Decesso del paziente e valutazione del perimetro di responsabilità del medico specializzando

Vittorio Nizza
13 Settembre 2019

Le questioni sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione riguardano in primo luogo la sussistenza del nesso eziologico tra il comportamento del chirurgo, comunque connotato da alcuni profili di negligenza, e il decesso del paziente e in secondo luogo la posizione dell'aiuto chirurgo – medico specializzando – che aveva assistito il chirurgo sia nell'attività operatoria che nel successivo decorso del paziente.
Massima

È da ritenersi manifestamente infondato il motivo di ricorso che si limiti ad attribuire sommariamente una corresponsabilità al medico specializzando per il solo fatto di aver preso parte all'attività chirurgica e al decorso post-operatorio senza specificare quali siano le condotte attive od omissive a lui individualmente riferibili rispetto a quelle contestate al medico strutturato. La posizione dell'aiuto chirurgo risultava strettamente collegata, per non dire sovrapponibile, a quella del medico chirurgo rispetto al quale non erano stati rinvenuti profili di colpa che avessero determinato, al di là di ogni ragionevole dubbio, il decesso del paziente.

Il caso

Il procedimento in oggetto vedeva imputati il medico chirurgo e l'aiuto chirurgo per il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. a seguito del decesso di un loro paziente all'esito di una complessa vicenda clinica. Il paziente, affetto da obesità grave e da patologia psichiatrica, si era sottoposto ad un intervento di chirurgia bariatrica presso una clinica privata. Il paziente veniva sottoposto ad un primo intervento chirurgico (di diversione bilio – pancreatica – intestinale per via laparoscopica) e ad un secondo, pochi giorni dopo, per una complicanza. In seguito veniva sottoposto a ripetuti interventi di toilette della ferita chirurgica. Dopo circa un mese il paziente decideva di trasferirsi presso il policlinico della medesima città dove, dopo un iniziale miglioramento, decedeva.

A seguito di una articolata istruttoria, con nomina di un collegio di periti durante il giudizio di appello, veniva esclusa la sussistenza di profili di colpa legati alla patologia psichiatrica del paziente.

Inoltre, secondo i periti, entrambi gli interventi chirurgici erano stati correttamente realizzati. Il decesso sarebbe stato causato da uno stato settico insorto in un paziente definito “fragile” a causa dell'obesità e delle complicazioni insorte nel decorso post operatorio. Lo stato settico era dovuto al formarsi di una fistola-deiscenza sulla linea di sutura del primo intervento. Secondo i periti tale complicanza sarebbe stata “prevedibile ma non prevenibile” in quanto manifestatasi solo dopo il secondo intervento. Il decesso pertanto sarebbe stato una conseguenza non evitabile del primo intervento.

Secondo le valutazioni peritali, inoltre, anche l'omessa effettuazione da parte del chirurgo di accertamenti radiografici dopo il secondo intervento non avrebbe avuto rilevanza causale, posto che il paziente aveva volontariamente deciso di farsi trasferire presso un'altra struttura ospedaliera.

Entrambi i medici venivano pertanto assolti in primo e secondo grado dal reato loro ascritto.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso la parte civile.

La questione

Le questioni sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione con l'atto di impugnazione riguardano principalmente due profili: il primo luogo la sussistenza del nesso eziologico tra il comportamento del chirurgo, comunque connotato da alcuni profili di negligenza, e il decesso del paziente e in secondo luogo la posizione dell'aiuto chirurgo – medico specializzando – che aveva assistito il chirurgo sia nell'attività operatoria che nel successivo decorso del paziente.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame la Corte di Cassazione conferma la sentenza assolutoria già emessa nei primi due gradi di giudizio ritenendo non sussistenti elementi probatori tali da consentire di ritenere gli imputati responsabili al di la di ogni ragionevole dubbio. I giudici di merito infatti avevano ritenuto (con motivazioni ritenuta puntuale e completa e quindi non sindacabile in sede di legittimità) di adeguarsi alle valutazioni dei periti secondo i quali, sebbene fossero emersi dei profili di colpa per negligenza nell'operato del medico chirurgo, tuttavia non erano emersi elementi probatori che consentissero di ritenere provata la sussistenza del nesso eziologico con il successivo decesso del paziente. I due interventi chirurgici posti in essere dall'imputato erano stati ritenuti correttamente eseguiti, il decesso sarebbe stato conseguenza di una complicanza del primo intervento ritenuta “prevedibile ma non prevenibile”. Inoltre con riferimento alla mancata effettuazione da parte dell'imputato di un esame radiografico dopo il secondo intervento non sarebbe stata raggiunta la prova della rilevanza eziologica di tale condotta con l'evento morte.

L'ulteriore profilo analizzato nella sentenza in epigrafe riguarda invece la posizione del secondo imputato, l'aiuto – chirurgo. Lo stesso infatti avrebbe preso parte sia all'attività chirurgica che al decorso post operatorio. Secondo il ricorso della parte civile, infatti, la corte d'appello non avrebbe valutato la posizione del medico specializzando, il quale in virtù della sua pozione di garanzia per aver comunque preso parte agli interventi, avrebbe avuto un obbligo di sorveglianza sulla salute del paziente.

Secondo i supremi giudici non sarebbero emersi nel corso dell'istruttoria elementi tali da consentire una valutazione individualizzante ed autonoma dall'operato dell'aiuto chirurgo né durante la fase operatoria né in quella successiva rispetto alla condotta posta in essere dal chirurgo. La posizione dell'aiuto chirurgo risulta pertanto strettamente collegata, se non sovrapponibile a quella del chirurgo, pertanto anche nei suoi confronti viene confermata al sentenza di assoluzione pronunciata nel secondo grado.

Osservazioni

L'attività medica, in particolare quella ospedaliera, si caratterizza ormai sempre più frequentemente per la presenza di più professionisti, normalmente di diverse specializzazioni, che prendono in cura il paziente. Tale attività si caratterizza dal fine ultimo che unisce le condotte di ciascun sanitario coinvolto, ossia la cura e la salvaguardia della salute del paziente. Si tratta in tali casi di attività di equipe.

La collaborazione può essere sincronica, con il contemporaneo intervento sul paziente di più medici, come accade ad esempio nei casi di operazioni chirurgiche, o diacronica, quanto l'intervento dei vari sanitari si sussegue nel tempo, pur rimanendo funzionalmente collegate nella cura del medesimo caso clinico.

Si è posto il problema di delimitare, in caso di esito infausto, il perimetro di responsabilità di ciascun medico intervenuto al fine di evitare che in ogni caso tutti venissero chiamati a rispondere per l'errore commesso da uno solo di essi, in tal modo imponendo anche ad ognuno il controllo costante sull'operato altrui. Secondo la giurisprudenza, infatti, la responsabilità penale di ogni componente di una équipe medica per un evento lesivo occorso ad un paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell'accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito all'équipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, anche in una prospettiva di verifica dell'operato degli altri nei limiti delle proprie competenze e possibilità (Cassazione penale, Sez. IV, 30 marzo 2016, n.18780).

La giurisprudenza ha quindi elaborato il principio di affidamento, espressione del principio della personalità della responsabilità penale, con alcuni temperamenti. Secondo il suddetto principio, infatti, ciascuno è tenuto a rispondere solamente del proprio operato potendo confidare che gli altri partecipi dell'equipe allo stesso modo agiscano nel rispetto delle regole precauzionali riferibili all'agente modello, senza essere pertanto tenuto ad un dovere di vigilanza sull'operato altrui.

In ambito medico, tuttavia, come noto, la giurisprudenza ha elaborato alcuni limiti al principio di affidamento, stante la necessità di contemperare tale principio con l'obbligo di garanzia verso il paziente che vincola tutti i sanitari intervenuti nel trattamento terapeutico. Innanzitutto occorre che il soggetto agisca nel rispetto delle regole di prudenza, diligenza e perizia, non potendo confidare che chi interviene dopo di lui elimini quella violazione o ponga rimedio al suo errore.

Inoltre il principio di affidamento non trova applicazione in tutti i casi in cui l'errore commesso dal collega sia evidente e non settoriale, rilevabile ed emendabile con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. In tali casi, infatti, anche gli altri sanitari risponderanno per le eventuali conseguenze lesive comportate al paziente qualora non sia intervenuti per emendare l'errore altrui.

È inoltre evidente come il principio di affidamento trovi un limite nel diverso ruolo che il sanitario può assumere all'interno dell'equipe. Il capo – equipe o il primario rivestono una posizione di garanzia qualificata che comporta un dovere di vigilanza più pregnante sull'operato degli altri membri dell'equipe. Il capo-equipe potrà essere chiamato a rispondere per errori commessi dai suoi “sottoposti” o anche per aver attribuito un compito ad un soggetto poi sufficientemente competente. Allo stesso modo, dovrà essere attentamente valutata la posizione di un sanitario “sottoposto” quale un aiuto – chirurgo o un medico specializzando, in base alla sua effettiva possibilità di intervenire per emendare l'errore del primario.

La figura del medico specializzando è peculiare in quanto la normativa che disciplina tale figura professionale (d.lgs. 368/1999) riconosce in capo allo stesso "un'autonomia vincolata". Lo specializzando, pertanto, non è un mero spettatore dell'attività posta in essere dal suo tutor, ma partecipa attivamente, in maniera graduale secondo le sue competenze, ovviamente nel rispetto delle direttive e sotto il controllo del suo responsabile. Il medico specializzando è tenuto a non accettare un incarico rispetto al quale non abbia un adeguata preparazione.

Il medico specializzando ha quindi comunque una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che dovrà però essere graduata e valutata in base alle sue specifiche competenze, all'attività in concreto posta in essere anche con riferimento alle direttive ricevute, nonché alla concreta possibilità di riconoscere ed eventualmente intervenire rispetto ad una condotta colposa del suo tutore. Naturalmente la valutazione su un eventuale responsabilità in capo allo specializzando deve essere effettuata caso per caso.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione aveva evidenziato come in realtà non fosse stato rilevato un'attività autonoma posta in essere dall'aiuto – chirurgo, diversa da quella realizzata dal medico – chirurgo, pertanto le due posizioni risultavano di fatto sovrapponibili. Non essendo stati rilevati profili di colpa penalmente rilevanti nella condotta del medico – chirurgo, allo stesso modo non potevano sussistere profili di responsabilità in capo allo specializzando al quale non erano addebitabili ulteriori o diverse condotte causalmente ricollegabili al decesso del paziente.

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