provvedimenti – non possa che discendere la commissione di un unico fatto di reato, pur in presenza dell'inosservanza dei singoli provvedimenti.

Una volta inquadrati i termini della questione, giova altresì interrogarsi attorno alle problematiche operative che potrebbero derivare dall'adozione di una simile impostazione ermeneutica. Difatti, ci si deve domandare quale possa essere la sorte del secondo dei procedimenti penali instaurati nei confronti del medesimo imputato, venendo in rilievo, con riferimento al primo procedimento, la violazione del primo provvedimento giurisdizionale e, con riguardo al secondo procedimento, l'inosservanza del secondo provvedimento emesso dall'Autorità giudiziaria.

Orbene, ove il primo procedimento non risulti ancora concluso in via definitiva, non potendosi pervenire all'adozione di una pronuncia di proscioglimento, in ragione del difetto dei requisiti disciplinati dall'art. 649, cpv., c.p.p., parrebbe necessario scorgere dei rimedi alternativi, in quanto sembrerebbe difficile tollerare che nei confronti del medesimo soggetto possano pendere due procedimenti paralleli, attinenti all'accertamento del medesimo comportamento ad esso imputabile, afferente alla trasgressione della volontà espressa dall'ordinamento, ancorché manifestata ad intervalli temporali, mediante l'adozione di una pluralità di provvedimenti, secondo un iter progressivo di formazione della voluntas giurisdizionale in cui peraltro il contenuto della decisione originaria non risulti smentito dal successivo sviluppo processuale.

Sicché sembrerebbe possibile prospettare che in un caso del genere si configurerebbe un onere in capo all'organo della pubblica accusa che abbia istruito il primo procedimento penale, consistente nel prendere atto della sopravvenienza rappresentata dall'emissione in sede civile della sentenza confermativa dell'ordinanza cautelare e, per tale ragione, procedere alla modifica della contestazione formulata nel capo d'imputazione, sulla base di quanto previsto dall'art. 516 c.p.p. in tema di contestazione di un fatto diverso.

A tale soluzione sembrerebbe possibile arrivare in forza dell'interpretazione giurisprudenziale che sostiene che il fatto possa ritenersi diverso ove esso abbia connotati materiali difformi rispetto a quelli enunciati nel decreto che dispone il giudizio, ovvero nel decreto di citazione diretta a giudizio. Pertanto, in una simile ipotesi, il comportamento contestato all'imputato risulterebbe differente rispetto a quello cristallizzato nel provvedimento di citazione a giudizio emesso dal P.M., ovvero nel decreto emesso dal G.U.P., dal momento che risulterebbe mutato il parametro della violazione della condotta inosservante, rappresentato non più dall'ordinanza cautelare, bensì dalla sentenza emessa all'esito della fase di cognizione.

In tal modo, pertanto, si potrebbe prevenire l'instaurazione di un secondo procedimento penale a carico del medesimo soggetto, avente ad oggetto la contestazione della violazione del dictum cristallizzato nella sentenza di merito.

Ciò posto, potrebbero residuare dei dubbi ulteriori relativi alla perdurante rilevanza del comportamento dell'agente sostanziatosi nell'inosservanza del primo provvedimento giurisdizionale. Sul punto, al fine di limitare la risposta repressiva, si potrebbe prospettare l'evenienza per cui il giudice del primo procedimento dovrebbe comunque effettuare una valutazione complessiva della condotta posta in essere dall'agente, in modo da valorizzare la circostanza inerente alla realizzazione di un comportamento ininterrottamente inosservante delle prescrizioni impartite dal giudice civile, capace di infrangere le regole enucleate in due differenti provvedimenti.

Tale componente sarebbe destinata ad assumere rilevanza sulla scorta dei parametri enucleati dall'art. 133 c.p., con particolare riferimento sia al disposto di cui al comma 1, n. 1), ove, ex aliis, si menzionano la natura ed il tempo dell'azione, sia con riguardo alla previsione delineata dal medesimo comma 1, n. 2), rappresentata dalla gravità del danno cagionato alla persona offesa dal reato.

Un ulteriore sforzo interpretativo potrebbe condurre ad esperire un tentativo volto a comprendere in quale rapporto si collochino le due condotte ascrivibili al medesimo soggetto, violative dei due differenti provvedimenti giurisdizionali. Pur non potendo nascondere che tale sforzo ricostruttivo non appaia pienamente agevole, si potrebbe comunque tentare di invocare le figure del reato progressivo, ovvero della progressione criminosa, ponendosi però, in rapporto a ciascuna di esse, taluni nodi critici.

Difatti, come noto, l'istituto del reato progressivo postula la realizzazione, mediante l'attuazione di un unico comportamento, di un fatto penalmente rilevante, il quale ingloba al suo interno un'ulteriore figura criminosa, di minore gravità, che in ragione del principio dell'assorbimento e nell'ottica di non pervenire ad una duplicazione sanzionatoria, non risulta punibile.

Orbene, per un verso potrebbe tentarsi di applicare tale schema all'ipotesi analizzata nella presente sede, il che presupporrebbe la qualificazione del comportamento dell'agente alla stregua di un unico fatto, sfociato nella violazione della sentenza di merito emessa in sede civile; al contempo, si dovrebbe pervenire ad affermare che la pregressa violazione dell'ordinanza cautelare verrebbe assorbita nella successiva condotta violativa della sentenza di merito e, pertanto, sarebbe insuscettibile di essere sanzionata in via autonoma.

Sennonché una simile impostazione interpretativa ben potrebbe prestare il fianco a talune obiezioni critiche, dal momento che imporrebbe di considerare alla stregua di un comportamento unitario, altresì sotto il profilo temporale, il comportamento posto in essere dall'agente, malgrado appaia difficile revocare in dubbio che l'inosservanza dei due differenti provvedimenti giurisdizionali sia maturata in momenti diversi.

Una soluzione intermedia potrebbe essere individuata nell'applicazione della figura del c.d. reato progressivo eventuale, che, al pari di quello che potrebbe qualificarsi come reato progressivo necessario, si concretizzerebbe nella realizzazione di un fatto penalmente rilevante, che al suo interno inglobi un altro fatto dotato di rilevanza penale, la cui verificazione non apparrebbe però necessaria, dal momento che una sua eventuale assenza non precluderebbe la configurabilità del fatto in concreto sanzionabile, a differenza di quanto previsto in tema di reato progressivo necessario.

In tal modo, potrebbe conferirsi una spiegazione logica alla punibilità della sola condotta inosservante del secondo provvedimento giurisdizionale, dal momento che, ragionando in termini astratti, una simile violazione non presuppone necessariamente una pregressa violazione di un differente provvedimento giurisdizionale, posto che tale provvedimento potrebbe altresì difettare nella realtà empirica.

In una differente prospettiva interpretativa si potrebbe ipotizzare di invocare l'applicazione della figura della progressione criminosa che, al contrario del reato progressivo, presuppone, da un punto di vista naturalistico, una pluralità di comportamenti posti in essere dal medesimo soggetto, frutto di differenti risoluzioni criminose, ciascuno dei quali idoneo ad integrare un'autonoma fattispecie di reato, da cui discenda, in via definitiva, la realizzazione di un evento idoneo a configurare una fattispecie criminosa più grave in rapporto ai fatti che abbiano costituito gli stadi intermedi per giungere all'evento finale, i quali risulteranno assorbiti in tale ultimo evento e, pertanto, non punibili in via autonoma.

In tal caso, la molteplicità dei fatti andrebbe individuata nella realizzazione di una prima condotta inosservante del provvedimento cautelare emesso dal giudice civile ed in una seconda condotta postasi in contrasto col provvedimento di merito emesso dal medesimo giudice, che darebbe luogo ad una scala di gravità crescente in ragione del fatto che la violazione di un provvedimento reso all'esito di un giudizio di merito potrebbe configurare un'offesa più profonda al medesimo bene giuridico, rispetto a quella prodotta con la violazione di un provvedimento di natura cautelare.

Sul punto, però, deve osservarsi come la predetta conclusione potrebbe non apparire soddisfacente, dal momento che, pur nell'ipotesi in cui si intendesse accogliere siffatta concezione protesa a scorgere una gravità crescente nella filiera dei comportamenti posti in essere dall'agente, risulterebbe innegabile come, pur a fronte di condotte distinte, si perverrebbe alla violazione della medesima fattispecie incriminatrice e ciò potrebbe apparire preclusivo in ordine alla possibilità di veder configurata un'ipotesi di progressione criminosa.

Al contempo, laddove si optasse per la qualificazione di un simile comportamento nei termini che precedono, si dovrebbe necessariamente affermare che le condotte poste in essere dall'agente siano state plurime, disattendendosi in tal modo la ricostruzione protesa a ritenere che, da un punto di vista naturalistico, la condotta ascrivibile all'agente debba ritenersi unitaria, in ragione della sua perdurante identicità nel corso del lasso di tempo in cui si sia estrinsecata.

Ciò che risulta divergere, difatti, è rappresentato dall'oggetto della violazione, corrispondente ai provvedimenti giurisdizionali succedutisi nel tempo, la cui sussistenza rappresenta il presupposto per l'integrazione del fatto di reato.

I suesposti nodi problematici non consentono, comunque, di addivenire ad una soluzione univoca in ordine alla possibile operatività delle predette figure criminose ovvero, al contrario, di escluderne in radice l'applicabilità in rapporto ad una fattispecie recante gli ormai noti connotati.

Fermo quanto sopra, appare utile, in via conclusiva, formulare talune riflessioni analoghe a quelle svolte in precedenza, relative all'ipotesi in cui la condotta inosservante dell'agente non rimanga immutata nel corso del tempo, bensì, ad un tratto, si tramuti in una condotta osservante del contenuto della decisione giudiziaria, il che permetta di veder configurato il c.d. intervallo di liceità.

Ove tale situazione dovesse riscontrarsi al cospetto, però, non più di un unico provvedimento giurisdizionale, bensì di almeno due di essi, sembrerebbe possibile ritenere integrata una pluralità di fatti illeciti, dal momento che il primo segmento dell'agire del reo si porrebbe in contrasto col primo provvedimento, apparendo ciò solo sufficiente ad integrare il delitto ex art. 388 c.p. Al contempo, ove a seguito dell'eventuale realizzazione di una condotta osservante, si dovesse nuovamente porre in essere un comportamento che risultasse contrastare col secondo provvedimento giurisdizionale, sembrerebbe possibile configurarsi una nuova violazione della legge penale, idonea a dar luogo ad un ulteriore fatto penalmente rilevante. Pertanto, in tal caso, ove dovesse pervenirsi alla pronuncia di una duplice sentenza di condanna, sembrerebbe arduo prospettare la violazione del ne bis in idem, in ragione del fatto che la duplice inottemperanza alle decisioni rese dall'Autorità giudiziaria risulterebbe il frutto di una scelta libera e consapevole assunta dall'agente.

Tale ultimo profilo consente di formulare una riflessione conclusiva, volta a denotare come il tentativo di ampliare le maglie di operatività del principio del ne bis in idem non possa comunque condurre all'abdicazione del rispetto del canone della legalità, che deve ininterrottamente presiedere il corretto incedere dell'ordinamento penalistico.

Guida all'approfondimento

BISORI, La mancata esecuzione dolosa di provvedimenti del giudice, in Cadoppi – Canestrari – Manna – Papa, Trattato di diritto penale. Parte speciale-III, Torino, 2008.

MANNUCCI PACINI, Art. 388, in E. Dolcini – G. L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, Milanofiori Assago, 2015, p. 1354 ss.

MONTICELLI, Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, in Cadoppi – Canestrari – Manna – Papa, Trattato di diritto penale. Parte generale e speciale – Riforme 2008-2015, Torino, 2015.

NASCIMBENE, Ne bis in idem, diritto internazionale e diritto europeo, in Dir. pen. cont., 2 maggio 2018

PISA, Provvedimenti del giudice (mancata esecuzione dolosa di), in Dig. disc. pen., X, Torino, 1995, 441 ss.

RAFARACI, Ne bis in idem, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 857 ss.

RUGGIERO, Il ne bis in idem: un principio alla ricerca di un centro di gravità permanente, in Cass. pen., 2017, 10, 3809 ss.

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