Registrazione in caso d'uso: nozione e problemi applicativi

06 Settembre 2019

Queste note hanno ad oggetto il caso d'uso nell'imposta di registro e, più in particolare, l'analisi di alcuni problemi applicativi che derivano dalla nozione e dalla disciplina, entrambe piuttosto incerte, di detto istituto. L'opportunità della ricerca deriva dal fatto che i contributi della dottrina e della giurisprudenza sul tema sono limitati e si prestano a diverse interpretazioni.
Premessa

Queste note hanno ad oggetto il caso d'uso nell'imposta di registro e, più in particolare, l'analisi di alcuni problemi applicativi che derivano dalla nozione e dalla disciplina, entrambe piuttosto incerte, di detto istituto. L'opportunità della ricerca deriva dal fatto che i contributi della dottrina e della giurisprudenza sul tema sono limitati e si prestano a diverse interpretazioni.

La prima norma a prevedere l'obbligo di registrazione di taluni atti in caso d'uso era contenuta nel R.D. n. 3269/1923 (art. 2, R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, rubricato “Approvazione del testo di legge del Registro”: “Si ha caso d'uso agli effetti della presente legge: 1° Quando gli atti si presentano o si producono in giudizio davanti l'autorità giudiziaria e nei procedimenti in sede giurisdizionale avanti il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, le Giunte provinciali amministrative, i Consigli di prefettura ed ogni altra speciale giurisdizione e quando si producono davanti agli arbitri; 2° Quando si riportano in tutto o in parte in atti pubblici o privati soggetti a registrazione o si inseriscono negli atti, pure soggetti a registrazione, delle cancellerie giudiziarie o delle pubbliche amministrazioni o degli enti pubblici”), sul quale ritorneremo in seguito.

Successivamente, a seguito della delega al Governo per una riforma dell'intera materia fiscale (Legge 9 ottobre 1971, n. 825), fu approvato il d.P.R. n.634/1972, il cui art. 6* coincide sostanzialmente con l'art. 6 del d.P.R. n. 131/1986, che attualmente rappresenta la normativa di riferimento, ai fini dell'imposta di registro.

In evidenza: Art. 6,

d.P.R. n. 634/1972

:
Si ha caso d'uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o gli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell'adempimento di una obbligazione dell'amministrazione o dell'ente”.

Quest'ultima norma così dispone:

Si ha caso d'uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell'adempimento di un'obbligazione delle suddette amministrazioni, enti o organi ovvero sia obbligatorio per legge o regolamento”.

La norma in parola difetta di chiarezza, lasciando incertezze sull'ambito di applicazione e sugli elementi costitutivi dell'istituto. Ed infatti la dottrina, come vedremo meglio in seguito, ha espresso opinioni diverse su tali elementi, rintracciati talora in criteri soggettivi, quali la volontarietà del deposito o lo scopo perseguito dal depositante, e talora in criteri oggettivi, quali la definitiva acquisizione del documento depositato. Anche dalla giurisprudenza non emergono soluzioni nette su tali questioni.

D'altra parte, l'Amministrazione finanziaria tende a dare un'interpretazione assai estensiva dell'art. 6 del d.P.R. n. 131/1986, poiché, ad esempio, ha spesso notificato avvisi di liquidazione dell'imposta di registro, ritenendo che la semplice esibizione di un documento da parte del contribuente, nel contesto di una verifica fiscale o di una procedura precontenziosa, potesse integrare la fattispecie del deposito ai sensi del succitato art. 6. Tale impostazione suscita perplessità e rende attuale l'esigenza di verificare in quali casi detta prassi dell'Amministrazione finanziaria possa considerarsi corretta.

Pertanto, procederemo ad affrontare il problema centrale relativo alla nozione di “caso d'uso”, tramite un esame critico dei possibili elementi costitutivi dell'istituto. Quindi, prenderemo in considerazione l'importante questione relativa all'eccezione data dalle finalità difensive del depositante.

**(Per un'analisi più approfondita dell'istituto, si segnalano, fra gli altri, M. Beghin, Diritto tributario, Milano, 2018, p. 751; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2018, p. 990; G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, p. 809; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano 2009, p. 364.)

Volontarietà del deposito

Una prima tesi dottrinale (E. Manoni, “Enunciazione e caso d'uso nell'imposta di registro”, Milano, n. 19, 2018, p. 1848; A. Montesano, B. Iannello, “Imposte di registro ipotecaria e catastale”, Milano, 2009, p. 34.) individua un elemento costitutivo del caso d'uso nel carattere della volontarietà della produzione dell'atto. Il deposito, per essere considerato come caso d'uso soggetto ad imposta, presupporrebbe la volontarietà del comportamento di chi procede alla consegna del documento e non andrebbe confuso con il diverso caso in cui la messa a disposizione del documento risulti mediata da un ordine o da un invito nei confronti del soggetto che ne ha la disponibilità. In quest'ultima ipotesi, quando cioè la sottoposizione dell'atto a deposito non è spontanea, ma frutto di una sollecitazione dell'Ufficio, si sarebbe al di fuori del campo di applicazione del caso d'uso.

Per chiarire meglio questa differenza, la dottrina in oggetto distingue fra “deposito” ed “esibizione” del documento (Manoni, “Enunciazione”, cit., p. 1848). In sostanza, essa si fonda su un'interpretazione restrittiva del concetto di “depositoex art. 6 del d.P.R. n. 131/1986. Adduce l'esempio del deposito di un documento in sede di verifica fiscale: in tal caso, il contribuente non provvede di propria spontanea iniziativa ad esibire un documento all'Ufficio, non avendo alcun interesse concreto a metterlo a disposizione, ma è spinto a depositarlo su richiesta dell'Amministrazione. Difettando il carattere della volontarietà/spontaneità della consegna, non ricorrerebbe il caso d'uso. Questi autori, inoltre, ritengono che tale interpretazione sia confermata dalla giurisprudenza (Cass. Civ., sez. trib., 23 maggio 2005, n. 10865).

A nostro avviso, questa tesi, sebbene abbia il pregio di valorizzare, per certi aspetti, l'interesse che anima colui che provvede all'esibizione del documento, non è convincente. In primo luogo, questo concetto restrittivo di “deposito” non si ricava in alcun modo dalla disciplina normativa. In secondo luogo, la giurisprudenza citata non sembra, in realtà, confermare tale interpretazione. Infatti, la menzionata sentenza della Corte di Cassazione del 2005 (Cass. n. 10865/2005, cit.; negli stessi termini: Cass. Civ., sez. trib., 12/11/2014, n. 24107), con riferimento all'art. 6 d.P.R. n. 131/1986, si limita ad affermare che:

dal contesto della norma emerge come il termine "deposito" non venga utilizzato per indicare una modalità di consegna dell'atto alla pubblica amministrazione, bensì un effetto sostanziale: la acquisizione dell'atto medesimo ai fini giuridici ed operativi”.

Come si vede, dalla sentenza non emergono riferimenti, chiari o impliciti, al carattere di volontarietà/spontaneità del deposito.

Infine, ci sembra che la tesi in oggetto produca effetti troppo restrittivi sui casi che meritano di essere sottoposti ad imposta di registro, in quanto resterebbero esclusi dalla fattispecie in esame tutte le numerose ipotesi di deposito di un documento su ordine o invito dell'Ufficio.

Acquisizione definitiva del documento

Una seconda tesi dottrinale, per individuare il campo di applicazione del caso d'uso, pone l'accento su un possibile presupposto di carattere oggettivo dell'istituto, che sarebbe costituito dall'acquisizione definitiva del documento depositato presso l'Amministrazione finanziaria. Questa tesi trae spunto da una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, nella quale si è affermato che:

il verbo “deposita” ha un preciso significato tecnico …In tema di imposta di registro… si ha caso d'uso quando un atto si deposita … presso le amministrazioni dello Stato … per essere acquisito agli atti … il termine deposito non è impiegato per indicare una modalità di consegna dell'atto alla P.A. bensì per indicare un effetto sostanziale e cioè l'acquisizione dell'atto medesimo a fini giuridici e operativi” (CTP Reggio Emilia, sez. III, sent. 30/01/2014, n. 54).

Il caso riguardava la produzione, durante una procedura di accertamento con adesione, di una scrittura privata, con la quale si prometteva la concessione di un mutuo. La Commissione ha escluso l'applicazione del caso d'uso in quanto il documento non era stato depositato presso l'Ufficio fiscale ai fini di un'acquisizione. Per il Collegio reggiano, l'uso del sostantivo “deposito” da parte del Legislatore avrebbe un preciso significato: tale concetto designerebbe una modalità qualificata di produzione dell'atto finalizzata alla acquisizione da parte dell'Amministrazione.

Commentando tale sentenza, autorevole dottrina ha osservato che “la sentenza ha negato la ricorrenza del caso d'uso, proprio sulla base della impossibilità di riconoscere nella produzione documentale effettuata dal contribuente un definitivo deposito dell'atto presso l'Amministrazione fiscale” (M. Basilavecchia, “Caso d'uso per scrittura privata prodotta in sede di accertamento con adesione”, Milano, n. 15, 2014, p. 1181 (corsivo aggiunto). Pertanto, la circostanza che un documento sia stato depositato “per essere acquisito agli atti” (ex art. 6 d.P.R. n. 131/1986), lungi dal riferirsi a qualsivoglia ipotesi di esibizione del documento, dovrebbe comportare l'acquisizione o l'archiviazione definitiva dell'atto presso l'Ufficio. Diversamente, la semplice esibizione di una scrittura destinata ad essere restituita al contribuente non concretizzerebbe il caso d'uso.

Anche questa tesi, seppure animata da un comprensibile ed apprezzabile intento di certezza, non soddisfa pienamente.

In primo luogo, la sentenza citata non parla di “definitività” del deposito; ma insiste piuttosto sullo scopo e sugli effetti sostanziali del medesimo (Vedi anche infra, par.4).

In secondo luogo, sembra forzata l'interpretazione estensiva del concetto di “acquisizione agli atti” contenuto nell'art. 6. Infine, questa interpretazione può produrre effetti indesiderati, poiché ogniqualvolta un atto viene prodotto nel corso di una verifica fiscale, e più in generale in una fase precontenziosa, inevitabilmente quel documento resterà, in via definitiva, a disposizione dell'Amministrazione finanziaria; per cui ricorrerebbe quasi sempre il presupposto per il caso d'uso.

Scopo del deposito

Infine, vi è un'altra tesi che, a nostro avviso, è quella più convincente.

Essa si fonda sullo scopo del deposito; cioè sull'intenzione che da esso derivino effetti giuridici od operativi. In altri termini, non basterebbe il deposito di per sé di un atto a configurare il caso d'uso, bensì occorrerebbe che tale deposito fosse finalizzato al perseguimento di determinati effetti di carattere sostanziale. Un autore (E. Manoni, “Enunciazione”, cit., p. 1848) ha identificato questo elemento come il “presupposto teleologico” del caso d'uso.

In realtà, questo criterio, anche se non emerge in maniera esplicita dalla normativa, è stato nitidamente ed opportunamente valorizzato dalla giurisprudenza, in particolare dalle già citate sentenze della Cassazione n. 10865/2005 e n. 24107/2014 e della CTP Reggio Emilia n. 54/2014 (vedi supra, note 7, 8 e 9). In esse si insiste sul fatto che il deposito deve essere volto a conseguire “un effetto sostanziale e cioè l'acquisizione dell'atto medesimo a fini giuridici e operativi”.

Per fare un esempio, nel caso oggetto della sentenza n. 10865/2005, la produzione del documento aveva lo scopo di farlo acquisire dalle Amministrazioni dello Stato per il conseguimento di un preciso effetto giuridico, vale a dire l'opponibilità di una cessione del credito nei riguardi del debitore erariale ceduto.

Queste prese di posizione giurisprudenziali sono da approvare, perché mettono l'accento sulla ratio che ragionevolmente ispira l'art. 6 del d.P.R. n. 131/1986, nel sottoporre a tassazione certi atti di deposito; e cioè quegli atti che, nel consentire il conseguimento di effetti giuridici od operativi, producono vantaggi o utilità per il depositante. Qualora il deposito non sia volto a realizzare tali effetti, una pretesa fiscale appare incongrua.

Peraltro, ci si può porre una domanda: si deve far riferimento soltanto allo scopo perseguito dal contribuente (situazione tipica) oppure anche a quello eventualmente perseguito dall'Amministrazione finanziaria? Può darsi, infatti, che il deposito di certi atti produca effetti giuridici utili per l'Amministrazione, ma non per il depositante.

La risposta non è facile. Infatti, da una parte, le sentenze citate sono, sul punto, generiche e, quando parlano di acquisizione del documento “a fini giuridici o operativi” sembrano farlo in senso oggettivo, senza distinguere fra l'interesse del depositante e quello dell'Amministrazione. Tuttavia, d'altra parte, come si è detto, la ratio dell'imposizione fiscale induce ad accogliere l'interpretazione più restrittiva della norma, poiché non sembra giustificato che il depositante sia assoggettato a tassazione quando gli effetti giuridici del deposito non incidono favorevolmente sui suoi diritti o interessi. Una conferma di questa lettura si trae dallo stesso art. 6, che esclude il caso d'uso quando il deposito sia obbligatorio o serva per l'adempimento di un'obbligazione delle Amministrazioni.

Ciò ribadisce che il deposito deve tradursi in un “vantaggio” per il depositante e solo per costui.

Nel complesso, riteniamo di accogliere questa seconda interpretazione.

Si noti che essa non coincide con la tesi, sopra criticata, che si fonda sulla semplice volontarietà/spontaneità della produzione dell'atto da parte del depositante.

Infatti, la nostra opinione è che la volontà, rectius lo scopo del depositante, sia quella, specifica e qualificata, di conseguire con il deposito effetti giuridici od operativi a lui favorevoli.

Eccezione delle finalità difensive

Conviene ora affrontare il tema importante, sia in teoria che in pratica, dell'applicabilità o meno del caso d'uso quando il deposito di un documento avvenga per finalità difensive del contribuente che lo ha esibito.

Poiché la produzione di un atto con finalità esclusivamente difensive può avvenire sia nell'ambito del contraddittorio endoprocedimentale che in quello di un processo avente per oggetto un atto impositivo, occorrerà valutare l'eventuale esclusione dell'imposta di registro in ambedue le ipotesi.

Per far ciò, si deve riprendere brevemente in esame l'iter storico dell'istituto del caso d'uso (Vedi anche supra, par. 1).

La sua normativa originaria (art. 2 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269) prevedeva l'obbligo di registrazione di certi atti, quando essi venivano presentati dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria, ad arbitri, ovvero ad organi di giurisdizione speciale. Pertanto, in origine il caso d'uso era espressamente previsto in occasione di procedimenti giurisdizionali.

Successivamente, in sede di attuazione della riforma dell'intera materia fiscale, fu adottato l'art. 6 del d.P.R. n. 634/1972 (Vedi supra, nota 4), il cui testo è stato in seguito riprodotto, in maniera quasi identica, dall'attuale art. 6 del d.P.R. n. 131/1986 più volte citato.

Questa norma, come si è visto, richiede, affinché ricorra il caso d'uso, che il deposito di un atto presso la cancelleria giudiziaria avvenga nell'esplicazione di attività amministrative, cioè in procedimenti che non hanno carattere contenzioso.

Dall'analisi comparata fra la precedente e l'attuale disciplina, si deduce che il Legislatore della Riforma tributaria ha inteso ridurre in modo considerevole la portata della norma previgente, escludendo il caso d'uso ogniqualvolta il deposito di un atto avvenga nel quadro di un'attività giurisdizionale in senso stretto (Vedi anche G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, cit., p. 990; G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 809; P. Russo, Manuale di diritto tributario, cit., p. 364).

Questo ridotto ambito di applicazione del caso d'uso ha ricevuto anche un espresso riconoscimento da parte del Ministero delle Finanze (Ministero delle Finanze, Circolare del 10/01/1973 n. 7), il quale ha chiarito che:

particolare rilievo merita pure l'art. 6 del decreto, che disciplina il caso d'uso con criterio sostanzialmente diverso dalla precedente normativa del corrispondente art. 2 del testo del 1923 … l'articolo [6] ne schematizza due distinti tipi: quello presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di una attività amministrativa e quello presso le Amministrazioni dello Stato, enti pubblici territoriali e rispettivi organi di controllo … La precisazione del campo di attività amministrativa, nella prima ipotesi, sta ad indicare che non costituisce più caso d'uso la produzione in giudizio degli atti soggetti a registrazione solo in caso d'uso, e ciò corrisponde alla direttiva della legge delega di facilitare l'esercizio dell'azione del cittadino a tutela dei propri diritti”.

In conclusione, non vi sono dubbi sul fatto che, attualmente, non ricorre l'obbligo di registrazione in caso d'uso laddove un documento sia depositato nel corso di un processo per l'esplicazione di attività giurisdizionali in senso stretto. La ragione, evidentemente, risiede nel fatto che, in una simile ipotesi, il contribuente procede al deposito nell'ambito del proprio diritto di azione o di difesa, a tutela dei propri diritti o interessi legittimi.

Argomentando a contrariis, infatti, se si volesse riconoscere il caso d'uso quand'anche il soggetto interessato depositi un atto in giudizio nel contesto di attività giurisdizionali in senso stretto, si verificherebbe per il contribuente una lesione del suo diritto di difesa. Il pieno e libero svolgimento di tale diritto troverebbe un ostacolo nell'imposizione fiscale derivante dall'applicazione dell'imposta di registro.

Dobbiamo ora chiederci se le medesime conclusioni valgano per l'ipotesi di esibizione di un atto per finalità difensive nell'ambito di una fase precontenziosa.

La risposta, a nostro parere, deve essere positiva. Tale impostazione è l'unica che consenta di pervenire ad un'interpretazione dell'art. 6 del d.P.R. n. 131/1986 ossequiosa del diritto di difesa in sede amministrativa, tutelato dall'art. 24 della Costituzione, dagli articoli 41 e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (Art. 41 (Diritto ad una buona amministrazione); art. 47 (Diritto ad un rimedio effettivo e ad un giusto processo) ed implicito anche nel principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione ex art. 97 della Costituzione.

Il contribuente non sarebbe libero di produrre, già nella fase precontenziosa e in maniera collaborativa con l'Ufficio, i documenti a sostegno delle proprie ragioni.

D'altra parte, oggi si tende a riconoscere che i principi di accesso alla giustizia, del giusto processo e del contraddittorio valgono in maniera analoga nella fase contenziosa ed in quella precontenziosa.

Inoltre, si consideri che il deposito di un atto con finalità difensive non può comportare una diversa espressione in termini di capacità contributiva per il sol fatto che in un caso avvenga nell'ambito del contraddittorio endoprocedimentale e, nell'altro, in quello di un processo avente ad oggetto un atto impositivo.

Diversamente, si finirebbe per creare un conflitto con i principi costituzionali di uguaglianza e di capacità contributiva, rispettivamente previsti dagli artt. 3 e 53 della Costituzione.

Infine, si deve notare che, qualora si applicasse l'imposta di registro al caso d'uso nel quadro di procedimenti precontenziosi, ciò comporterebbe un paradossale esito di disincentivo degli strumenti di difesa nel procedimento amministrativo. Rendere imponibili le produzioni documentali in fase precontenziosa porterebbe all'illogico risultato di rendere più conveniente per i contribuenti disertare il contraddittorio preventivo, attendere l'emissione di un atto impositivo e poi esprimere ogni difesa documentale soltanto in sede giudiziale. Con la conseguenza di un inutile aggravio dell'azione tanto dell'Amministrazione finanziaria quanto dell'Autorità giudiziaria.

Conclusioni

Conviene riassumere le conclusioni raggiunte dalla nostra indagine.

La varietà delle opinioni dottrinali circa gli elementi costitutivi dell'istituto del caso d'uso dimostra, da una parte, la scarsa chiarezza della normativa pertinente e, dall'altra, la complessità dell'istituto.

Tuttavia, abbiamo ritenuto che non fossero persuasive né la tesi che si fonda sulla volontarietà/spontaneità del deposito da parte del soggetto interessato, né l'opinione che individua come elemento costitutivo dell'istituto la definitiva acquisizione del documento depositato da parte dell'Amministrazione finanziaria.

Al contrario, ci sembra che l'unico criterio rilevante, per distinguere il caso d'uso assoggettabile a imposta rispetto ad altre forme di deposito, produzione o esibizione di atti, sia costituito dallo scopo, perseguito dal privato, che da tale deposito conseguano concreti effetti giuridici od operativi, che siano per lui utili o favorevoli. È questa, in realtà, l'unica tesi che ha il conforto della giurisprudenza ed è quella che meglio spiega la ratio dell'imposizione fiscale del caso d'uso.

Peraltro, la tassazione incontra, in ogni caso, un limite invalicabile. Esso si verifica quando il soggetto produce un atto con finalità difensive, sia nel quadro di procedimenti giurisdizionali in senso stretto, sia in quello di procedimenti endoprocedimentali. Ciò per garantire il rispetto dei menzionati principi, di natura costituzionale e internazionale, che tutelano il diritto di difesa.

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