Il potere di riesame del «fatto processuale» ed il principio di autosufficienza: la linea di demarcazione è sottile, ma netta

Mauro Di Marzio
09 Settembre 2019

La Corte di cassazione, a fronte della deduzione di un error in procedendo, è «giudice del fatto processuale», e per tale ragione ha accesso diretto alle carte, che senso ha dire che il motivo non è autosufficiente? Visto che la Corte di cassazione prende in mano il fascicolo e lo sfoglia così come farebbe il giudice di merito, perché non può essa stessa individuare quegli atti o quei documenti attinti dal motivo di ricorso?
Massima

Ogni qual volta si tratti di risolvere una questione di giurisdizione (così come in ogni altro caso in cui l'indagine sia diretta ad accertare se il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo), la Corte di cassazione è giudice anche del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non potendo la Corte ricercare e verificare a suo piacimento i documenti interessati dalla verifica, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo contenga tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a comprendere la dedotta violazione processuale e a procedere alla verifica dell'esistenza della soluzione alternativa a quella praticata dai giudici di merito, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente.

Il caso

Affidata una cospicua somma ad un uomo, perché la investisse per loro conto presso banche svizzere, due persone agiscono nei confronti della erede di questi lamentando che egli se ne fosse appropriato. La domanda è accolta, in parte, tanto in primo grado quanto in appello.

Ciò che ci interessa sottolineare, qui, è che il tribunale e la corte d'appello respingono la principale eccezione proposta dalla convenuta: quest'ultima aveva difatti sostenuto che il giudice adito sarebbe stato carente di giurisdizione, nonché conseguentemente di competenza, in ragione di una clausola di deroga convenzionale della giurisdizione contenuta nel contratto avente ad oggetto l'affidamento delle somme, la quale sottoponeva alla giurisdizione svizzera le controversie relative alla «procura» data per eseguire gli investimenti in questione.

Questa eccezione viene respinta, in fase di merito, sull'assunto che gli attori avessero proposto una domanda fondata su un titolo extracontrattuale al quale la clausola contrattuale menzionata non intendeva riferirsi: i giudici di merito, in altri termini, interpretano la clausola ed attribuiscono ad essa un significato tale da escludere la sua applicazione alle domande di responsabilità extracontrattuale.

La soccombente propone ricorso per cassazione con il quale si duole, in buona sostanza, della reiezione dell'eccezione di deroga convenzionale della giurisdizione. Naturalmente, discutendosi della giurisdizione, il ricorso è affidato alle sezioni unite, dinanzi alle quali il procuratore generale conclude per l'inammissibilità, osservando che la ricorrente aveva lamentato l'erroneità dell'interpretazione, da parte dei giudici di merito, della clausola contrattuale, ma non aveva indicato quali specifici criteri di ermeneutica contrattuale sarebbero stati violati.

Le sezioni unite respingono le conclusioni del procuratore generale, ma dichiarano egualmente l'inammissibilità del ricorso perché non autosufficiente.

La questione

Il ricorso per cassazione di cui stiamo discorrendo si fonda, evidentemente, sulla denuncia di un vizio di attività: di un error in procedendo dei giudici di merito, cioè, i quali si sono attribuiti una giurisdizione che, secondo la ricorrente, non avevano, poiché convenzionalmente derogata dalle parti in favore dell'autorità giudiziaria svizzera.

Ora, è cosa nota che i poteri della Corte di cassazione variano a seconda che il ricorrente abbia dedotto un error in iudicando ovvero in procedendo: nel primo caso la corte di cassazione si vede consegnato il «fatto» dal giudice di merito, al quale spetta in esclusiva ricostruirlo, fatto salvo il controllo motivazionale; nel secondo caso, viceversa, come ripete una massima tralaticia sicuramente caduta sotto l'attenzione di chi legge, la corte di cassazione è «giudice del fatto processuale», sicché ha accesso diretto alle carte e può ricostruire il detto «fatto processuale» anche diversamente dal giudice di merito.

Ma — ecco la questione — se la Corte di cassazione, a fronte della deduzione di un error in procedendo, è «giudice del fatto processuale», e per tale ragione ha accesso diretto alle carte, che senso ha dire che il motivo non è autosufficiente? Visto che la corte di cassazione prende in mano il fascicolo e lo sfoglia così come farebbe il giudice di merito, perché non può essa stessa individuare quegli atti o quei documenti attinti dal motivo di ricorso?

Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni Unite richiamano il principio, al quale si è accennato, secondo cui, in ogni caso in cui l'indagine sia diretta ad accertare se il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del «fatto processuale». Ne deriva il rigetto dell'eccezione di inammissibilità come formulata dal procuratore generale: poiché la Corte di cassazione è giudice del fatto, essa non deve limitarsi a prendere atto dell'interpretazione della clausola contrattuale data dal giudice di merito, e neppure deve limitarsi a verificare la correttezza di quell'interpretazione esclusivamente attraverso il prisma dei criteri ermeneutici invocati dal ricorrente, ma deve direttamente stabilire — almeno in linea di principio — se il giudice di merito abbia interpretato la clausola bene o male.

Nondimeno — aggiungono le sezioni unite — anche allorquando sia denunciato un error in procedendo, con la conseguenza che la Corte di cassazione ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa, è tuttavia necessario che il ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale. Difatti, il potere-dovere della corte di cassazione di esaminare direttamente gli atti processuali non comporta che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli.

La verifica del fatto processuale da parte della Corte di cassazione, cioè, non è libera e, soprattutto, non è svincolata dalle deduzioni delle parti, contenute nel ricorso per cassazione, che segnalano le pretese omissioni in ordine alla loro verifica da parte del giudice di merito, dovendo il controllo essere alimentato dalla puntuale ricostruzione della domanda giudiziale e della sua causa petendi, così come enunciate nell'atto introduttivo del giudizio e verificate a seguito dell'eccezione sollevata dalla parte convenuta.

Poste le premesse in iure, le sezioni unite osservano che il ricorso ignora buona parte degli argomenti svolti nell'atto di citazione, posti dal tribunale a base della propria decisione, confermata dalla corte territoriale, senza l'indicazione «dell'esatto riscontro del fatto alternativo la cui puntuale verifica avrebbe condotto la Corte di legittimità ad accedere alla diversa soluzione eccepita».

Osservazioni

Ogni qual volta venga denunciato un error in procedendo la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale: se, poniamo il caso, il giudice di merito ha dichiarato la nullità della citazione introduttiva del giudizio di primo grado (ovviamente dopo aver inutilmente assegnato il termine di cui all'art. 164 c.p.c.) per mancata specificazione della causa petendi e del petitum, la Corte di cassazione, a fronte della formulazione del relativo motivo, ai sensi del n. 4 dell'art. 360 c.p.c. (nullità della sentenza o del procedimento), legge la citazione e stabilisce se la nullità sussisteva davvero oppure no. Al contrario, dinanzi alla deduzione di un error in iudicando, la corte di cassazione è vincolata alla ricostruzione del fatto effettuata dal giudice di merito, fatto salvo il controllo motivazionale, oggi ridotto al «minimo costituzionale», previsto dall'n. 5 dell'art. 360 c.p.c.

Ma, qual è il fondamento normativo di questo principio, per effetto del quale la latitudine dei poteri della Corte di cassazione si differenzia a seconda che il motivo investa un vizio di attività oppure un errore di giudizio? Ebbene, il fondamento normativo non c'è. Diremmo che la regola secondo cui, in presenza della denuncia di un error in procedendo,la Corte di cassazione giudica anche in fatto, si desume dal sistema, e, più che altro, affonda le radici nella tradizione.

Ora, una volta stabilito che quando vengono denunciati vizi di attività, e cioè violazioni di norme processuali, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto processuale, ed ha così libero accesso agli atti del giudizio di merito, ben potrebbe supporsi che essa Corte di cassazione, nella veste di garante della legalità processuale, potendo liberamente riesaminare i fascicoli di causa, se del caso (ri)valutando autonomamente e direttamente il fatto processuale, resti altresì svincolata dall'applicazione del principio di autosufficienza, che viene oggi ancorato al precetto posto dall'art. 366, n. 6, c.p.c.

E, certo, non sarebbe difficile, nel mare magno della produzione della Corte di cassazione, individuare sentenze ed ordinanze nelle quali il principio di autosufficienza, nel caso di errores in procedendo, finisce per essere, se non altro in via di fatto, neutralizzato. È stato ad esempio affermato (peraltro in tema di revocazione della sentenza di cassazione) che il ricorso che deduca errores in procedendo, e che perciò imponga l'accesso diretto agli atti, non rimane affatto soggetto al principio di autosufficienza, atteso l'obbligo per la corte di esaminare comunque il fascicolo d'ufficio della causa di merito (Cass. civ., sez. un., 20 novembre 2003, n. 17631).

In realtà, i due aspetti, quello della sussistenza del potere di riesame del «fatto processuale» in caso di deduzione di errores in procedendo, e quello della contestuale applicazione del principio di autosufficienza, si pongono su piani distinti.

Ove pure sia denunciato un error in procedendo, difatti, la corte di cassazione assume sì la posizione di giudice del «fatto processuale», ma sempre che il motivo di ricorso sia ammissibile, e che, cioè, sussistano, tra gli altri, i requisiti richiesti dall'art. 366 c.p.c., ivi compreso quello contemplato dal n. 6. E ciò significa che, in applicazione del principio di autosufficienza, il ricorso deve indicare gli atti del giudizio di merito dai quale sia desumibile il vizio fatto valere.

L'applicazione del principio di autosufficienza ha in effetti un fondamento elementare: essa è imposta dall'esigenza di precludere al giudice di legittimità di trarre elementi rilevanti di decisione al di fuori dl ricorso, ed, in specie, dall'esame diretto degli atti delle precedenti fasi del giudizio. L'essere «giudice del fatto» non significa, quindi, per la Corte dover ricercare d'ufficio, fra tutti gli atti di causa, quali siano gli elementi rilevatori della dedotta violazione processuale (p. es. Cass. civ., 23 gennaio 2004, n. 1170).

Il fatto è che il principio di autosufficienza, nella sostanza, altro non è che un corollario del necessario connotato di specificità del motivo di ricorso per cassazione: com'è stato detto già nel 2012, «nemmeno in quest'ipotesi viene meno l'onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d'impugnazione, ora tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369, comma 2, n. 4: sicché l'esame diretto degli atti che la corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato» (Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077). È insomma il ricorrente a dover dire alla Corte di cassazione perché la decisione di merito è da cassare, e per fare questo occorre necessariamente circostanziare il motivo attraverso i necessari riferimenti agli atti e documenti di causa.

Se così non fosse, ragionando per assurdo, dovrebbe ammettersi che, in un caso come quello considerato, il motivo possa limitarsi a denunciare, senza altro aggiungere, l'erronea esclusione di una deroga convenzionale della giurisdizione, dovendo per ciò solo la corte di cassazione ricercare essa stessa le ipotetiche pezze di appoggio della censura. Ma, così facendo, la corte di cassazione non risponderebbe ad un motivo di ricorso svolto dalla parte interessata, ma sarebbe essa stessa a formularlo.

E questo, com'è ovvio, non è possibile.

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