La tutela delle persone vulnerabili e della dignità umana impone di incriminare le condotte “parallele” alla prostituzione (anche quando è volontaria)

Valentina Ventura
09 Settembre 2019

La questione su cui la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi è quella di determinare se sia legittima la criminalizzazione di condotte agevolatrici della prostituzione laddove essa sia esercitata in modo libero e volontario, senza coazione alcuna della determinazione della prostituta.
Massima

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di appello di Bari sulle disposizioni della c.d. legge Merlin (n. 75 del 1958) che puniscono il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione (articoli 3, primo comma, numeri 4, prima parte e 8) anche in ipotesi di prostituzione consapevole e volontaria

Il caso

Con sentenza del 7 giugno 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8) della legge 20 febbraio 1958, n. 75 sollevate dalla Corte di Appello di Bari con l'ordinanza 6 febbraio 2018 con riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 della Costituzione nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata.

La Corte rimettente era stata investita dell'appello avverso la sentenza del Tribunale di Bari a mezzo della quale quattro soggetti erano stati ritenuti responsabili del delitto di reclutamento di persone a fini di prostituzione di cui all'art. 3, primo comma, numero 4) della legge n. 75/1958 e del delitto di favoreggiamento della prostituzione di cui al numero 8) del medesimo articolo.

Gli imputati erano stati tratti a giudizio per aver “organizzato, in favore dell'allora premier S[…] B[…], incontri con escort occasionalmente o professionalmente dedite alla prostituzione”.

Stante la natura libera e volontaria della prestazione svolta dalle c.d. escort – donne pagate per accompagnare qualcuno a taluni eventi e che sono disponibili anche a compiere prestazioni di tipo sessuale – la Corte barese si è posta il problema della compatibilità all'ordinamento costituzionale della configurazione come illecito penale del reclutamento e del favoreggiamento della prostituzione ove questa sia liberamente e volontariamente esercitata.

La Corte rimettente aveva ritenuto la questione non manifestamente infondata evidenziando come il fenomeno della prostituzione delle escort debba considerarsi una novità rispetto al contesto in cui è stata emanata la legge n. 75/1958, del tutto inconcepibile per l'epoca.

La questione

La questione su cui la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi è quella di determinare se sia legittima la criminalizzazione di condotte agevolatrici della prostituzione laddove essa sia esercitata in modo libero e volontario, senza coazione alcuna della determinazione della prostituta.

Si ha reclutamento (art. 3, primo comma, numero 4) legge n. 75/1958) quando si creano contatti tra le escort e i potenziali clienti, mentre si ha favoreggiamento (art. 3, primo comma, numero 8) legge n. 75/1958) quando sono poste in essere condotte dirette a rendere più comodo l'esercizio dell'attività di prostituzione.

Le soluzioni giuridiche

Prima di enunciare quale sia stato il percorso argomentativo della Consulta nel caso che ci occupa, si rende necessaria una rapida disamina delle argomentazioni svolte dalla Corte rimettente e dagli altri soggetti intervenuti nel procedimento in esame.

In primo luogo, la Corte barese ha rilevato come l'intenzione del legislatore del 1958 fosse quella di sottrarre le prostitute allo sfruttamento e al “potere organizzativo” altrui, non a caso la legge n. 75/1958 è rubricata Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui.

Stante il rilievo della libertà di autodeterminarsi della persona umana, anche in ambito sessuale, ad avviso della Corte di appello di Bari la tutela di cui all'art. 2 Cost. – secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità – imporrebbe di rimuovere ogni interferenza normativa che possa costituire un ostacolo alla piena esplicazione della libertà in parola, vale a dire alla facoltà di scegliere di offrire sesso a pagamento.

A fondamento di detto assunto viene richiamata anche la sentenza n. 561 del 1987 con la quale la Consulta ha affermato che la sessualità è uno dei modi essenziali di espressione della persona e che il diritto di disporre del proprio corpo a fini sessuali è un diritto soggettivo assoluto, ricompreso tra i diritti inviolabili tutelati dalla nostra Carta costituzionale.

Se dunque ogni soggetto può liberamente disporre del proprio corpo offrendo prestazioni sessuali a pagamento senza incorrere in alcuna sanzione penale, ad avviso della Corte rimettente le eventuali condotte di terzi che, senza incidere su tale libera determinazione, si rivelino meramente agevolatrici della condotta di prostituzione (nella forma del reclutamento o del favoreggiamento di cui si è detto) non dovrebbero considerarsi penalmente rilevanti.

Ancora, la criminalizzazione delle menzionate condotte di reclutamento e favoreggiamento sarebbe, sempre ad avviso della Corte barese, in contrasto con il principio di libertà di iniziativa economica privata di cui all'art. 41 Cost.

L'attività svolta dalle escort viene considerata fonte di redditi tassabili e dovrebbe essere libera al pari di ogni altra attività commerciale; conseguentemente, dovrebbe ritenersi illegittima qualsivoglia criminalizzazione delle condotte di supporto all'iniziativa economica in parola (“alla escort dedita abitualmente alla suddetta attività viene preclusa la possibilità di assumere personale per curarne la collocazione sul mercato o per pubblicizzarla, mentre alla escort che esercita occasionalmente il meretricio verrebbe interdetta la stessa possibilità di inserirsi nel mercato”).

La Corte rimettente non manca poi di rilevare la carenza di offensività (artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost.) delle condotte censurate: se deve ritenersi superata la tesi secondo cui la legge 75/1958 tutela la pubblica moralità e deve, invece, ritenersi che tuteli la libertà di autodeterminazione della persona in ambito sessuale (art. 2 Cost.), le condotte di cui all'art. 3, primo comma, numero 4 e numero 8 della citata legge non solo non ledono alcun bene giuridico protetto dall'ordinamento, ma, addirittura, devono ritenersi dirette a facilitare la piena manifestazione della libertà dell'individuo in ambito sessuale e pertanto, in definitiva, più che legittime.

Sul punto si richiama anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha espressamente sancito che la prostituzione è incompatibile con i diritti e la dignità della persona soltanto quando sia esercitata con costrizione (v. Tremblay contro Francia, sentenza 11 settembre 2007).

Se è pur vero che le condotte di ausilio alla prostituzione possono rappresentare il primo passo verso lo sfruttamento della prostituta, deve tuttavia rilevarsi come il legislatore del 1958 aveva ben presente la distinzione tra il semplice ausilio e lo sfruttamento, venendo a sanzionare autonomamente la, ben distinta, fattispecie di sfruttamento.

Anche da tale ulteriore elemento la Corte barese ha dedotto la carenza di autonoma offensività delle condotte di favoreggiamento e reclutamento di cui si è detto.

Al fine di circoscrivere le condotte di agevolazione idonee a offendere il bene protetto, tale Corte ha altresì precisato, in primo luogo, che (alla luce del dettato di cui all'art. 2 Cost.) le condotte dirette ad agevolare la prostituzione devono ritenersi, in definitiva, aiuti alla piena attuazione della libertà di autodeterminazione sessuale della escort e, in secondo luogo, che è solo l'ausilio che incide in maniera causale sul processo di formazione di volontà della escort ad assumere rilevanza penale, concretandosi nel reato di induzione alla prostituzione, fattispecie autonomamente punita dalla legge 75/1958.

Ancora, la Corte rileva come non può farsi riferimento alla nota distinzione tra favoreggiamento della prostituzione e favoreggiamento della prostituta, essendo detta distinzione frutto di una forzatura concettuale in quanto ogni condotta di favoreggiamento può costituire, sul piano soggettivo, aiuto alla prostituta e, sul piano oggettivo, aiuto alla prostituzione in senso ampio.

Limitatamente alla sola fattispecie del favoreggiamento della prostituzione, infine, la Corte barese ha prospettato anche la violazione del principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. per quanto attiene ai profili della tassatività e della determinatezza.

La Corte rileva come, a differenza di quanto accade per i reati di favoreggiamento personale e reale (artt. 378 e 379 c.p.), il legislatore non ha definito la nozione di favoreggiamento della prostituzione al dichiarato fine di garantire un più ampio spazio di tutela al bene giuridico protetto rendendo però, di fatto, di non agevole individuazione la selezione delle condotte penalmente rilevanti, con inaccettabile vulnus del principio di legalità.

Alle valutazioni della Corte rimettente si sono sostanzialmente associati gli imputati evidenziando in particolare che la libertà sessuale deve essere intesa in due accezioni: in senso negativo, come diritto della persona a non essere sottoposta ad atti sessuali senza il suo libero consenso (artt. 609-bis e ss. c.p.) e in senso positivo, come diritto del soggetto a porre in essere una qualsiasi pratica sessuale, anche a scopo di lucro, purché in modo non lesivo di interessi altrui valendosi, se del caso, dell'aiuto o della intermediazione di terzi.

Poiché il reclutatore si attiva al fine di far incontrare domanda e offerta di prestazioni sessuali a pagamento, affermano gli imputati, le condotte agevolatrici della prostituzione dovrebbero essere ritenute non lesive della libera scelta della prostituta (a patto che non si incida sul suo processo decisionale); non a caso, si rileva, pur respingendo l'avanzata eccezione di illegittimità costituzionale, il giudice di primo grado ha negato alle escort il risarcimento del danno richiesto mediante la costituzione di parte civile, non avendo rilevato alcuna conseguenza negativa nella sfera psichica delle prostitute ingaggiate dagli imputati (che anzi, erano, a quanto emerso, ben contente della “irripetibile opportunità lavorativa”).

Se, dunque, quello della prostituta è un lavoro come un altro (Corte di giustizia sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jani e altri), inquadrabile nella categoria delle libere professioni, esercitabile in ogni Paese europeo in base al principio della libera circolazione dei lavoratori, l'ordinamento non deve porre alcun ostacolo a detta attività, né direttamente, né indirettamente, colpendo le condotte dirette all'agevolazione del suo esercizio in ragione di un asserito obbligo di tutela della dignità umana, dovendosi ritenere ormai mutato il concetto di dignità e che, pertanto, non si può sottoporre a pena un comportamento solo perché considerato poco dignitoso dalla maggioranza della popolazione, ovvero in base alla “morale di Stato”.

Uno solo degli imputati ha affermato il difetto di tassatività e determinatezza anche della previsione del reato di reclutamento ai fini dell'esercizio della prostituzione di cui all'art. 3, primo comma, numero 4 della legge 75/1958.

È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere la dichiarazione di inammissibilità o infondatezza delle questioni di cui sin qui si è detto rilevando, in primo luogo, che la Corte rimettente avrebbe sollevato le menzionate questioni al solo fine di ottenere un avallo interpretativo, avendo omesso di fornire una interpretazione costituzionalmente orientata delle previsioni censurate prima di sollevare questione di legittimità costituzionale.

Ancora, l'Avvocatura generale ha concluso per la dichiarazione di infondatezza delle questioni nel merito rilevando come la legge 75/1958 non tuteli unicamente la libertà di determinazione della persona nella sfera sessuale, ma che il legislatore ha inteso tutelare anche la “dignità obiettiva” della persona che si prostituisce e che già in passato la Suprema Corte si è pronunciata per la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della menzionata legge escludendo che il concetto di “agevolazione” posa violare i principi di legalità, determinatezza e offensività.

Nel valutare le censure mosse, la Corte costituzionale ha, in primo luogo, affermato di non poter prendere in esame le deduzioni svolte (da uno degli imputati) in ordine alla carenza di tassatività e determinatezza della fattispecie di reclutamento di cui all'art. 3, primo comma, n. 4 legge 75/1958, dal momento che l'ordinanza di remissione limita la censura di violazione dei menzionati principi costituzionali alla sola ipotesi del favoreggiamento, escludendo espressamente che la loro violazione riguardi anche la fattispecie di reclutamento, parimenti addebitata agli imputati.

La Consulta ha dipoi ritenuto infondata l'eccezione mossa dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale la Corte rimettente avrebbe omesso il doveroso tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata dalle disposizioni censurate, rilevando come in presenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati (come nel caso di specie) il giudice rimettente può uniformarsi a detti orientamenti ovvero proporre una sua diversa interpretazione ovvero infine richiedere il controllo di compatibilità costituzionale dell'interpretazione secondo diritto vivente.

Entrando poi nel merito delle altre questioni sottoposte al suo esame, la Consulta le dichiara tutte non fondate in relazione a tutti i parametri evocati.

In particolare, la Consulta afferma che la libera scelta di prostituirsi, sebbene rappresenti una modalità di espressione della libertà di autodeterminazione sessuale, non può qualificarsi come diritto inviolabile della persona ai sensi dell'art. 2 Cost.

Rileva infatti il giudice delle leggi che la previsione di cui all'art. 2 Cost., che impegna la Repubblica a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, deve ritenersi strettamente connessa a quella del successivo art. 3 che (secondo comma), al fine di rendere effettivi i diritti fondamentali di cui sopra, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Se, dunque, i valori di libertà sono riconosciuti in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona, non si può allora affermare che, per il mero fatto di coinvolgere la sfera sessuale di chi la esercita, la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile e che, non solo il suo esercizio non dovrebbe essere ostacolato, ma, addirittura, dovrebbe essere agevolato dallo Stato.

Deve, piuttosto, ritenersi che ciascun individuo può fare libero uso della sessualità come mezzo di esplicazione della propria personalità, ma nel limite del rispetto dei diritti e delle libertà altrui.

La Consulta non nega che con la sentenza n. 561 del 1987 (come detto, richiamata dalla Corte rimettente) la libertà sessuale è stata inserita nel catalogo dei diritti inviolabili tutelati dall'art. 2 Cost. e che in tale sede tale diritto è qualificato come “diritto soggettivo assoluto”, ma rileva che l'affermazione in parola è stata resa in rapporto a una fattispecie nella quale veniva in rilievo il profilo negativo di tale libertà, ossia il diritto ad opporsi a “intrusioni” altrui non volute nella propria sfera sessuale e con riguardo alle pretese risarcitorie scaturenti dalla violazione di tale diritto ricordando che in quella occasione si lamentava che la disciplina sul trattamento pensionistico di guerra escludesse il risarcimento per danni non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze sessuali consumate in occasione di eventi bellici.

Il giudice delle leggi afferma con fermezza che non si può ritenere l'offerta di prestazioni sessuali a pagamento uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana costituendo essa una particolare forma di attività economica, una prestazione di servizi retribuita, come è stata definita nella già citata sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jani e altri e dalla Corte di Cassazione, che a più riprese ha affermato la possibilità di assoggettare ad imposte i proventi dell'attività di prostituzione (cfr. Cass. civ., Sez. V, sentenze 4 novembre 2016, n. 22413; 27 luglio 2016, n. 15596; 13 maggio 2011, n. 10578; 1 ottobre 2010, n. 20528).

In definitiva, la Corte dichiara la questione infondata dal momento che il parametro di cui all'art. 2 Cost. è inconferente rispetto al tema dell'intromissione di terzi nell'esercizio dell'attività di prostituzione.

Più pertinente appare il riferimento all'art. 41 Cost., che pure era stato richiamato nell'ambito dei lavori preparatori della legge n. 75/1958, espressamente diretta a porre fine al coinvolgimento dello Stato nella c.d. industria del meretricio, ma la Consulta ritiene la questione infondata anche in relazione a detto parametro.

Rileva a tal proposito la Corte che la libertà di iniziativa economica è tutelata soltanto a condizione che l'esercizio dell'attività non leda altri valori costituzionalmente rilevanti, non potendosi svolgere in contrasto con l'utilità sociale o in modo da danneggiare la libertà e la dignità della persona; anche se al giorno d'oggi vi sono numerosi soggetti che esercitano la prostituzione senza costrizione alcuna, nondimeno la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell'individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali.

Sono dunque fattori economici e una condizione di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali a portare il soggetto ad offrire prestazioni sessuali a pagamento, condizioni tali da rendere chi sceglie di prostituirsi il “soggetto debole” del rapporto; il legislatore sceglie di non intervenire sanzionando penalmente chi si trova in una condizione così delicata, ma, rileva la Corte, non può abbandonare la propria pretesa punitiva nei confronti di tutti gli altri soggetti che in qualche modo interferiscano ed agevolino la prostituzione altrui.

A nulla rileva che i proventi della prostituzione siano tassabili e la già citata pronuncia 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jani e altri deve essere ben contestualizzata, dal momento che ha considerato la prostituzione alla stregua di qualsivoglia attività economica svolta in qualità di lavoratore autonomo soltanto al fine dell'affermazione del principio di libertà di circolazione all'interno degli Stati membri, per impedire restrizioni all'accesso o al soggiorno nel territorio di uno Stato membro di questa particolare categoria di lavoratore.

La prostituzione non è vietata, dunque, ma non può configurarsi espressione di un diritto costituzionalmente tutelato neppure con riferimento alla previsione di cui all'art. 41 Cost.

Sul tema della mancata offensività delle previsioni in esame, la Consulta afferma che le norme censurato appaiono senza dubbio conciliabili con il c.d. principio di offensività in astratto, risultando pienamente in grado di tutelare i diritti fondamentali di soggetti vulnerabili e delle prostitute stesse.

Infine, la Consulta ha ritenuto non fondata anche la questione relativa alla carenza di tassatività e determinatezza della fattispecie di favoreggiamento della prostituzione confermando quanto già enunciato nel respingere la questione di legittimità costituzionale della fattispecie di sfruttamento della prostituzione (si veda Corte cost., n. 44 del 1964 e Corte cost., ord., n. 98 del 1964), vale a dire che il ricorso a “espressioni sommarie, vocaboli polisensi” o concetti elastici deve ritenersi pienamente legittimo quando sia comunque consentito al giudice – anche alla luce delle finalità della previsione incriminatrice – di stabilire il significato di detti elementi ricorrendo ad un'attività ermeneutica “ordinaria” e, d'altro canto, il destinatario della norma abbia una percezione sufficientemente chiara del valore precettivo della stessa.

Per favoreggiamento si intende, in definitiva, un concorso materiale e per la determinazione del suo significato in concreto deve farsi riferimento alla previsione di cui all'art. 110 c.p. in tema di concorso di persone (secondo cui si ha concorso quando più persone concorrono nel medesimo reato), norma che non è ritenuta indeterminata sebbene formulata in modo sintetico.

Osservazioni

Come noto, nel nostro ordinamento la materia della prostituzione è stata regolamentata, in un primo momento, nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 190 e seguenti del regio decreto 18 giugno 1931 n. 773, recante Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e nel relativo regolamento (artt. 345 e seguenti del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, recante Approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza).

All'epoca l'esercizio abituale della prostituzione era consentito unicamente all'interno di locali a ciò espressamente destinati con provvedimento dell'autorità di pubblica sicurezza, controllati dal punto di vista sanitario e con precise limitazioni in ordine agli orari di apertura; le prostitute – schedate in un apposito registro e sottoposte a visite mediche obbligatorie – non potevano esercitare al di fuori delle c.d. case di prostituzione ed il meretricio in luogo chiuso non preventivamente autorizzato era penalmente perseguito. Lo Stato riscuoteva regolari imposte dalle case di prostituzione.

Con il Codice Rocco è stata esclusa la punibilità del meretricio in sé e sono state introdotte fattispecie incriminatrici contro la prostituzione forzata; le condotte parallele alla prostituzione volontaria quali l'istigazione, il favoreggiamento e lo sfruttamento costituivano invece reato soltanto in presenza di particolari condizioni (es. soggetti passivi minorenni ovvero in stato di infermità o deficienza psichica o in presenza di un vero sistema di vita di tipo parassitario ai danni della persona dedita alla prostituzione).

Con la legge 75/1958, ritenendosi che la scelta di esercitare la prostituzione (di massima) nasca da una condizione di vulnerabilità della persona che vende prestazioni sessuali e che essa è potenzialmente una vittima della società che trae vantaggio dalla sua particolare condizione, si è ritenuto opportuno impedire allo Stato di partecipare all'industria del sesso ed è stata soppressa la regolamentazione della prostituzione disponendo altresì la rilevanza penale di tutta una serie di condotte “parallele” alla prostituzione.

Al di là della (apparente?) ipocrisia del rendere lecita la prostituzione, ma perseguire ogni condotta che possa in qualche in modo agevolarne l'esercizio, non può non rilevarsi come, a parere di chi scrive, il nostro legislatore, prima, e la Consulta, poi, non abbiano tenuto nella giusta considerazione il fatto che coesistono diversi tipi di prostituzione, non tutti derivanti da situazioni di vulnerabilità e difficoltà di chi decida di esercitare il meretricio; se “è pur vero che dall'esame della storia della prostituzione emerge senza ombra di dubbio che la prostituta è stata sempre considerata, in passato, come donna di malaffare e talvolta – si pensi alle teorie del Lombroso in materia – come contraltare dell'uomo criminale”, tuttavia, “pur risalendo nel tempo, vi sono sempre state le eccezioni: si pensi alle etere del mondo greco, alle cortigiane del Rinascimento, o alle più moderne e forse più prosaiche escort” (CADOPPI).

La condotta della escort d'alto bordo che si fa pagare profumatamente per il tempo e le prestazioni (sessuali e non solo) che offre ai suoi clienti non può essere in alcun modo equiparata a quella degli altri soggetti che esercitano il meretricio, non avendo (necessariamente) tale figura alle spalle situazioni di disagio o degrado ed essendo pienamente libera di stabilire il costo delle proprie prestazioni, al pari di qualsivoglia imprenditore di libero mercato.

Eventuali condotte agevolatrici della prostituzione in favore di tali soggetti non paiono recare danno a soggetto alcuno, né a chi esercita il meretricio (che, anzi, beneficia dell'ausilio del favoreggiatore o del reclutatore e, pertanto, vede espandere le proprie potenzialità lavorative), né, tanto meno, dei clienti, che liberamente scelgono di sostenere costi anche elevati per le prestazioni che desiderano, o di terzi (la cui morale – ammesso e non concesso che tale valore possa assumere rango di bene giuridico penalmente tutelabile – non può dirsi in alcun modo offesa, se chi esercita la prostituzione lo fa liberamente e in autonomia).

In un tale quadro, sanzionare penalmente le condotte di ausilio all'esercizio delle (libere e volontarie) prestazioni sessuali appare ingiustificato (non si sorge alcun bisogno di pena di tali condotte) e, in definitiva, perfino illegittimo, andando a colpire, in via indiretta, chi svolge un'attività lecita e tutelata dalla Costituzione ai sensi dell'art. 2 e, in via diretta, chi fornisca anche un ausilio di modico valore.

Il riconoscimento di diverse forme di prostituzione non è una circostanza di poco momento, dunque, e dovrebbe imporre al legislatore di regolamentare in modo nuovo (e moderno) le condotte “parallele” alla prostituzione e al giudice delle leggi di abbandonare l'impostazione paternalistica manifestata nella pronuncia in commento in favore di un atteggiamento di maggiore ed autentico riconoscimento della libertà di autodeterminazione in campo sessuale, nel pieno rispetto del dettato di cui all'art. 2 Cost.

Al riconoscimento – vero e definitivo – della libertà di prostituirsi dovrebbe accompagnarsi anche il riconoscimento della prostituzione come lavoro, il tutto seguendo il c.d. modello regolamentarista, secondo cui la prostituzione è un'attività lecita e liberamente esercitabile (al pari di una qualsiasi attività commerciale) e vengono regolamentate le forme del suo esercizio al fine di scongiurare qualsivoglia sfruttamento o costrizione (che vengono perseguite penalmente) e, al contempo, tutelare la dignità di chi si prostituisce nella piena consapevolezza che il riconoscimento della libertà di fare mercimonio del proprio corpo a fini sessuali non determina, automaticamente, che non siano tutelati i soggetti deboli del sistema, spinti o in qualche modo costretti a prostituirsi.

Tutte le proposte di riforma della materia, tuttavia, non hanno mai avuto approcci tanto decisi, limitandosi per lo più a punire le condotte di induzione (o il reclutamento) della prostituzione senza prevedere, di norma, l'abolizione della legge Merlin, che invece, per essere decisamente superata, dovrebbe essere abrogata.

Nella pronuncia in esame la Consulta pare, in definitiva, aver perso l'occasione per adeguare al mutamento dei costumi e dei tempi la, ormai risalente, normativa penale in materia di prostituzione, così come conformata dalla decennale giurisprudenza di legittimità, quanto meno sotto forma di monito al legislatore, come ha fatto nel recente caso Cappato in materia di aiuto al suicidio (fattispecie che, come quella in esame, ha ad oggetto l'ausilio materiale a condotte in sé lecite, per quanto moralmente discutibili).

Guida all'approfondimento

A. CADOPPI (a cura di), Prostituzione e diritto penale, Roma, 2014.

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