La Corte dei Conti si pronuncia sulle prestazioni extra-istituzionali non autorizzate dalla P.A. di appartenenza e obbligo di riversamento del compenso

Ilvio Pannullo
10 Settembre 2019

Con la sentenza C. Conti, Sez. Riun., sent., 31 luglio 2019, n. 26/QM, l'Organo intestatario della funzione nomofilattica per la giurisdizione contabile chiarisce definitivamente, da un lato, la natura della responsabilità di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, d. lgs. n. 165/2001, relativa al mancato riversamento del compenso indebitamente percepito dal pubblico dipendente per prestazioni extra-istituzionali eseguite senza la previa autorizzazione della propria amministrazione di appartenenza, dall'altro, conseguentemente, il rito da applicare in sede contabile per l'accertamento di detta responsabilità. ...
Il generale principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego

Il principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego fu introdotto nell'Ordinamento ab ovo dall'art. 60 d.P.R. 3/1957 (Il riferimento puntuale è al Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, recante il «Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 22 del 25 gennaio 1957 - Supplemento Ordinario n. 220), ribadito, in un primo momento, dall'art. 58 d.lgs. 29/1993, e, in seguito, dall'art. 1, comma 60 ss., l. 662/1996, che disciplinarono i casi di incompatibilità e di incumulabilità del lavoro subordinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (di seguito, anche, “pp.aa.”) con qualsiasi altra prestazione, e stabilirono l'obbligo della preventiva autorizzazione per l'eventuale svolgimento di un incarico retribuito.

Più recentemente, il medesimo principio trova affermazione nell'art. 53, comma 7,d.lgs.n. 165/2001, che impone ai dipendenti pubblici, per lo svolgimento di incarichi extra-istituzionaliretribuiti, la previa autorizzazione della pubblica amministrazione (di seguito, anche, “p.a.”) di appartenenza. In ipotesi di incarico svolto in mancanza di autorizzazione, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato a cura dell'erogante o, in mancanza, del percettore, al datore di lavoro pubblico del dipendente.

Il testo vigente è il frutto delle modificazioni e delle integrazioni apportate alla disciplina originaria dalla l. 190/2012, che, da una parte, -con l'art. 1, comma 42, lett. c)- ha aggiunto al comma 7 del cit. art. 53 la proposizione «Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi», dall'altra, -con l'art. 1, comma 42, lett. d)- dopo il comma 7 del cit. 53 ha inserito il vigente comma 7-bis, a norma del quale: «L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti» (In ordine all'incidenza dell'entrata in vigore della l. n. 190/2012 sul radicamento della giurisdizione in capo alla Corte dei conti s.v. Cass. civ., Sez. Un., sent., 22/12/2015, n. 25769, in CED Cass. n. 637728 - 01, a mente della quale «la condotta del dipendente pubblico che svolga incarichi non autorizzati senza riversare i compensi all'amministrazione di appartenenza incide sull'esercizio delle mansioni ed è fonte di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, essendo irrilevante che i fatti siano anteriori all'entrata in vigore del comma 7 bis dell'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, poiché questo è stato aggiunto dalla legge n. 190 del 2012 solo per confermare la sussistenza della giurisdizione contabile»).

Per l'orientamento precedente, “semplicemente” confermato dalla novella del 2012, s.v. per tutti Cass. civ., Sez. Un., ord., 02/11/2011, n. 22688, in CED Cass. n. 619093 - 01, a mente della quale «sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa di un soggetto che, legato all'Amministrazione da un rapporto di impiego o di servizio, causi un danno con azioni od omissioni connesse alla violazione non soltanto dei doveri tipici delle funzioni concretamente svolte, ma anche di quelli ad esse strumentali, attenendo al merito e, dunque, ai limiti interni della “potestas iudicandi”, ogni questione attinente al tipo e all'ammontare del danno stesso diverso da quello all'immagine (fattispecie relativa a un magistrato venuto meno al dovere di chiedere l'autorizzazione allo svolgimento di incarichi extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare all'Amministrazione i compensi per essi ricevuti)».

La ratio di tale divieto - rimasto immutato anche a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, anche a presidio del prestigio del rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a. - risiede di tutta evidenza nell'intento di tutelare la regolarità del servizio pubblico ed il buon andamento dell'azione amministrativa, che risulterebbero inevitabilmente intaccati dallo svolgimento, da parte dei pubblici dipendenti, di attività lavorative diverse da quelle istituzionali (ex multis, C. conti, Sez. giur. Lombardia, sent., 25/11/2014, n. 216, in CED C. conti, secondo cui «centri di interesse alternativi all'ufficio pubblico rivestito […] potrebbero attenuare l'indipendenza del lavoratore pubblico ed il prestigio della p.a.»).

Tale disciplina è infatti strettamente connessa con il principio generale di fonte costituzionale in base al quale colui che è legato ad una p.a. da un rapporto di impiego deve dedicare all'Ufficio di appartenenza tutta la propria capacità lavorativa, intellettuale e materiale, donde la generale incompatibilità tra il pubblico impiego e l'esercizio di una libera professione o comunque altro impiego lavorativo, superabile solo previa specifica autorizzazione richiesta alla e rilasciata dalla p.a. di appartenenza (Si v. sul punto, anche per cogliere le diverse prospettive delle diverse giurisdizioni, T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, sent., 13/06/2018, n. 576).

Segue. Le attività liberamente esercitabili

L'ordinamento contempla, tuttavia, alcuni incarichi che - per la loro riconducibilità all'esercizio di libertà costituzionalmente garantite (Per le prime pronunce che si sono espresse in questo senso v. C. conti, Sez. giur. Lombardia, sent., 25/11/2014, n. 216, cit.; l'orientamento si è poi consolidato tanto da essere riproposto negli stessi termini anche nella pronuncia in commento (v. C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 31/07/2019, n. 26/QM, p. 20 di 36). - sono liberamente esercitabili anche da parte dei soggetti alle dipendenze delle pp.aa. e che costituiscono, pertanto, una deroga espressa al principio generale di esclusività del rapporto di pubblico impiego. La copiosa casistica portata all'attenzione del Giudice contabile in materia, tuttavia, denota come dette attività cc.dd. “liberalizzate” - le quali comportano, comunque, obblighi comunicativi in capo ai soggetti, pubblici o privati, che conferiscono l'incarico - non siano, nella prassi, di facile identificazione (Cfr. T.M. Ferrario-M. Loche, Le attività̀ liberamente esercitabili dai pubblici dipendenti: deroga al principio di esclusività̀ dell'impiego alle dipendenze dell'amministrazione pubblica, in lexitalia.it.).

A fronte di un generale divieto di eseguire prestazioni lavorative extra-istituzionali da parte di soggetti in rapporto di servizio con pp.aa., il legislatore statale ha infatti previsto un regime informato sul principio della gradualità sotto il profilo attinente all'oggetto dell'incarico svolto. Si tratta di quelle attività elencate nel comma 6 del citato art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, lettere da a) ad f-bis), ossia quelle attività che afferiscono: – la collaborazione con giornali, riviste, enciclopedie e simili; – l'utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali; – la partecipazione a convegni o seminari; – gli incarichi per i quali, a titolo di compenso, è previsto solo il rimborso delle spese documentate: – gli incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando ovvero fuori ruolo; – gli incarichi conferiti da organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; – le attività di formazione diretta ai dipendenti della p.a., di docenza e di ricerca scientifica.

Può quindi distinguersi tra:

1) attività assolutamente incompatibili con l'impiego alle dipendenze delle pp.aa. (i.e. commercio, industria, professioni, cariche in società aventi fini di lucro, et cetera), identificandosi detto regime come diretta espressione del principio di esclusività del rapporto di lavoro pubblico, di cui manifestazione tipica è il dovere di fedeltà che si estrinseca nel divieto imposto ai pubblici dipendenti di costituire società a fini di lucro, di esercitare attività professionali ovvero attività incompatibili con l'impiego (cfr. sul punto T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, sent., 25/01/2013, n. 96, nonché Cass. civ., Sez. Lav., sent., 15/01/2015, n. 617);

2) attività relativamente incompatibili, il cui svolgimento può essere autorizzato dall'amministrazione, previa verifica sia della compatibilità con la prestazione lavorativa da eseguirsi da parte del pubblico dipendente richiedente l'autorizzazione sia dell'assenza di conflitti di interessi, anche meramente potenziali (si tratta, il più delle volte, di mansioni conferite dalla stessa p.a. di appartenenza per incarichi temporanei ed eccezionali, ovvero di incarichi conferiti da altre pp.aa. o da privati su designazione sempre della p.a. di appartenenza);

3) attività liberamente esercitabili in ragione dell'assenza di un compenso ovvero per le quali, pur in presenza di una remunerazione economica, è previsto il libero svolgimento.

Tale ultima tipologia di incarichi, oltre a non soggiacere al regime autorizzatorio previsto dall'art. 53, commi 7-13, d.lgs. n. 165/2001, secondo la prevalente Dottrina in materia, non necessiterebbe neanche di alcun atto di assenso da parte della p.a. di appartenenza, né la p.a. potrebbe esigere dal proprio dipendente una preventiva comunicazione in tal senso, sebbene venga - non senza dubbi in punto di legittimità avanzati dalla Dottrina, ma negati, ad esempio, da parte della Giurisprudenza contabile - richiesta da alcuni Enti con regolamenti, circolari o direttive (per la Dottrina in riferimento si v. ex multis D. SERRA, Incompatibilità nel pubblico impiego, in Risorse Umane, 2, 2012, p. 30. Per la cit. giurisprudenza contabile, invece, ad avviso della quale l'amministrazione ben può prevedere obblighi di comunicazione, anche in relazione alle attività liberalizzate, si v. C. conti, Sez. giur. Piemonte, sent., 16/04/2015, n. 78.).

Natura della responsabilità ex art 53, commi 7 e 7-bis, d. lgs. n. 165/2001: tesi sanzionatoria e risarcitoria a confronto

La responsabilità di cui al combinato disposto dell'art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165/2001 ha dunque dato adito ad interpretazioni contrapposte in ordine alla natura dell'obbligo di riversamento del compenso percepito dal dipendente pubblico in assenza di previa autorizzazione e al conseguente rito applicabile: è stata infatti talvolta qualificata come risarcitoria, talaltra come sanzionatoria.

In estrema sintesi, si può affermare che, nel primo caso, la teorica si fondasul presupposto dell'assenza di una correlazione tra l'obbligo del pubblico impiegato di riversamento all'amministrazione di appartenenza delle somme ricevute per l'espletamento di un incarico non autorizzato e un danno dall'amministrazione stessa subito. Nel secondo caso, invece, la teorica si fonda sul presupposto che il legislatore, nel prevedere l'obbligo di riversamento, abbia effettuato una predeterminazione del danno subito dalla p.a., quale minore quantità e qualità delle prestazioni rese nell'adempimento dei compiti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato e ne abbia quantificato l'ammontare in una somma, pari all'importo ottenuto dal dipendente in cambio della prestazione non autorizzata.

Entrambe le tesi, tuttavia, sono state diffusamente sostenute tanto dalle Sezioni giurisdizionali regionali quanto dalle Sezioni giurisdizionali centrali d'appello della Corte dei conti - anche se, quanto a queste ultime, va rilevata una netta maggioranza di pronunce favorevoli ad una ricostruzione della responsabilità in parola in termini risarcitori - e solo con la pronuncia in commento si è posto fine al contrasto giurisprudenziale.

Di seguito l'esposizione delle contrapposte teoriche.

La tesi risarcitoria e la responsabilità erariale tipizzata non sanzionatoria

Ad avviso dei suoi sostenitori, la tesi della natura risarcitoria trova il proprio fondamento nella lettera del testo normativo, anche alla luce del precedente autorevole arresto del 2011 delle stesse Sezioni Riunite, in materia di responsabilità erariale sanzionatoria (Il riferimento puntuale è C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 03/08/2011, n. 12/QM.).

La teorica muove le proprie mosse dalla connessione ontologica e terminologica esistente tra la responsabilità erariale e la sussistenza di un danno; quest'ultimo costituisce, infatti, di tutta evidenza, il fulcro dell'intera ipotesi accusatoria e rappresenta l'elemento di raccordo tra gli elementi dell'illecito, oggettivo (condotta e nesso causale) e soggettivo (dolo o colpa grave). Di contro, «la responsabilità sanzionatoria ha funzione prevalente di deterrenza, prescinde dal danno ed è incentrata sulla lesione di beni o valori primari» (così, letteralmente, il Procuratore Generale della Corte dei conti, Dott. A. Avoli, nell'atto di deferimento di questione di massima alle Sezioni Riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale del 20/05/2019, adottato ex art. 114, comma 3, c.g.c. e acquisito al protocollo dell'Ufficio di Procura Generale con il n. 650/SR/QM/PROC. Nel caso delle ipotesi di responsabilità sanzionatoria di cui conosce la Corte dei conti, ivi si ricorda come tali beni e valori assumano particolare rilievo a fini della contabilità pubblica, come, a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli equilibri di bilancio, la sostenibilità del debito pubblico, il coordinamento della finanza pubblica, et cetera.).

In questa prospettiva chiarire in termini generali ed astratti cosa debba intendersi per responsabilità erariale sanzionatoria (o per fattispecie erariali “puramente sanzionatorie”) appare dunque dirimente anche per il crescente numero di norme introdotte nell'Ordinamento per tipizzare condotte suscettibili di radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Sempre più spesso, infatti, il Legislatore ha approvato disposizioni che, senza fissare nuove sanzioni tipizzate, hanno comunque previsto che determinate condotte, ritenute illecite, costituissero fonte di responsabilità erariale (Si citano, ad esempio: gli artt. 7, commi 6, e 33, comma 1-bis, d. lgs. n. 165/2001; l'art. 1, commi 11 e 42, l. n. 311/2004; l'art. 1, comma 467, l. n. 296/2006; l'art. 240, c. 15-bis, d. lgs. n. 163/2006; l'art. 3, commi 54 e 56, l. n. 244/2007; l'art. 20, comma 13, d.l. n. 112/2008; l'art. 9, comma 2, d.l. n. 78/2009; l'art. 6, comma 7, d.l. n. 78/2010).

Ebbene, le Sezioni Riunite, chiamate a pronunciarsi sul fenomeno, con la sentenza 3 agosto 2011, n. 12/QM, hanno affermato che per “fattispecie sanzionatorie” si devono intendere solo quelle in cui la norma di legge non si limita a prevedere genericamente la responsabilità amministrativa come conseguenza di determinati comportamenti, ma provvede anche a fissare la tipologia della punizione o la precisa entità del pagamento dovuto (sia pure, talora, fissato tra un minimo e un massimo), con conseguente impossibilità, per il Giudice del merito, di addebitare al responsabile, una volta individuato, un importo diverso (Cfr. C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 03/08/2011, n. 12/QM e C. conti, Proc. Gen., att. def., 20/05/2019, n. 650/SR/QM/PROC.).

Conseguentemente, affermano le Sezioni Riunite, nelle numerose ipotesi in cui una norma di legge si limita a prevedere che una data azione o attività «[…] determina responsabilità erariale» (in questi termini, C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 03/08/2011, n. 12/QM.), anche mediante espressioni analoghe, ma senza comunque stabilire sanzioni precise e non derogabili, deve necessariamente ritenersi che ricorra una fattispecie ordinaria di responsabilità amministrativa, ossia, più precisamente, una fattispecie di responsabilità erariale tipizzata non sanzionatoria. L'unica peculiarità - puntualizza il Giudice della nomofilachia contabile - consiste, infatti, nella circostanza che la previsione di tale astratta ipotesi di responsabilità, sotto il profilo dell'esistenza di un illecito, è operata direttamente dal Legislatore, e dunque non vi sarà la necessità, per l'interprete, di verificare l'esistenza o meno di tale profilo nel caso di specie, ferma però restando la necessità di dimostrare la ricorrenza, in concreto, di tutti gli elementi della responsabilità amministrativo-contabile disciplinata dagli artt. 82 e ss. R.D. n. 2440/1923 (Il riferimento puntuale è al Regio Decreto 18 novembre 1923, n. 2440, recante «Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 275 del 23/11/1923 ed entrato in vigore in pari data.), 52 e ss. R.D. n. 1214/1934, nonché dalla l. n. 20/1994 e s.m.i.i.

Pertanto, affermano i sostenitori della tesi risarcitoria, se, da una parte, le Sezioni Riunite indicano come unica posizione ermeneutica coerente con il complesso normativo vigente quella di intendere per “fattispecie direttamente sanzionate dalla legge” le sole ipotesi nelle quali una norma di legge determini specificamente la sanzione conseguente al compiersi di un determinato illecito, dall'altra, la responsabilità disciplinata dal combinato disposto di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, d. lgs. n. 165/2001 dovrà necessariamente rientrare nelle ipotesi di responsabilità tipizzata non sanzionatoria, in cui il danno subito dall'amministrazione non è astrattamente predeterminato dal Legislatore, bensì è rappresentato dal mancato incremento del proprio patrimonio, conseguente al comportamento illecito del proprio dipendente.

In altri termini, i sostenitori della tesi risarcitoria ravvisano il danno erariale nella condotta omissiva del dipendente che manca di riversare il compenso indebitamente percepito alla propria p.a. di apparenza, giudicando detto comportamento come contrario ai doveri di servizio (ossia, tanto, l'aver omesso il versamento all'amministrazione di appartenenza, quanto, a monte, l'aver omesso di chiedere l'autorizzazione). Trattandosi di somme spettanti alla p.a., il danno (nella specie diretto da mancato introito) sarà pari all'omesso riversamento dei compensi professionali indebitamente percepiti.

La teorica in argomento ritiene, infatti, del tutto erronea l'enfatizzazione del dato testuale laddove si fanno «salve le più gravi sanzioni», giudicando che detto inciso non può essere interpretato nel senso che costituisca “sanzione” il versamento del compenso in conto entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza (V. più diffusamente infra). Si sostiene, a sostegno di detta ricostruzione, che, in caso di concorrente domanda in tal senso esperita dalla stessa amministrazione - da tenere ben distinta dalla domanda della Procura contabile - il giudice civile non irroga una “sanzione”, bensì dichiara l'obbligo di versamento. Il dato testuale normativo di cui al cit. art. 53, comma 7-bis, al contrario, avrebbe dovuto essere valorizzato laddove qualifica espressamente l'omissione del versamento quale ipotesi di “responsabilità erariale” e non sanzionatoria (Cfr. in questo senso ex multis la memoria per l'udienza del 21/5/2019 depositata dal Vice Procuratore Generale Dott. B. Tridico a seguito di C. conti, Sez. giur. Lazio, ord., 7/3/2019, nell'ambito del giudizio di responsabilità amministrativa iscritto nel Registro di Segreteria della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio al n. 76329).

La tematica, inoltre, -si sostiene- era stata trattata anche dalle stesse Sezioni Riunite che già con la sentenza 27 dicembre 2007, n. 12/QM, avevano confinato la responsabilità sanzionatoria in ambiti ben ristretti, affermando che trattasi di un tipo di responsabilità che non può essere generica, ma tipizzata, in quanto, essendo di tipo sanzionatorio, le relative fattispecie devono necessariamente corrispondere ai parametri costituzionali di cui all'art. 25 della Costituzione, e cioè al principio di stretta legalità nella molteplice accezione della tipicità, della tassatività (nel senso che le fattispecie legali non sono suscettibili di interpretazione analogica), della determinatezza, e della specificità (nel senso che la legge deve molto puntualmente indicare ogni elemento dell'intera fattispecie sanzionatoria, e cioè, sia con riferimento al precetto che alla sanzione). Al contrario, nelle ipotesi di mera previsione normativa di responsabilità amministrativa come conseguenza di determinati comportamenti non potrà parlarsi di «fattispecie direttamente sanzionate dalla legge». In conclusione, le Sezioni Riunite hanno affermato il seguente principio di diritto: «Per “fattispecie direttamente sanzionate dalla legge” devono intendersi quelle in cui non soltanto è prevista una sanzione pecuniaria conseguenza dell'accertamento di responsabilità amministrativa, ma in cui la norma definisce altresì l'automatica determinazione del danno, mentre va escluso che possano rientrarvi le ipotesi in cui la legge si limiti a prevedere che una certa fattispecie “determina responsabilità erariale”, o espressioni simili. In ipotesi di fattispecie direttamente sanzionate dalla legge, di cui sopra, pur escludendosi la sanzione di nullità ex art. 17, cit., in quanto l'attività istruttoria è legittimata direttamente dalla legge, restano fermi i principi fissati dalla Corte costituzionale. Ulteriore corollario di tale criterio interpretativo è che nell'ipotesi in cui è la legge stessa a imporre un obbligo di comunicazione al PM contabile, quest'ultimo resta abilitato a compiere accertamenti istruttori, tale essendo la ratio di simili prescrizioni legislative, non superate dall'art. 17 medesimo» (cfr. C. conti, Sez. Riun. giur., 27/12/2007, n. 12/QM).

In linea con quanto detto, si ribadisce poi, ulteriormente, che, nella fattispecie di responsabilità all'esame, non v'è tanto la lesione di beni o valori, per la cui tutela è necessaria la previsione di sanzione al fine di dissuadere da condotte che possano lederli, quanto soprattutto un vero e proprio danno per l'amministrazione che, in conseguenza della condotta del suo dipendente, subisce un mancato incremento del suo patrimonio nonostante ciò le spetti secondo il quadro ordinamentale. Le somme percepite dal dipendente che non ha richiesto l'autorizzazione sono, infatti, ope legis dell'amministrazione, e a questa debbono essere riversate (Così, ad esempio, il Vice Procuratore Generale Dott. B. Tridico nella Memoria per l'udienza del 21/5/2019 cit. A sostegno della teoria in rassegna, il Procuratore della Corte dei conti rammenta che ipotesi similari ricorrono sovente nel nostro ordinamento, ma non sono mai state configurate quali casi di responsabilità sanzionatoria, con conseguente mutamento di rito. Cita, in tal senso, il disposto di cui all'art. 24, comma 5, d.lgs. n. 147/2017, ove si dispone l'obbligo di trasmissione di dati all'INPS in materia di servizi sociali, prevedendo che «il mancato invio dei dati e delle informazioni determina, in caso di accertamento di fruizione illegittima di prestazioni non comunicate, responsabilità erariale del funzionario responsabile dell'invio». Anche in questo caso – si sostiene – non pare possa dubitarsi del fatto che vi sia un vero e proprio danno, non la previsione di una mera sanzione (peraltro neanche stabilita), tant'è che la responsabilità sussiste solo qualora acclarata la fruizione illegittima di prestazioni – con correlata illecita diminuzione patrimoniale dell'erario. Di qui, sempre ad avviso dei sostenitori della tesi risarcitoria, si paleserebbe il parallelismo con l'ipotesi di cui al combinato disposto di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, cit. in cui v'è un vero e proprio danno per l'omesso versamento e il correlato mancato introito, e non una sanzione da irrogare in assenza di danno, anche perché, in caso di versamento, viene meno il danno e la correlata responsabilità amministrativa. Giova anticipare che proprio questa prospettiva sarà fatta propria dall'Organo intestatario della funzione nomofilattica per la giurisdizione contabile nella pronuncia qui in commento).

In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, i sostenitori della tesi risarcitoria affermano in sintesi che:

1) nella fattispecie all'esame sussiste un vero e proprio danno erariale e non un comportamento da sanzionare senza la sussistenza di un danno (che, nella prospettazione avversa e contestata, rileverebbe eventualmente a concorrenza della sanzione da irrogare comunque);

2) l'affermare che l'omissione del versamento costituisce ipotesi di responsabilità erariale non configura l'introduzione di un'ipotesi di responsabilità sanzionatoria, per espressa affermazione di principio di diritto contrario da parte delle Sezioni Riunite con sentenza n. 12-QM/2011;

3) l'opzione per il rito sanzionatorio sarebbe comunque da escludere in quanto comporterebbe, per effetto dell'art. 134, comma 2, c.g.c., la riduzione del quantum della condanna al 30% in caso di pagamento immediato, così realizzando una fattispecie di favore per il convenuto che potrebbe anche avere una sostanziale convenienza, per il medesimo, a realizzare l'illecito, specie se si considerino le situazioni assolutamente non autorizzabili (ipotesi di doppio lavoro, tipologie di attività del tutto incompatibili con l'impiego pubblico e con esso confliggenti, ecc.).

La tesi sanzionatoria

Ad avviso dei sostenitori della tesi risarcitoria militerebbe nel senso di detta impostazione ermeneutica la funzione sottesa al combinato disposto di cui all'art. 53 cit. ossia quella di consentire al datore di lavoro di valutare la compatibilità dell'attività extra-lavorativa con la prestazione del rapporto di lavoro pubblicistico, di guisa che la fattispecie in argomento andrebbe giudicata come «tipico caso di responsabilità sanzionatoria» (In questi termini C. conti, Sez. giur. Lazio, sent./ord., 16/04/2019, n.166, in CED C. conti.).

In caso di omessa richiesta di autorizzazione, infatti, si impedirebbe il preventivo scrutinio, da parte della p.a. di appartenenza, in ordine all'assenza -anche potenziale- di un conflitto di interessi, e ciò comporterebbe l'applicazione della sanzione pecuniaria in questione, ponendosi a fondamento di tale lettura normativa il tenore letterale della norma, che fa «salve le più gravi sanzioni», così conferendo al versamento delle somme indebitamente percepite la medesima natura sanzionatoria (A ulteriore rafforzamento dell'impostazione ermeneutica in discussione si aggiunge poi, richiamando quanto affermato da Cass. civ., Sez. Un., ord., 19/01/ 2018, n. 1415, che la prestazione resa dal dipendente a favore di terzi non necessariamente implica un danno per l'amministrazione. A ben vedere, però, con l'ordinanza citata - massimata dall'Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione in CED Cass. n. 647008 - 01 - la Suprema Corte afferma sì la natura sanzionatoria dell'obbligo di riversamento, ma radica la giurisdizione in capo al giudice ordinario, stabilendo che: «La controversia avente ad oggetto il pagamento delle somme percepite dal pubblico dipendente nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario anche dopo l'inserimento, nell'art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001, del comma 7 bis, attesa la natura sanzionatoria dell'obbligo di versamento previsto dal comma 7 cit., che prescinde dalla sussistenza di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice contabile. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda riconvenzionale proposta dall'ente strumentale Croce Rossa Italiana nell'ambito del giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare promosso dal dipendente)».

Peraltro, si ritiene tale soluzione interpretativa conforme a quanto affermato dalle Sezioni Riunite con la cit. sentenza n. 12/2007/QM, che ha posto l'accento sulla mera potenzialità lesiva che caratterizza tali fattispecie, indipendentemente dalla ricorrenza di un danno. Nel caso all'esame, ad avviso dei sostenitori della tesi sanzionatoria si verserebbe quindi nell'ipotesi in cui la soglia di perseguibilità è anticipata al mero pericolo, senza che sia necessario verificare la ricorrenza in concreto di un danno.

È stato autorevolmente sostenuto (si v. in tal senso la memoria per l'udienza del 25/01/2018, depositata dal Vice Procuratore Generale Dott. U. Montella agli atti del giudizio di responsabilità amministrativo iscritto nel Registro della Segreteria della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio al n. G75404) che ad una ricostruzione risarcitoria della responsabilità qui di interesse osta lo stesso testo normativo, nel quale non si ritrova alcun elemento che autorizzi una correlazione tra minore prestazione e l'espletamento dell'incarico, né la necessità di fornire prova di un qualche scadimento degli obblighi prestazionali derivanti dal contratto di lavoro. Non può essere un assioma -si sostiene- quello secondo cui il dipendente svolge l'incarico non autorizzato necessariamente con pari detrimento della sua prestazione lavorativa quale dipendente, giacché si è rilevato che, invero, il dipendente ben potrebbe effettuare la prestazione fuori dall'orario di servizio o comunque svolgerla senza sottrarre energie ai doveri istituzionali, soprattutto quando la stessa, come nel caso dei professori universitari (che non hanno un orario d'ufficio da rispettare) si sostanzia in prestazioni di natura intellettuale. Se anche si volesse ipotizzare una tale correlazione, al fine di garantire una lettura costituzionalmente orientata della disposizione stessa, bisognerebbe allora necessariamente offrire una possibilità di prova contraria, che il legislatore invece non consente.

Ad una ricostruzione in termini risarcitori dell'obbligo di riversamento osterebbe altresì l'assenza di qualunque correlazione tra il valore della prestazione resa verso terzi in assenza di autorizzazione ed oggetto dell'obbligo di riversamento, e il valore dell'eventuale pregiudizio causato all'amministrazione di appartenenza in termini di minore o peggiore prestazione resa.

Se appare difficile una qualificazione in termini risarcitori dell'obbligo di riversare all'amministrazione di appartenenza le somme ricevute per l'espletamento di attività non autorizzate, più agevole e logica sarebbe quindi una ricostruzione della sua natura in termini sanzionatori, soprattutto se si volge lo sguardo alla funzione cui la disposizione è tesa.

In questo senso si sottolinea che il generale regime autorizzatorio delle attività extraistituzionali, a cui sottostanno tutti i pubblici dipendenti, anche appartenenti alle categorie il cui rapporto di lavoro non è stato oggetto di privatizzazione, ha una evidente e condivisibile ratio sia civilistica che pubblicistica: consentire al datore di valutare la compatibilità di tale attività extra-lavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione da rendersi nell'ambito del rapporto pubblicistico in modo tale da rispettare i principi costituzionali di tendenziale esclusività (art. 98 Cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.) (cfr. sempre U. Montella, Memoria per l'udienza del 25 gennaio 2018, cit.).

La funzione dell'autorizzazione, dunque, non sarebbe tanto quella di verificare la compatibilità tra la prestazione (in termini quantitativi e temporali) con l'assolvimento dei doveri di servizio, ma, anche e soprattutto, quella di assicurare il rispetto dei principi di imparzialità e buona amministrazione, accertando l'assenza -anche potenziale- di un conflitto di interessi tra la posizione funzionale del dipendente, il soggetto che conferisce l'incarico, ed il suo oggetto.

L'inosservanza del precetto sulla previa doverosa autorizzazione, impedendo all'ente di appartenenza il preventivo scrutinio circa l'assenza di un conflitto di interessi, comporta dunque l'applicazione di sanzioni disciplinari, la sanzione pecuniaria in discorso, oltre ad eventuali e più gravi sanzioni anche penali.

Oltre al già citato argomento letterale, la teorica in argomento valorizza, inoltre, un obiter dell'ordinanza n. 41 del 25 febbraio 2015 con cui la Corte costituzionale ha risolto il problema della preventiva escussione o meno del soggetto erogante, statuendo che «la norma coinvolgerebbe quest'ultimo solo in quanto il compenso non sia stato corrisposto, dovendo diversamente essere versato dal percettore, ciò sul presupposto del testo letterale del comma 7-bis dell'art. 53 che, al fine della qualifica del comportamento costituente responsabilità erariale da parte del pubblico impiegato, utilizza l'espressione "indebito percettore"» (enfasi del redattore).

Ai fini della devoluzione della giurisdizione, poi, muovendo dal presupposto che il comportamento omissivo è qualificato quale ipotesi di «responsabilità erariale» e non già di danno erariale, si rammenta come il Legislatore abbia, negli ultimi anni, introdotto nell'Ordinamento nuove ipotesi di responsabilità la cui natura è esplicitamente sanzionatoria, attribuendone la competenza giurisdizionale alla Corte dei conti e per la cognizione delle quali gli artt. da 133 a 136 del nuovo Codice di giustizia contabile, approvato con d.lgs. 26 agosto 2016 n. 174, hanno previsto un rito processuale speciale.

In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, i sostenitori della tesi risarcitoria affermano in sintesi che la responsabilità in discorso:

1) costituisce ipotesi di responsabilità sanzionatoria tipica, in cui la sanzione (integrale riversamento di quanto percepito contra legem), rispondente ai doverosi canoni di riserva di legge (tipicità, tassatività ed offensività), è predeterminata per legge, non si ritrovandosi nella norma alcun elemento che autorizzi una correlazione tra minore prestazione istituzionale ed espletamento dell'incarico extra-istituzionale, né alcuna correlazione tra il valore della prestazione resa verso terzi in assenza di autorizzazione ed oggetto dell'obbligo di riversamento;

2) ha una evidente funzione rafforzativa di quella disciplinare, nonché dissuasiva, donde la sua natura sanzionatoria e non risarcitoria;

3) in quanto affidata alla cognizione del giudice contabile, soggiace alla limitazione derivante dalla prescrizione quinquennale e agli altri presupposti del giudizio di responsabilità erariale, in primis l'elemento psicologico, costituendo quest'ultima circostanza, a chiusura del sistema ed in assenza di un minimo e un massimo edittale, costituisce baluardo di costituzionalità della sanzione, quanto alla proporzionalità tra il comportamento e la sua entità;

4) è ricostruita in termini sanzionatori da un ampio filone giurisprudenziale, anche di altro plesso giurisdizionale (ex multis C. conti, Sez. giur. Lombardia, sentt., 16/06/2017, n. 90, 25/11/2014, n. 216; Sez. giur. Veneto, sent., 1/03/2017, n. 30 in CED C. conti, mentre, con riguardo alla giurisdizione amministrativa, T.A.R. Liguria, sent., 6/02/ 2014, n. 223 - il quale àncora la qualificazione sanzionatoria proprio a «situazioni non compatibili con la posizione di imparzialità che discende dall'inserimento nell'apparato amministrativo» - 25/06/2013, n. 943).

La decisione delle Sezioni Riunite

E dunque: alla luce dei sopra richiamati orientamenti, ampliamenti motivati e sostenuti da diverse articolazioni della Corte, sia a livello regionale di primo grado che a livello centrale in sede d'appello, le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale si sono dovute pronunciare su due quesiti: 1) la natura della responsabilità disciplinata dall'art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165/2001; 2) l'individuazione del rito applicabile per il suo accertamento in sede erariale.

Non è stato infatti individuato un fondamento univoco all'obbligo di riversamento del compenso indebitamente percepito dal pubblico dipendente né dalla giurisprudenza contabile né, invero, dalla giurisprudenza della Corte regolatrice della giurisdizione.

Secondo una prima tesi (Si v. per le pronunce rese dalle Sezioni giurisdizionali centrali di Appello, ex multis, C. conti, Sez. II giur. centr. app., sentt., 03/05/2018, n. 277, 14/05/2018, n. 291, e, 31/05/2018, n 351; Sez. III giur. centr. app., sent., 12/07/2017, n. 64), infatti, l'omissione del versamento del compenso integra una condotta illecita cui seguirebbe un danno erariale diretto da mancate entrate per la p.a. di appartenenza, donde la natura risarcitoria della responsabilità in esame e la conseguente applicabilità del rito ordinario; secondo una seconda tesi (Si v. sul punto C. conti, Sez. giur. Lombardia, sentt., 16/06/2017, n. 90, 25/11/2014, n. 216, cit.; Sez. giur. Veneto, sent., 01/03/2017, n. 30; Sez. giur. Lazio, sent., 26/04/2018, n. 251, decrr., n. 6/2018, n. 2 /2019, n. 2, in CED C. conti; nonchésentt. n. 169/2019 e 172/ 2019, non ancora pubblicate), invece, la responsabilità di trattasi avrebbe una chiara finalità sanzionatoria rispetto ad una condotta individuata e tipizzata dal legislatore con automatica applicazione di una sanzione pecuniaria, pari all'intero compenso indebitamente percepito, donde l'applicabilità del rito speciale relativo a fattispecie sanzionatorie pecuniarie di cui agli artt. 133 ss. c.g.c.

Come supra accennato, gli opposti orientamenti del Giudice contabile trova spiegazione anche alla luce del mutato orientamento della Suprema Corte di Cassazione circa la natura della responsabilità delineata dal combinato disposto di cui all'art. 53, comma 7 e 7-bis, d. lgs. n. 165/2001.

Vengono in rilievo in questo senso:

  1. a fondamento della tesi c.d. risarcitoria, Cass. civ., Sez. Un., ord., 22 dicembre 2015, n. 25769, a mente della quale le norme in trattazione, da una parte, sono meramente ricognitive della precedente giurisprudenza di legittimità che riconosceva nella Corte dei conti il giudice munito di giurisdizione, dall'altra, ravvisavano due distinte condotte con relativi obblighi: il dovere di esclusività del rapporto di pubblico impiego derogabile solo attraverso la previa specifica autorizzazione chiesta e rilasciata dall'amministrazione di appartenenza; l'obbligo di riversamento del compenso, percepito a seguito dell'inosservanza del divieto di cui sopra, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza con la destinazione vincolata all'incremento del fondo di produttività.
  2. a fondamento della tesi c.d. sanzionatoria, Cass. civ., Sez. un., ord., 19 gennaio 2018, n. 1415 a mente della quale, da una parte, il giudice munito di giurisdizione sarebbe il giudice ordinario, dall'altra, l'obbligo di riversamento di quanto indebitamente percepito viene interpretato come una sanzione per la violazione del dovere di fedeltà, muovendo l'attività ermeneutica sia dal dato letterale che fa salve le più gravi sanzioni, sia dal carattere indubbiamente «disincentivante proprio della sanzione, desumibile dalla coincidenza dell'entità del versamento con quella delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente, affinché questi sappia in partenza di non poter trarre vantaggio alcuno da prestazioni che si appresi a svolgere in violazione del dovere di fedeltà», sia dal rilievo che l'obbligo di riversare tali somme prescinde da quelli che sono i necessari presupposti della responsabilità per danno erariale, sia, infine, dalla considerazione che a ritenere diversamente l'obbligo di riversamento di natura risarcitoria risulterebbe dissonante la predeterminazione del risarcimento in misura coincidente con quanto percepito dal pubblico dipendente. Con la successiva decisione Cass. civ., Sez. Un., ord., 26/06/2019, n. 17124 (V. Cass. civ., Sez. Un., ord., 26 giugno 2019, n. 17124, in CED Cass. n. 654415 - 01, a mente della quale «L'azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 promossa dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all'introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53, norma che non ha portata innovativa; si verte, infatti, in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, attraverso la quale si è inteso tutelare la compatibilità dell'incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico».), viene ribadito il precedente orientamento e dunque riaffermato la natura sanzionatoria della responsabilità in commento, pur affermandosi, però, la giurisdizione contabile.

Di qui, i fondati dubbi emersi nell'applicazione giurisprudenziale e la necessità dell'intervento chiarificatore delle Sezioni Riunite anche alla luce del riverbero che una diversa interpretazione circa la natura della responsabilità in commento produceva nel giudizio innanzi alla Corte dei conti in ordine al rito applicabile. Da una sua ricostruzione in termini risarcitori, infatti, sarebbe discesa l'applicazione il rito ordinario, con la conseguenza che il Requirente contabile, prima di introdurre il giudizio con il deposito dell'atto di citazione presso la segreteria della Sezione giurisdizionale, avrebbe dovuto notificare l'invito a dedurre al presunto responsabile, attendere le sue eventuali deduzioni difensive e, nel caso di sua richiesta di audizione personale, avrebbe dovuto - a pena di improcedibilità - convocarlo per ascoltarne le ragioni, mentre, di contro, in caso di una sua ricostruzione in termini sanzionatori, avrebbe trovato applicazione il rito speciale relativo a fattispecie sanzionatorie pecuniarie, decisamente più veloce e meno garantista, introducendosi il giudizio direttamente con il deposito del ricorso presso la segreteria del Giudice monocratico all'uopo indicato dal Presidente della Sezione, e definendosi con decreto da adottarsi entro 60 giorni dal deposito, in seguito alla celebrazione dell'unica udienza pubblica prevista.

Ebbene, il Giudice della nomofilachia per la giurisdizione contabile, nella pregevole pronuncia in commento, preliminarmente, procede con la scomposizione del primo quesito, distinguendo nell'ambito della responsabilità disciplinata dall'art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165/2001, due condotte: la prima, relativa all'obbligo di riversamento del compenso indebitamente percepito dal dipendente che abbia eseguito una prestazione lavorativa extra-istituzionale, l'altra, relativa al mancato riversamento dell'importo nel conto dell'entrata dell'amministrazione di appartenenza.

Muovendo dalla giurisprudenza della Corte regolatrice, le Sezioni Riunite precisano che l'oggetto dell'esame va individuato nella condotta attiva imposta al dipendente pubblico di versare il compenso percepito in difetto di autorizzazione ([1] Così letteralmente Cass. civ., Sez. Un., ord., 26/06/2019, n. 17124, cit. Giova ricordare, però, che la conclusione cui perviene la Corte regolatrice nell'ordinanza appena richiamata è di una ricostruzione in termini sanzionatori della responsabilità di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165/2001, ivi rivenendosi anche che, proprio muovendo dalle premesse fatte proprie dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, l'interpretazione dell'obbligo di riversamento come sanzione conseguente alla violazione del divieto di assumere incarichi extra-istituzionali, obbligo che prescinde dalla verifica della sussistenza degli elementi della responsabilità amministrativo-contabile. Ad avviso della Suprema Corte occorre, infatti, puntualizzare che «l'obbligo di versamento […] prescinde dai presupposti della responsabilità del danno (evento; nesso di causalità; elemento psicologico), non dovendosi confondere il concetto attinente alla mera reversione del profitto con quello del danno […] che condurrebbe all'estensione del limite della giurisdizione contabile al di fuori dei suoi confini istituzionali») e, motivando il proprio ragionamento attraverso la constatazione che la violazione del divieto di svolgere incarichi extra-istituzionali non previamente autorizzati non provoca ex se alcun danno, mettono a fuoco come la lesione patrimoniale arrecata alla pubblica amministrazione di appartenenza discende da autonome e ulteriori condotte, ma non dalla violazione del divieto. Si legge nella sentenza in commento, infatti, che «è, quindi, evidente che l'obbligo di versamento del tantundem indebitamente percepito dal dipendente, […], ha natura sanzionatoria della violazione della già indicata normativa, posta a protezione dei beni, costituzionalmente tutelati, dell'imparzialità del dipendente pubblico […]» (Così letteralmente C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 31/07/2019, n. 26/QM (p. 24 di 36). Date queste premesse, la responsabilità erariale indicata dall'art. 53, comma7-bis, d.lgs. 165/2001, legata all'obbligo primario di richiedere ed ottenere previa e specifica autorizzazione, è tuttavia da ricollegarsi alla sola omissione della reversione del compenso indebitamente percepito, ed è questo comportamento omissivo a dover essere vagliato al fine di verificare se la condotta in parola sia o meno sussumibile nel paradigma della responsabilità sanzionatoria.

Precisate queste premesse, le Sezioni Riunite procedono con l'indagine della ratio legis sottesa alle ipotesi di responsabilità sanzionatoria pecuniaria e, ripercorrendo la propria giurisprudenza (Il riferimento è essenzialmente a C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 03/08/2011, n. 12/QM), tracciano un interessante parallelismo con le fattispecie penali affermando che le fattispecie in parola sono invero introdotte per anticipare la tutela di valori di volta in volta individuati dal legislatore, indipendentemente dalla produzione di un danno, analogamente a quanto accade con i reati di pericolo, e coincidenti con valori, in generale, incentrati sulla contabilità pubblica e, in particolare, sul bilancio inteso come bene pubblico dello Stato Comunità.

Il ragionamento del Giudice della nomofilachia per la giurisdizione contabile muove, dunque, dall'arresto della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 320 del 2004, definì conforme alla Costituzione l'art. 30, comma 15, l. 289/2002 - una delle disposizioni sanzionatorie più controverse vista l'entità della sanzione (da cinque a venti volte l'indennità di carica degli amministratori colpevoli della violazione del divieto di indebitamento per spese diverse da quelle di investimento) - e dal successivo pronunciamento delle stesse Sezioni Riunite in sede giurisdizionale n. 12/2007/QM, che distinse tra responsabilità sanzionatoria c.d. “pura” e responsabilità sanzionatoria c.d. “spuria”.

Nei casi in cui risulta tipizzata la sola condotta foriera di produrre una responsabilità erariale, è evidente infatti che tutti gli altri elementi della responsabilità amministrativa dovranno rispondere agli ordinari canoni di cui alla l. 20/1994.

E dunque: nell'ipotesi disciplinata dall'art. 53, comma 7-bis, d. lgs. 165/2001, affermano le Sezioni Riunite «non vi è nessuna sanzione per la violazione di “specifiche disposizione normative” né, tantomeno, l'irrogazione di sanzioni predeterminate (sia pure in un delta sanzionatorio) all'interno del quale il giudice deve esercitare il suo potere discrezionale» (così letteralmente C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 31/07/2019, n. 26/QM (p. 30 di 36), con la conseguenza che la responsabilità in commento deve interpretarli alla stregua di una responsabilità erariale classica, cagionati dal comportamento omissivo consistente nella «violazione dell'obbligo di riversamento del compenso indebitamente percepito, già entrato idealmente e contabilmente, giusta previsione legislativa, nel bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente» (Così letteralmente C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 31/07/2019, n. 26/QM (p. 30 di 36).

In altri termini, l'art. 53, comma 7, d. lgs. 165/2001 trasforma l'indebita percezione del compenso pagato al dipendente giusta prestazione lavorativa extra-istituzionale non previamente e specificamente autorizzata in un'entrata tipica dell'amministrazione di appartenenza, qualificando conseguentemente come risarcitoria la relativa responsabilità erariale, in caso di omesso riversamento, in quanto è il concetto stesso di risarcimento a presupporre che il valore danneggiato dal soggetto agente mediante il proprio comportamento – al tempo stesso commissivo (violazione del divieto di eseguire prestazioni extra-istituzionali non autorizzate) e omissivo (mancata riversione del compenso) – sia già presente nel patrimonio del soggetto danneggiato.

Trattasi dunque di una responsabilità risarcitoria in quanto il versamento dell'indebito compenso nel conto delle entrate dell'amministrazione di apparenza costituisce invero una tipica ipotesi di reintegrazione di una posta contabile attiva, dovuta tuttavia non per la violazione del divieto di svolgimento dell'incarico, bensì per una mancata entrata, ossia «per una reale diminuzione patrimoniale per l'amministrazione di appartenenza del dipendete, la quale viene privata di un'entrata vincolata e da imputarsi al fondo perequativo per i dipendenti» (Così letteralmente C. conti, Sez. Riun. giur., sent., 31/07/2019, n. 26/QM (p. 31 di 36).

Diversamente opinando, sostengono le Sezioni Riunite, non troverebbe una logica spiegazione l'alternatività del versamento del compenso da parte dell'ente erogatore o dell'indebito percettore. Parimenti priva di logica risulterebbe l'esclusione dall'applicabilità della disciplina in parola degli incarichi gratuiti, i quali, in astratto, ben potrebbero essere in contrasto sia con l'esclusività del rapporto alle dipendenze di una pubblica amministrazione sia con il buon andamento dell'azione amministrativa.

Assunta questa prospettiva, non coglie conseguentemente nel segno l'interpretazione della responsabilità in esame come responsabilità di tipo sanzionatorio là dove ravvisa nell'obbligo di riversamento «una predeterminazione del danno subito dall'amministrazione quale minore quantità e qualità delle prestazioni rese nell'adempimento dei compiti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato», giacché come rilevato la responsabilità disciplinata dal combinato disposto di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, non trova il proprio fondamento nella violazione del principio di esclusività del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, bensì nella condotta successiva di omissione del riversamento del compenso indebitamente percepito.

Da tali considerazioni, infine, discende l'applicazione di tutti gli ordinari canoni della responsabilità amministrativo-contabile, sia sostanziali che processuali, donde la necessità di provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità di cui all'art. 1, l. 20/1994 e s.m.i.i. e l'applicazione del rito ordinario, peraltro scelta ermeneutica certamente da privilegiare nel dubbio essendo ictu oculi maggiormente rispettosa delle garanzie assicurate al presunto responsabile.

In conclusione

La pronuncia in commento con una tanto pregevole quanto esaustiva motivazione pone fine ad un profondo contrasto prodottosi -e aggravatosi nel tempo- in seno alla giurisprudenza contabile, con non irrilevanti riflessi in punto di certezza del diritto.

Si afferma così definitivamente la natura risarcitoria della responsabilità di cui all'art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. 165/2001, con le rilevantissime conseguenze sia sostanziali che processuali appena citate: non solo, infatti, il Requirente contabile dovrà provare nell'atto di citazione con cui introdurrà il giudizio di responsabilità tutti gli elementi dell'illecito erariale - ossia, la sussistenza del rapporto di servizio, nella sua odierna accezione strutturale e funzionale, l'elemento oggettivo (condotta e nesso causale) e l'elemento soggettivo (dolo o colpa grave) - ma anche, in una prospettiva certamente più rispettosa delle garanzie processuali, dovrà procedere preliminarmente con l'emanazione del rituale invito a dedurre e con l'eventuale audizione personale del presunto responsabile.

Il pubblico dipendente indebito percettore di un compenso percepito per prestazioni extra-istituzionali non previamente autorizzate avrà dunque modo di motivare - e di provare - le ragioni sottese alla mancata attivazione del procedimento autorizzatorio, così eventualmente minando la configurabilità dell'illecito erariale per assenza della richiesta colpa grave.

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