L'applicabilità della compensatio lucri cum damno alla rendita vitalizia erogata dall'INAIL a seguito di un infortunio in itinere

Andrea Penta
18 Settembre 2019

Due sono gli orientamenti formatisi sulla questione: l'uno nel senso di ritenere che la costituzione, da parte dell'assicuratore sociale, di una rendita in favore dei prossimi congiunti di persona deceduta in conseguenza di un sinistro stradale in itinere non esclude né riduce in alcun modo il loro diritto al risarcimento del danno patrimoniale nei confronti del responsabile, non operando in tale ipotesi il principio della «compensatio lucri cum damno», a causa della diversità del titolo giustificativo della rendita rispetto a quello del risarcimento, di talché non sussiste alcuna duplicazione del danno ai sensi dell'art. 1916 c.c.; l'altro nel senso del diffalco, dovendosi detrarre, in base al principio indennitario, le somme liquidate dall'INAIL in favore del danneggiato da sinistro stradale a titolo di rendita dall'ammontare del risarcimento dovuto al danneggiato da parte del terzo responsabile.
La fattispecie concreta analizzata dalla Suprema Corte, sentenza n. 14362/2019

Nella fattispecie sottoposta all'attenzione della S.C. i giudici di merito, pur accogliendo la domanda quanto al danno (non patrimoniale) da perdita del rapporto parentale, avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante (per ottenere il ristoro del pregiudizio da essi subito in ragione del decesso dell'unico produttore di reddito all'interno del proprio nucleo familiare) proposta dai ricorrenti avverso la società proprietaria dell'autoveicolo sul quale era trasportata la vittima (marito e padre degli attori) e la compagnia assicuratrice dello stesso, sul rilievo che l'INAIL aveva costituito a favore della vedova una rendita vitalizia, nonché a favore dei figli una rendita temporanea fino al compimento degli studi e, comunque, fino al 26° anno di età.

Era intervenuta anche l'INAIL, esercitando azione di rivalsa per le somme versate - ammontanti a € 375.338,22 - agli eredi del deceduto. Nelle more del giudizio di primo grado, l'ente previdenziale aveva accettato dall'assicurazione del veicolo, a tacitazione del suo diritto di surroga, l'importo complessivo di € 180.000,00.

In relazione al danno patrimoniale da lucro cessante, pertanto, gli odierni ricorrenti avevano formulato la richiesta, in via di principale, di liquidazione dell'importo di € 329.627,00 e, in subordine, di pagamento della differenza tra la prima di tali somme e quella versata dalla compagnia all'INAIL per soddisfarne il diritto di surroga, ovvero € 149.627,00.

La tesi sostenuta dagli attori-ricorrenti è che le rendite erogate in loro favore erano dovute in esecuzione di una precisa obbligazione previdenziale, in virtù dei versamenti contributivi operati in vita dal congiunto all'INAIL nel corso dell'attività lavorativa. In altre parole, sarebbe la diversità dei titoli della prestazione indennitaria e di quella risarcitoria a giustificare la coesistenza delle rendite e del danno patrimoniale e, quindi, l'esclusione dell'applicabilità, alla fattispecie, della compensatio lucri cum damno.

In via subordinata, assumevano che, qualora la Corte avesse inteso aderire all'orientamento favorevole a ravvisare, nell'ipotesi de qua, i presupposti per l'applicazione della compensatio, non si sarebbe potuto negare almeno il loro diritto a conseguire la differenza tra quanto da essi preteso a titolo di danno da lucro cessante (€ 329.627,00) e l'importo di € 180.000,00 conseguito, in via transattiva e a titolo di rivalsa, dall'INAIL, da parte della compagnia assicuratrice. Difatti, secondo i ricorrenti, poiché INAIL, nel caso di specie, aveva esercitato il suo diritto di surroga definendo la vertenza con la società assicuratrice del responsabile, transattivamente, mediante la riscossione dell'importo di € 180.000,00, essi avrebbero "perso la legittimazione ad agire solo per tale importo ma non per l'intero risarcimento del danno patrimoniale" (stimato, come detto, in € 329.627,00), donde il loro diritto almeno alla differenza tra l'una e l'altra somma.

Gli orientamenti formatisi all'interno della Cassazione sulla specifica questione

Due sono gli orientamenti formatisi sulla delineata questione: l'uno nel senso di ritenere che la costituzione, da parte dell'assicuratore sociale, di una rendita in favore dei prossimi congiunti di persona deceduta in conseguenza di un sinistro stradale in itinere non esclude né riduce in alcun modo il loro diritto al risarcimento del danno patrimoniale nei confronti del responsabile, non operando in tale ipotesi il principio della «compensatio lucri cum damno», a causa della diversità del titolo giustificativo della rendita rispetto a quello del risarcimento, di talché non sussiste alcuna duplicazione del danno ai sensi dell'art. 1916 c.c.; l'altro nel senso del diffalco, dovendosi detrarre, in base al principio indennitario, le somme liquidate dall'INAIL in favore del danneggiato da sinistro stradale a titolo di rendita dall'ammontare del risarcimento dovuto al danneggiato da parte del terzo responsabile.

Gli argomenti spesi a sostegno del secondo, prevalente indirizzo, poi fatto proprio dalle Sezioni Unite, sono i seguenti:

  1. il valore capitale della rendita INAIL corrisponde al valore patrimoniale già risarcito, non ulteriormente computabile a favore del danneggiato, onde evitare duplicazioni di risarcimento sia in favore del danneggiato che a carico del responsabile o del suo assicuratore;
  2. nelle assicurazioni sociali, quando l'istituto comunica al terzo responsabile che il caso è stato ammesso all'assistenza prevista dalla legge ed agli indennizzi e lo preavverte della volontà di esercitare il diritto di surroga, la certezza e l'automatismo delle successive prestazioni sono elementi sufficienti per integrare i presupposti richiesti dall'art. 1916 c.c. e determinano l'impossibilità, per il terzo responsabile, di opporre eventuali successivi accordi intervenuti con il danneggiato;
  3. in caso di esercizio da parte dell'INAIL dell'azione di surroga (che rappresenta una peculiare forma di successione a titolo particolare nel diritto di credito del danneggiato) nei confronti del responsabile del danno, il credito del leso si trasferisce all'istituto previdenziale per la quota corrispondente all'indennizzo assicurativo da questo corrisposto, con la conseguenza che l'infortunato perde, entro tale limite, la legittimazione all'azione risarcitoria, conservando il diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa.

Pertanto, in caso di infortunio sulle vie del lavoro scaturito da un fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto giuridico previdenziale, la vittima (in tale nozione potendosi includere il soggetto infortunato, ma anche, nell'ipotesi del suo decesso, i suoi familiari) può contare su un sistema combinato di tutele, basato sul concorso delle regole della protezione sociale garantita dall'INAIL (vale a dire, del sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro) e di quanto riveniente dalle regole civilistiche in materia di responsabilità.

Una volta inquadrata dal punto di vista dogmatico la questione, la Cassazione si pone il problema di stabilire se tale "duplicità" di strumenti di tutela sia in rapporto di complementarietà o di incompatibilità. Al fine di risolverlo, individua, quale linea direttrice, la necessità di superare l'inconveniente di una interpretazione «asimmetrica» dell'art. 1223 c.c., vale a dire di una interpretazione che, quando si tratta di accertare il danno, ritiene che il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato, laddove, invece, esige al contrario che lo sia, quando passa ad accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito.

Fatta tale premessa di metodo, richiama l'arresto delle Sezioni Unite nella parte in cui hanno statuito «che, nell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la rendita INAIL costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l'inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro", sicché essa, pur potendo "presentare delle differenze nei valori monetari rispetto al danno civilistico", comunque "soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l'infortunio «in itinere» subito dal lavoratore».

Indi, individuate le disposizioni normative rilevanti [l'art. 1916 c.c., nella parte in cui dispone che l'assicuratore che ha pagato l'indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell'ammontare di essa, nei diritti dell'assicurato verso il terzo danneggiante (dettando una previsione che, rammentano le Sezioni Unite, si applica "anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali"), e l'art. 142 cod. ass., nella parte in cui stabilisce che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l'ente gestore di questa abbia diritto di ottenere direttamente dall'impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione)], il Collegio evidenzia che le relative fattispecie sono connotate da un elemento comune: la successione nel credito risarcitorio dell'assicurato/danneggiato (o, come nel caso che occupa, dei suoi eredi), la quale attribuisce all'ente gestore dell'assicurazione sociale che abbia indennizzato la vittima (ovvero, i suoi eredi) la titolarità della pretesa nei confronti dei distinti soggetti obbligati, al fine di ottenere il rimborso tanto dei ratei già versati quanto del valore capitalizzato delle prestazioni future.

Orbene, siffatto fenomeno successorio, esaminato dal punto di vista del danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l'intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo, e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito, sicché le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall'INAIL a titolo di rendita per l'inabilità permanente vanno detratte dall'ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile al predetto danneggiato. Ciò soprattutto perché, mancando tale detrazione, il danneggiato verrebbe a conseguire un importo maggiore di quello a cui ha diritto.

In definitiva, è necessario che l'intervento del sistema di sicurezza sociale attraverso l'erogazione della prestazione assicurativa non consenta al lavoratore di reclamare un risarcimento superiore al danno effettivamente sofferto, permettendogli, invece, di agire nei confronti del terzo, cui è addebitabile l'infortunio «in itinere», per ottenere la differenza tra il danno subito e quello indennizzato, allo stesso titolo, dall'INAIL.

Di qui, pertanto, la perdita della legittimazione all'azione risarcitoria per la quota corrispondente all'indennizzo assicurativo riscosso (o riconosciuto in suo favore), ed il mantenimento, invece, del diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa (cfr. Cass. civ., Sez. Un. sent. n. 12566 del 2018; su quest'ultimo aspetto anche Cass. civ., sez. III, ord. 23 novembre 2017, n. 27869).

In applicazione di tali principi, la S.C. è pervenuta alla conclusione che anche la rendita vitalizia in favore del coniuge superstite del lavoratore vittima di un infortunio in itinere, così come quella temporanea liquidata ai figli dello stesso, assolve ad una funzione di "anticipo" del ristoro del danno da perdita degli apporti economici garantiti dal loro familiare. Di conseguenza, nel caso sottoposto al suo esame, poiché i ricorrenti avevano riferito di aver ricevuto dall'INAIL la somma di € 375.338,22, essi non avevano diritto a pretendere le somme ulteriori indicate (€ 329.627,00).

Da ultimo, chiariscono i giudici di legittimità, non è invocabile, nella fattispecie, l'operatività della compensatio lucri cum damno quanto alla pensione di reversibilità, giacché si tratta di eccezione che trova la sua ragion d'essere nella peculiarità di tale provvidenza, che realizza una «tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito del terzo» (Cass. civ., Sez. Un., sent. 22 maggio 2018, n. 12564).

Infine, il Collegio reputa non fondata anche la pretesa di circoscrivere l'operatività della compensatio nei limiti della somma oggetto di transazione tra l'INAIL e l'impresa di assicurazioni.

Difatti, anche a non voler considerare la (evidente) estraneità dei ricorrenti a tale contratto, siffatta pretesa non risulta in linea con quello che è il loro "diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa", giacché l'accoglimento di detta pretesa varrebbe ad assicurare ai medesimi quel risarcimento ultracompensativo che - pur nell'ambito di una concezione ormai "polifunzionale" del sistema della responsabilità civile - risulta ammissibile solo in presenza di un'espressa previsione di legge (cfr., in motivazione, Cass. civ., Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n. 16601).

L'indennizzo sottraibile al quantum liquidabile in sede civilistica

Quanto al diritto di surrogazione spettante all'ente previdenziale, il dubbio concerne, di regola (ma i concetti che verranno esposti sono esportabili nell'ambito del danno patrimoniale), l'estensione della voce di danno non patrimoniale indennizzato da INAIL sottraibile al quantum liquidato in sede civilistica a tale titolo (Cass. civ., 11 gennaio 2016 n. 208).

In passato era pacifico in giurisprudenza che la voce del cd. “danno morale” non fosse soggetta a surroga in quanto non indennizzata da INAIL e, dunque, spettasse esclusivamente al lavoratore. A seguito delle sentenze cc.dd. "gemelle" della S.C. a SS.UU. del novembre 2008, la questione si è complicata, atteso che è stata unificata dal punto di vista concettuale la categoria del danno non patrimoniale.

Per una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 9 giugno 2009 n. 7515, in Altalex e in Giust. a Milano 2009, 7-8, 52), nell'ambito del danno non patrimoniale unitariamente liquidato in sede civilistica, qualora tale risarcimento superi l'ammontare delle indennità corrisposte da INAIL a titolo di danno biologico, è preclusa ogni possibilità di scomposizione del danno alla persona in poste distintamente risarcibili, onde non incorrere in duplicazioni risarcitorie, cosicché non è più possibile scorporare all'interno del danno non patrimoniale riconosciuto, nemmeno agli effetti della surroga INAIL, la quota relativa al cd. danno biologico "standard" da quella relativa ad ulteriori componenti (ad esempio, il cd. danno morale o esistenziale) non valutate da INAIL ai fini indennitari.

Qualora il costo sopportato dall'ente assicuratore per le conseguenze patrimoniali del sinistro sia superiore all'importo civilisticamente liquidato a titolo di danno patrimoniale, solo questa eccedenza non potrà che restare a carico dell'Inail, che l'ha sostenuta, per le finalità previdenziali proprie dell'ente. Se, infatti, il sistema della responsabilità civile mira a garantire il risarcimento integrale, scopo di quello previdenziale è la liberazione del lavoratore e della sua famiglia dallo stato di bisogno, in attuazione dell'art. 38 Cost., mediante prestazioni strutturate come indennizzo, ove l'eventualità di un ristoro non esaustivo del danno è compensata dall'automaticità e rapidità dell'erogazione (Cass. civ., 30 agosto 2016 n. 17407).

La giurisprudenza di legittimità (v. Cass. civ., 30 agosto 2016 n. 1740) pronunciatasi in tema di azione di surrogazione dell'assicuratore nei confronti dell'autore dell'illecito, ai fini del calcolo del differenziale ha stabilito che occorre considerare due circostanze: a) il risarcimento del danno biologico spetta per intero all'assicurato ed il relativo importo non può essere decurtato di quanto allo stesso già erogato a titolo di danno patrimoniale;

b) l'assicuratore che abbia indennizzato l'assicurato avrà diritto di surrogarsi nei confronti del terzo responsabile nei limiti del danno patrimoniale effettivamente verificatosi. In particolare, il danno patrimoniale va risarcito – e, dunque, è consentita la surroga da parte dell'ente - solo se effettivamente patito; in tal caso il danneggiato dovrà essere risarcito integralmente del biologico e l'ente dovrà essere rimborsato del patrimoniale effettivamente causato, per il quale vi sarà surrogazione e, dunque, trasferimento del diritto di credito (Cass. civ., 3 marzo 2016 n. 4225; Cass. civ., 5 marzo 2008 n. 5947).

È chiaro che l'istituto previdenziale, nel caso in cui il datore di lavoro avesse già provveduto al risarcimento in sede civile del danno biologico, dovrebbe corrispondere al lavoratore soltanto l'eventuale ed ipotetica eccedenza, senza esercitare, per il resto, il regresso nei confronti del datore di lavoro (anche se, posto quanto sopra detto con riferimento alla natura indennitaria della prestazione da parte dell'INAIL, di norma l'indennizzo sarà inferiore a quanto determinato a titolo di risarcimento del danno in sede civile).

In termini generali il risarcimento del biologico non può ridursi per effetto della surrogazione, salvo che per la parte già indennizzata. Inoltre, l'Inail può surrogarsi verso il responsabile solo in caso - e nei limiti - di un danno (patrimoniale) effettivamente causato (Cass. civ., 26 agosto 2016 n. 17387; Cass. civ., 21 gennaio 1987 n. 550).

Le assicurazioni private contro gli infortuni

Un problema aggiuntivo potrebbe sorgere nell'ambito delle assicurazioni (private) contro gli infortuni: se anche fosse vero che vale il principio indennitario e che il danneggiato/assicurato contro gli infortuni non può e non deve ricevere una somma maggiore del pregiudizio patito (pena una inammissibile locupletazione), occorrerebbe porsi la domanda di quale sarebbe il valore “uomo” e, quindi, l'ammontare del “danno” da prendere a riferimento. In particolare, occorrerebbe scegliere tra quello stabilito dalle tabelle del Tribunale (o di legge; ad esempio, per le micropermanenti nella RCA o per la responsabilità sanitaria), o quello – parimenti convenzionale – fissato dalle parti nel contratto.

Per quanto l'integrità fisica non assuma valore monetizzabile, con la conseguenza che il capitale assicurato in tale tipo di contratti rappresenta una mera somma fissata per convenzione tra le parti (non esprimendo, per l'effetto, un danno inteso come perdita economica), l'introduzione di specifiche tabelle di origine legale e giurisprudenziale fanno sì che sia possibile riconoscere la facoltà di introdurre una, sufficientemente precisa, valutazione del danno da menomazione o da malattie.

Di frequente le polizze infortuni prevedono la generica erogazione di determinate somme al verificarsi dell'infortunio, da calcolarsi in funzione della gravità del danno subìto ed alla misura del capitale assicurato indicato in polizza, ma senza alcun esplicito riferimento al concetto di danno biologico. Ben può accadere, allora, che a fronte di una modestissima IP, sia erogata, in forza del patto negoziale, una somma ingente (e completamente disallineata dai consueti parametri di liquidazione). E questo potrebbe smentire la tesi secondo cui la copertura “per le disgrazie accidentali” (non mortali) avrebbe – sempre e comunque - una “funzione indennitaria” (di “rivalere” o “risarcire un danno”, ai sensi degli artt. 1882, prima parte, e 1905 c.c.), anziché, lato sensu, previdenziale.

Nel contesto delle polizze contro gli infortuni, occorre altresì domandarsi se l'avvenuto pagamento di un premio legittimi di per sé il danneggiato a percepire cumulativamente l'indennizzo ed il risarcimento.

In particolare, il patto in deroga all'art. 1916 c.c. potrebbe essere inteso come diretto a vantaggio dell'assicurato (cioè volto a consentire che questi ottenga sia il risarcimento integrale che l'indennizzo), e non del responsabile civile (nel senso che la compagnia, a fronte del maggior premio conseguito, si impegna preventivamente a non far valere il credito, in cui subentrerà, contro l'autore dell'illecito). Altrimenti, non si capirebbe la ragione per la quale l'assicurato contro gli infortuni dovrebbe accettare di pagare (come normalmente avviene nella prassi) un premio più elevato in cambio di un atto abdicativo che avvantaggerebbe (solo) un terzo.

Tuttavia, non sembrerebbe potersi affermare che, avendo l'assicurato pagato i premi, egli avrebbe comunque diritto all'indennizzo in aggiunta al risarcimento, rivelandosi, altrimenti, il pagamento dei premi sine causa. Infatti, al momento in cui quest'ultimo viene effettuato sussiste l'obiettiva incertezza sul verificarsi del sinistro e sulla solvibilità del responsabile. Per la dottrina pronunciatasi funditus sulla questione (G. DE NOVA, Intorno alla compensatio lucri cum damno: considerazioni conclusive, in Juscivile, 2018, 1), nel caso dell'assicurazione sulla vita, l'assicurato ha ritenuto opportuno, durante la sua vita, pagare dei premi, per garantire ai beneficiari che, in caso di morte, i suoi risparmi sarebbero stati attribuiti a detti beneficiari. In questo caso, sarebbe illogico pensare ad una compensatio.

Del resto, il pagamento del premio è in sinallagma con il trasferimento del rischio e non con il pagamento dell'indennizzo, tanto è vero che, se alla scadenza del contratto il rischio non si è verificato, il premio resta ugualmente dovuto. D'altra parte, se fosse sufficiente pagare il premio per cumulare indennizzo e risarcimento, e quindi trasformare il sinistro in una occasione di lucro, allora si dovrebbe conseguentemente ammettere che il contratto concluso non è più un'assicurazione, ma una scommessa, nella quale puntando una certa somma (il premio) lo scommettitore può ottenere una remunerazione complessiva assai superiore al danno subito. La possibilità di cumulare indennizzo e risarcimento darebbe luogo, in teoria, ad un interesse positivo dell'assicurato all'avverarsi del sinistro, venendo così meno sia il requisito strutturale-funzionale del rischio (che, ai sensi dell'art. 1895 c.c., deve configurarsi come la possibilità di avveramento di un evento futuro, incerto, dannoso e non voluto), sia il fondamentale requisito di un interesse dell'assicurato contrario all'avverarsi del sinistro, desumibile dall'art. 1904 c.c. Una parte della dottrina (v. SALANDRA, Assicurazione, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1966, sub art. 1916, 345; G. VOLPE PUTZOLU, voce «Assicurazioni contro i danni», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. comm., I, Torino, 1987, 415) è, peraltro, favorevole alla tesi del cumulo tra risarcimento del danno da illecito e indennizzo assicurativo, nel senso che l'indennità trova il suo corrispettivo nel pagamento del premio e che, in caso contrario, il premio sarebbe stato pagato sine causa. Di contrario avviso chi ha fatto notare che, nel sinallagma del contratto assicurativo, alla prestazione consistente nel pagare il premio corrisponde, dall'altro lato, solo quella dell'assunzione del rischio; «tanto è vero che se alla scadenza del contratto il rischio non si è verificato il premio resta ugualmente dovuto» (M. ROSSETTI, Il diritto delle assicurazioni, II, Padova, 2011, 15).

Quanto all'asserita carenza di causa del pagamento dei premi, si esclude che possa configurarsi la paventata assenza di causa giustificativa, essendo il loro pagamento in sinallagma con il rischio assicurato e non con la corresponsione dell'indennizzo.

È pur vero, però, che, non essendo, in base all'art. 1932 c.c., gli artt. 1910 e 1916 c.c. inderogabili, non vi sarebbero ragioni di contrasto con l'ordine pubblico nella pattuizione in virtù della quale una parte si premuri di garantirsi, dietro il pagamento di un premio, un indennizzo in caso di infortunio (o più indennizzi con una pluralità di polizze), a prescindere dalla circostanza che un terzo possa essere tenuto al risarcimento del danno da fatto illecito.

Tuttavia, questa pattuizione eventuale, ove ammessa, potrebbe consentire di superare il divieto di cumulo tra indennizzi in caso di pluralità di polizze infortuni (ex art. 1910 c.c.), mentre resterebbe aperta la questione del rapporto tra indennizzo contrattuale e risarcimento del danno (essendo l'eventuale deroga al principio indennitario contenuta nella polizza infortuni indifferente per il terzo responsabile). Il responsabile del danno potrebbe, pertanto, sempre invocare il fatto che il danneggiato abbia già ricevuto, in tutto o in parte, un indennizzo e limitarsi a risarcire il differenziale o, comunque, coinvolgere l'assicuratore per gli infortuni perché partecipi al ristoro del danno.

Il meccanismo di riequilibrio prescritto dalle Sezioni Unite

Il sistema normativo prevede effettivamente un meccanismo di riequilibrio idoneo a garantire che il terzo responsabile dell'infortunio “sulle vie del lavoro”, estraneo al rapporto assicurativo, sia collateralmente obbligato a restituire all'INAIL l'importo corrispondente al valore della rendita per inabilità permanente costituita in favore del lavoratore assicurato.

Difatti, l'art. 1916 c.c. dispone che l'assicuratore che ha pagato l'indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell'ammontare di essa, nei diritti dell'assicurato verso il terzo danneggiante. Tale disposizione si applica, per espressa previsione, «anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali», estendendosi così il diritto di surrogazione agli enti esercenti le assicurazioni sociali (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 16 aprile 1997, n. 3288). Il diritto di surrogazione stabilito a favore dell'assicuratore comporta, per effetto del pagamento dell'indennità, una sostituzione personale ope legis di detto assicuratore all'assicurato-danneggiato nei diritti di quest'ultimo verso il terzo responsabile del danno (Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 1985, n. 99).

Inoltre, l'art. 142 del codice delle assicurazioni private (approvato con il d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) - nel riprodurre le previsioni contenute nell'abrogato art. 28 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, sull'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti - stabilisce che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l'ente gestore di questa abbia diritto di ottenere direttamente dall'impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione, sempreché a quest'ultimo non sia già stato pagato il risarcimento. Proprio per evitare detta evenienza, il comma 2 del citato art. 142 prevede, in continuità con la precedente disposizione, un articolato meccanismo di interpello del danneggiato, con la richiesta di una dichiarazione attestante che lo stesso non abbia diritto ad alcuna prestazione da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie, e di comunicazione al competente ente di assicurazione sociale, ove il danneggiato dichiari di avere diritto a tali prestazioni.

Le due norme - l'art. 1916 c.c., da una parte, e l'art. 142 cod. ass., dall'altra - regolano rapporti intersoggettivi diversi, rispettivamente nei confronti del terzo responsabile e del suo assicuratore, e tuttavia contrassegnati da un elemento comune: la successione nel credito risarcitorio dell'assicurato-danneggiato, la quale attribuisce all'ente gestore dell'assicurazione sociale che abbia indennizzato la vittima la titolarità della pretesa nei confronti dei distinti soggetti obbligati, al fine di ottenere il rimborso tanto dei ratei già versati quanto del valore capitalizzato delle prestazioni future (Corte cost., sentenza n. 319 del 1989; Cass. civ., sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6013; Cass. civ., sez. III, 20 novembre 1987, n. 8544; Cass. civ., sez. III, 24 giugno 1993, n. 6996; Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2010, n. 3356; Cass. civ., sez. III, 6 settembre 2012, n. 14941; Cass. civ., Sez. Un., 29 aprile 2015, n. 8620).

La surrogazione, secondo l'impostazione privilegiata dalle Sezioni Unite, mentre consente all'istituto di recuperare dal terzo responsabile le spese sostenute per le prestazioni assicurative erogate al lavoratore danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l'intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo, e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito.

Il minimo comune denominatore è rappresentato dalla convinzione che le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall'INAIL a titolo di rendita per l'inabilità permanente vanno detratte dall'ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile al predetto danneggiato.

Infatti, per un verso, mancando tale detrazione, il danneggiato verrebbe a conseguire un importo maggiore di quello a cui ha diritto.

L'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni è espressione del favor che la Costituzione e il legislatore hanno inteso accordare al lavoratore con l'addossare in ogni caso all'istituto le prestazioni previdenziali, le quali assumono perciò carattere di anticipazione rispetto all'assolvimento dell'obbligo a carico del responsabile (Corte cost., sent. n. 134 del 1971). Ma l'intervento del sistema di sicurezza sociale attraverso l'erogazione della prestazione assicurativa non consente al lavoratore di reclamare un risarcimento superiore al danno effettivamente sofferto: gli consente, invece, di agire nei confronti del terzo, cui è addebitabile l'infortunio in itinere, per ottenere la differenza tra il danno subito e quello indennizzato, allo stesso titolo, dall'INAIL. L'infortunato, pertanto, perde la legittimazione all'azione risarcitoria per la quota corrispondente all'indennizzo assicurativo riscosso o riconosciuto in suo favore, mentre conserva il diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa (cfr. Cass. civ., sez. III, 23 novembre 2017, n. 27869).

Per l'altro verso, l'ente previdenziale, avendo provveduto all'erogazione delle prestazioni indennitarie a causa del fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto assicurativo, potrà pretendere attraverso la surrogazione, esercitabile anche nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile di detto terzo responsabile, il rimborso delle spese sostenute per erogare quelle prestazioni, in tal modo impedendo che il responsabile civile, avvantaggiandosi ingiustamente dell'intervento della protezione previdenziale in favore dell'infortunato, paghi soltanto il danno differenziale al lavoratore.

Il risarcimento resta pertanto dovuto dal responsabile del sinistro per l'intero, essendo questi tenuto a rimborsare all'ente gestore dell'assicurazione sociale le spese sostenute per le prestazioni erogate al lavoratore e a risarcire il maggior danno al danneggiato: la riscossione della rendita INAIL da parte dell'assicurato-danneggiato in conseguenza dell'evento dannoso non ha, quindi, alcuna incidenza sulla prestazione del terzo responsabile, il quale dovrà risarcire, in ogni caso, l'intero danno.

Quest'ultima affermazione è, tuttavia, sostanzialmente difforme da quella espressa nelle sentenze nn. 12564 e 12565, atteso che configura la limitazione della pretesa del danneggiato al danno cd. differenziale e l'esercizio del diritto di surrogazione da parte dell'assicuratore (sociale) come un sistema a scompartimenti stagni, anziché come una coppia di valori indissolubilmente e biunivocamente connessi.

La apparente eccezione rappresentata dalla pensione di reversibilità

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12564/2018, nel risolvere la fattispecie sottoposta alla loro attenzione, hanno fornito una risposta di segno apparentemente contrario alla questione dell'applicabilità della compensatio lucri cum damno alla pensione di reversibilità.

L'ordinamento configura la pensione di reversibilità come "una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell'interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l'effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3, comma 2, Cost.) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore di un trattamento preferenziale (art. 38, comma 2, Cost.) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38, comma 1, Cost.; cfr., in tal senso, Corte cost., 28 luglio 1987, n. 286, in Riv. dir. civ. 1989, II, 595).

Nella pensione di reversibilità, la finalità previdenziale «si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico» (Corte cost., sent. n. 174 del 2016). Si tratta di una solidarietà che "si realizza quando il bisogno colpisce i lavoratori ed i loro familiari per i quali, però, non può prescindersi dalla necessaria ricorrenza dei due requisiti della vivenza a carico e dello stato di bisogno, i quali si pongono come presupposti del trattamento". Per effetto della morte del lavoratore, dunque, «la situazione pregressa della vivenza a carico subisce interruzione», ma il trattamento di reversibilità «realizza la garanzia della continuità del sostentamento ai superstiti» (Corte cost., sent. n. 286/1987).

L'erogazione della pensione di reversibilità non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito del terzo. Quell'erogazione non soggiace ad una logica e ad una finalità di tipo indennitario, ma costituisce piuttosto l'adempimento di una promessa rivolta dall'ordinamento al lavoratore-assicurato che, attraverso il sacrificio di una parte del proprio reddito lavorativo, ha contribuito ad alimentare la propria posizione previdenziale: la promessa che, a far tempo dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l'origine dell'evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno.

Sussisterebbe, dunque, una ragione giustificatrice che non consentirebbe il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall'illecito, perché quel trattamento previdenziale non sarebbe erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponderebbe ad un diverso disegno attributivo causale. La causa più autentica di tale beneficio dovrebbe essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurerebbero come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte.

Ciò in quanto la pensione di reversibilità spetta per il fatto-decesso come tale, senza alcuna rilevanza della causa, naturale o umana, di esso; ed è attribuita, alle condizioni stabilite dalla normativa, come effetto delle contribuzioni che il lavoratore ha pagato nel corso dello svolgimento del rapporto. In questa prospettiva, l'occasione materiale del decesso, ossia il fatto illecito altrui, resterebbe del tutto confinata all'esterno di questa erogazione previdenziale; e scomputarne l'importo quando per evenienza il decesso abbia origine da un illecito civile produrrebbe conseguenze di dubbia costituzionalità.

A questo punto, le Sezioni Unite, probabilmente con l'obiettivo di rinsaldare la base logica sulla quale hanno costruito la pronuncia, inseriscono, più o meno consapevolmente, un ulteriore elemento, un quid pluris, valorizzando la circostanza che l'incremento patrimoniale corrispondente all'acquisto del diritto alla reversibilità, ricollegandosi ad un sacrificio economico del lavoratore, non costituirebbe un vero e proprio lucro ed enunciando il principio per cui, per aversi nell'ambito del giudizio di responsabilità civile una riduzione del danno risarcibile, sarebbe necessario che con il danno prodotto concorresse un autentico lucro prodotto, vale a dire un "gratuito vantaggio economico". Qualora la condotta del danneggiante costituisse, invece, semplicemente l'occasione per il sorgere di un'attribuzione patrimoniale avente la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora - si afferma - non si riscontrerebbe quel lucro che, unico, potrebbe compensare il danno e ridurre la responsabilità.

Tuttavia, se l'attribuzione avesse expressis verbis lo scopo di ristorare il pregiudizio subito dal danneggiato, non si comprenderebbe la ragione per la quale occorrerebbe ugualmente scrutinare se la sua erogazione fosse o meno legata da un rapporto di sinallagmaticità (recte, di corrispettività) con un pregresso sacrificio economico gravante sul danneggiato.

A comprova del probabilmente inutile aggravio di elementi reputati indefettibili per l'operatività della compensatio, la sentenza delle Sezioni Unite richiama un indirizzo dottrinario che, prendendo le mosse dalla necessità di guardare alla funzione concreta e alla giustificazione più profonda del beneficio collaterale rappresentato dalla pensione di reversibilità, esclude, secondo un giudizio normativo-valoriale, che il welfare previdenziale istituito e alimentato dai contributi del lavoratore sia suscettibile di essere considerato un beneficio da assoggettare all'impiego contabilmente causale della compensatio lucri cum damno.

D'altra parte - si sottolinea - la stessa valutazione della pensione di reversibilità nel contesto attuale, caratterizzato dal passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, ne confermerebbe e ne rafforzerebbe la funzione previdenziale, trattandosi di un'attribuzione che rinviene la sua causa necessaria, oltre che nella previsione di legge, nel sacrificio del lavoratore attraverso il versamento dei contributi.

A voler prestare adesione alla prospettata soluzione, al fine di scomputare l'indennizzo patrimoniale dal risarcimento preteso dal danneggiato, non sarebbe sufficiente una previsione normativa in tal senso, così come non sarebbe sufficiente la finalità indennitaria perseguita, ma sarebbe altresì necessario l'assenza di un sacrificio di tipo economico a carico del danneggiato.

In tal guisa ragionando, però, si introdurrebbe, di fatto, un terzo requisito, rappresentato dalla corrispettività (sotto forma di contributi o di premi) dell'indennizzo versato. Tuttavia, lo scopo perseguito di volta in volta dalla controprestazione non è – almeno in via diretta - quello di assicurare un ristoro complessivamente superiore al pregiudizio subìto, bensì quello di anticipare il risarcimento dovuto dal responsabile, coprendo l'eventualità in cui il medesimo sia impossidente, e garantire la copertura del rischio.

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