Residenza, dimora e domicilio

Mauro Di Marzio
18 Settembre 2019

Le nozioni di residenza, dimora e domicilio, tra loro collegate, assumono cospicuo rilievo nell'ambito del processo civile: basti considerare la fondamentale previsione dell'art. 18 c.p.c., volto a fissare il foro generale delle persone fisiche, ove è stabilito che, fatte salve talune eccezioni, la competenza per territorio si radica laddove il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, laddove il convenuto ha la dimora.
Inquadramento

Le nozioni di residenza, dimora e domicilio, tra loro collegate, assumono cospicuo rilievo nell'ambito del processo civile: basti considerare la fondamentale previsione dell'art. 18 c.p.c., volto a fissare il foro generale delle persone fisiche, ove è stabilito che, fatte salve talune eccezioni, la competenza per territorio si radica laddove il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, laddove il convenuto ha la dimora. Ai concetti in discorso si riferisce altresì l'art. 139 c.p.c., dettato in materia di notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio.

In prima approssimazione, può dirsi che la residenza, secondo il codice civile, è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale: dunque la nozione di residenza si determina in connessione con quella di dimora. Quest'ultima è collocata nel luogo in cui la persona di fatto vive, sicché è possibile che la medesima persona abbia più di una dimora: basti pensare a quella ubicata presso una seconda carta di vacanza. Dalle nozioni di residenza e dimora si distingue quella di domicilio, che si ha nel luogo in cui una persona «ha stabilito la base principale dei suoi affari ed interessi economici», interessi che, come si vedrà, non sono solo di natura economica, ma anche personale, sociale e politica.

La residenza in generale

Il domicilio di una persona è il luogo in cui questa ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi, ai sensi dell'art. 43 c.c. Esso si differenzia dalla residenza, pure definita dall'art. 43 c.c., che è il luogo di abituale dimora della persona. È dunque possibile che domicilio e residenza non coincidano.

La residenza, in particolare, collocata, ai sensi dell'art. 43, comma 2, c.p.c., nel luogo di abituale dimora, si individua laddove il soggetto abbia scelto di situare il proprio centro di vita e, in particolare, la propria tendenzialmente stabile abitazione: la residenza, tuttavia, non ha carattere di stretta permanenza, giacché è perfettamente compatibile con spostamenti più o meno lunghi in località diverse, se effettuati senza l'intenzione di stabilirvi la propria dimora abituale, come, ad esempio, nel caso, cui già si è fatto cenno, delle ferie trascorse in una seconda casa, ferie che, intuitivamente, non comportano il trasferimento della dimora abituale. D'altro canto, il carattere dell'abitualità della dimora non va riguardata retrospettivamente, e cioè rapportata alla dimora pregressa, ben potendo la persona fissare nel luogo prescelto la propria dimora con l'intenzione, desumibile da ogni elemento di prova anche con giudizio ex post, di stabilirvisi in modo non temporaneo. Quando si tratta di decidere quale tra due luoghi alternativamente frequentati rappresenta la residenza della persona, occorrerà adottare un criterio di prevalenza non soltanto quantitativa, ma anche qualitativa: il mero dato quantitativo, inteso arco temporale trascorso in un luogo, non è da solo idoneo, da un lato perché si rivolge necessariamente al passato; dall'altro perché una prevalenza quantitativa, specie se non eclatante, ben potrebbe essere compensata da un'intensità maggiore del rapporto con un'abitazione.

Nel concetto di residenza, così riassunto, è insito un forte carattere di oggettività, il che spiega l'affermazione, in passato accolta dalla dottrina, secondo cui esso si risolve in una res facti, una questione di fatto: la abituale dimora della persona in un determinato luogo, intendendosi con ciò una determinata circoscrizione comunale. Ciò non vuol dire che non abbia alcun rilievo l'animus di erigere quel luogo a propria residenza. In tal senso si trova affermato, nella giurisprudenza della Suprema Corte, che:

In evidenza

«La residenza di una persona, secondo la previsione dell'art. 43 c.c., è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (Cass. civ., 1° dicembre 2011, n. 25726, che ha confermato l'insussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo per qualificare stabile ed abituale la permanenza nella dimora, desunti dal giudice di merito dalla mancanza di somministrazione dell'energia elettrica e dalla ripetuta assenza del ricorrente in occasione degli accessi dei vigili urbani).

La residenza anagrafica

Nel linguaggio corrente l'espressione «residenza» è spesso impiegata con riferimento alle risultanze dei registri dello stato civile ed è molto diffusa, nella pratica, la convinzione erronea che la residenza «reale» sia quella «anagrafica». Si deve in proposito accennare che l'iscrizione nell'anagrafe della popolazione residente viene effettuata d'ufficio (c.d. iscrizione «per nascita») per i nati da genitori iscritti nel Comune; oppure in forza di una pronuncia giudiziale che accerti la dimora abituale del soggetto; o infine a seguito di trasferimento di residenza da altro Comune o dall'estero, in forza di una dichiarazione dell'interessato o di un accertamento amministrativo suppletivo.

Legittimamente gli uffici possono rifiutare l'iscrizione di un soggetto ove dai controlli risulti che nell'alloggio ove pretende di risiedere egli non dimora in modo abituale. In tal senso è stato stabilito che: «La dichiarazione del soggetto, mentre è elemento costitutivo e sufficiente della istituzione di un domicilio speciale per determinati affari, nella fattispecie di domicilio generale ha rilevanza esclusivamente come indizio della intenzione di fissazione del domicilio nel luogo indicato» (Cass. civ., 1° dicembre 2011, n. 25726). Ciascun individuo è tenuto a «dichiarare la propria residenza, con le prescritte formalità, all'amministrazione comunale, la quale ha il dovere di procedere con la registrazione. Recenti interventi normativi hanno reso evidente che l'iscrizione anagrafica può essere subordinata alla presenza di determinati presupposti. A tal riguardo vale rammentare quanto previsto dall'art. 5 d.l. 28 marzo 2014, n. 47, convertito in legge n. 80 del 2014, recante: «Lotta all'occupazione abusiva di immobili», il quale prescrive che «chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l'allacciamento a pubblici servizi in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge».

Orbene, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che la residenza anagrafica abbia un mero valore probatorio: in altre parole, si presume la corrispondenza della residenza anagrafica con il luogo di dimora effettiva del soggetto, presunzione che è però superabile con ogni mezzo di prova (tra le tante Cass. civ., Sez. Un., 21 giugno 1956, n. 2184; Cass. civ., 23 novembre 1963, n. 3014; Cass. civ., 18 ottobre 1966, n. 2505; Cass. civ., 22 ottobre 1991, n. 11204; Cass. civ., 28 luglio 2006, n. 17235; Cass. civ., 19 novembre 2007, n. 23838; Cass. civ., 2 luglio 2013, n. 16544).

Difformità tra residenza anagrafica e residenza effettiva

È noto il rilievo pratico della possibile difformità tra la residenza emergente dalle risultanze anagrafiche e la residenza effettiva, coincidente con il luogo, obiettivamente individuato, di abituale dimora. Il codice civile stabilisce all'art. 44 che il trasferimento della residenza non può essere opposto ai terzi di buona fede, se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge. Norma, quest'ultima, da leggere unitamente al disposto secondo cui: « ;Il trasferimento della residenza si prova con la doppia dichiarazione fatta al Comune che si abbandona e quello dove si intende fissare la dimora abituale. Nella dichiarazione fatta al Comune che si abbandona deve risultare il luogo in cui è fissata la nuova residenza» (art. 31 disp. att. c.c.).

Solo una parte minoritaria della giurisprudenza, però, assegna rilievo decisivo al combinato disposto appena ricordato, mentre è in assoluta prevalenza ritenuto — in particolare dalla giurisprudenza formatasi in tema di validità della notificazione — che la residenza effettiva prevalga sulla residenza anagrafica, la quale possiede, come si è detto, un valore probatorio meramente presuntivo, superabile mediante prova contraria desumibile da qualsiasi fonte di convincimento (Cass. civ., 16 novembre 2006, n. 24422; Cass. civ., 8 agosto 2003, n. 12021; Cass. civ., 12 ottobre 1998, n. 5513; Cass. civ., 5 maggio 1998, n. 4518; Cass. civ., 27 febbraio 1998, n. 2230; Cass. civ., 26 marzo 1983, n. 2143; Cass. civ., 12 febbraio 1979, n. 951; Cass. civ., 14 dicembre 1978, n. 5953; Cass. civ., 6 aprile 1977, n. 1309). La residenza anagrafica non ha insomma di per sé valore costitutivo, presumendosi, solo fino a prova contraria (iuris tantum), la coincidenza fra residenza anagrafica e residenza effettiva della persona.

La dimora

La dimora, cui si riferisce il citato art. 43 c.c., al fine della individuazione del concetto di residenza, possiede un rilievo giuridico marginale, specialmente in materia di notificazione di atti. Pur in assenza di un'espressa definizione normativa, i suoi caratteri sono desumibili dalla nozione di residenza. Poiché quest'ultima si colloca nel luogo della «abituale dimora», la dimora non ulteriormente definita va intesa quale presenza non stabile, ma anche occasionale: ciò nondimeno, in ragione degli effetti che le sono riconosciuti, anche la dimora deve avere un certo grado di consistenza e permanenza nel tempo, così da istituire un legame tra individuo e luogo. E dunque, in una remota pronuncia, si trova affermato che:

In evidenza

Un soggiorno di una sola notte in un albergo non è comportamento inidoneo a instaurare una dimora in quel luogo (Cass. civ., Sez. Un., 5 ottobre 1955, n. 2812).

Caratteristiche della dimora, in particolare, sono la sua attualità (nel senso che non si può dimorare in un luogo che si è abbandonato, ancorché siano consentiti momentanei allontanamenti che non recidano la relazione materiale con il luogo e che cioè implichino la volontà di ritornarvi) e la sua unicità (nel senso che non si può dimorare in più di un luogo contemporaneamente).

Il domicilio

Venendo al domicilio, esso è definito dal comma 1 dell'art. 43 c.c., secondo quanto si diceva, come luogo in cui il soggetto «ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi». Si tratta di una nozione giuridica certamente più astratta, a fronte di quella di residenza, giacché non richiede di necessità la presenza fisica del soggetto, né un'attività specifica e ben caratterizzata come quella dell'abitare. La dottrina meno recente intendeva il domicilio per l'appunto come mera astrazione giuridica, ossia come relazione tra una persona e un luogo essenzialmente determinata dalla legge (V. per tutti Pacifici Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, vol. I, Firenze 1881, 118). Successivamente si è fatta strada l'idea che il sostrato materiale del domicilio – avere il soggetto colà fissato la sede principale dei suoi affari ed interessi – abbia una propria specifica consistenza: e, cioè, che il coltivare in un luogo i propri affari, interessi e rapporti giuridici si un elemento fattuale sufficientemente autonomo (Carnelutti, Note critiche intorno ai concetti di domicilio, residenza e dimora nel diritto positivo italiano, in Arch. giur. Filippo Serafini, 1905, 425). Il domicilio è dunque sede della persona perché qui si manifesta la presenza «morale» del soggetto.

La Suprema Corte intende l'espressione «affari e interessi» nel suo significato più ampio, ovvero non circoscritto ai soli rapporti economici e patrimoniali, bensì esteso altresì alle relazioni personali e sociali (Cass. civ., 8 marzo 2005, n. 5006; Cass. civ., 14 giugno 2013, n. 14937). Alla formula «affari ed interessi» vanno perciò ricondotti non soltanto i rapporti economici e patrimoniali della persona, ma anche le sue relazioni morali, sociali e familiari (p. es. Cass. civ., 15 ottobre 2011, n. 21370), che confluiscono normalmente – si diceva ancora qualche decennio addietro, pensando alla famiglia come collocazione «normale» del singolo – nel luogo ove essa vive con la propria famiglia (Cass. civ., 12 febbraio 1973, n. 435; Cass. civ., 14 gennaio 1965, n. 72; Cass. civ., 10 gennaio 1964, n. 64).

Occorrerà dunque riscontrare la presenza di dati oggettivi che rendano evidente agli occhi dei terzi la vocazione di un luogo a raccogliere la gran parte dei rapporti giuridici facenti capo alla persona. Tra i fattori rilevanti si possono menzionare, senza pretesa di esaustività, la proprietà dell'immobile o la titolarità di altro diritto di godimento, la localizzazione degli affetti familiari, la presenza di scritture contabili, attrezzi del mestiere e oggetti personali, la titolarità di utenze, la frequentazione più o meno assidua; determinante sarà poi il punto di vista esterno, ovvero il fatto che i terzi conoscano quel luogo come sede della persona, lo tengano in considerazione ai fini della corrispondenza, dell'invio di beni, quando si tratta di ricevere o effettuare pagamenti o organizzare incontri con la persona in questione. In sintesi, una destinazione oggettivamente percepibile a luogo «nel quale sia al soggetto più naturale, più facile, più comodo accudire ai propri interessi e rispondere dei propri impegni» (Forchielli, Domicilio, residenza e dimora (dir. priv.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 848).

Il comportamento in cui si manifesta la collocazione del domicilio in un determinato luogo deve essere consapevole e animato da un'intenzione diretta ad un risultato materiale: occorrono cioè comportamenti materiali preordinati a concentrare la sede delle manifestazioni della propria personalità in quel luogo. Per una larga parte della popolazione la sede principale dei propri affari e interessi coincide con il luogo di dimora abituale: in tal caso domicilio e residenza si confondono. Ma anche laddove la persona coltivi parte dei propri interessi altrove rispetto al luogo di residenza, non necessariamente questo diverso luogo concretizzerà un domicilio, se è da ritenersi che, considerati nella sua complessità, la più parte dei rapporti e interessi del soggetto medesimo abbiano sede nel luogo di residenza. Viceversa, il domicilio acquista autonoma valenza al cospetto di quei soggetti con abitudini di vita e relazioni professionali e personali più complicate, i quali dimorano in un luogo, ma altrove gestiscono i propri affari o intrattengono i più rilevanti rapporti sociali, sì che, secondo un giudizio quantitativo e qualitativo, è da ritenersi che la sede principale di tali rapporti sia in un luogo diverso da quello in cui la persona dimora abitualmente.

Si può in definitiva dire che la nozione di domicilio data dall'art. 43 c.c. richiede il concorso di un elemento obiettivo, costituito dalla concentrazione degli affari e degli interessi in un determinato luogo, e di uno soggettivo, rappresentato dall'intenzione, manifestata espressamente o tramite comportamenti concludenti, di stabilire in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi. Secondo l'opinione tradizionale – che si vedrà fatta propria dalla giurisprudenza – proprio l'elemento soggettivo, indispensabile per stabilire il collegamento tra la persona ed il luogo, costituisce l'elemento caratterizzante della figura. Peraltro – all'evidente scopo di alleggerire il peso e l'incertezza gravante sui terzi interessati ad individuare il domicilio della persona – è stato sottolineato, sulla scia della riflessione dottrinale di cui si è detto, come non sia carente, nella definizione di domicilio, «l'elemento materiale, ma questo si concreta in un fatto diverso dalla presenza costante dell'individuo» (Forchielli, op. cit., 847): l'ubicazione del domicilio, in tale prospettiva, si individua attraverso lo scrutinio della obbiettiva sistemazione logistica delle attività che fanno capo al soggetto. Ciò renderebbe non decisiva la sottolineatura dell'elemento soggettivo, salvo nei casi in cui la concentrazione degli affari ed interessi in un determinato luogo non abbia «ancora raggiunto un grado di consistenza obiettiva tale da rivelarlo chiaramente all'esterno» (Costanza, Domicilio. Domicilio, residenza e dimora (dir. civ.), in Enc. giur., XII, Roma 1988, 1).

Può non essere agevole stabilire quale, tra due o più centri di affari ed interessi (si immagini l'imprenditore titolare di più aziende ubicate in luoghi diversi, o il professionista che abbia più studi in diverse città) sia quello «principale». Si suggerisce – nella medesima ottica già sottolineata di tutela dei terzi – l'esigenza di condurre lo scrutinio sul dato apparente, ossia stabilendo quale tra i diversi centri di interessi della persona assuma obbiettivamente maggiore importanza (Costanza, op. cit., 2).

Con riguardo ai rapporti tra residenza e domicilio, occorre rammentare il comma 2 del citato art. 44 c.c. secondo cui: «Quando una persona ha nel medesimo luogo il domicilio e la residenza e trasferisce questa altrove, di fronte ai terzi di buona fede si considera trasferito pure il domicilio, se non si è fatta una diversa dichiarazione nell'atto in cui e stato denunciato il trasferimento della residenza». Val quanto dire che nell'atto in cui è stato denunciato il trasferimento della residenza occorre specificare che il domicilio resta fissato altrove: in mancanza, di fronte ai terzi di buona fede, si considera trasferito pure il domicilio unitamente alla residenza.

In giurisprudenza, come si accennava, il rapporto tra domicilio e residenza si riassume nel principio secondo cui, mentre la residenza si ricollega al concetto di dimora della persona in un dato luogo, avente carattere di relativa stabilità e durata, e riguarda il fatto della sua presenza abituale in un determinato luogo, il domicilio prescinde dal fatto della dimora o della presenza della persona in un luogo, in quanto esso, pur riposando su un elemento di fatto, costituito dall'avere la persona stabilito in un luogo la sede principale dei suoi affari ed interessi, consiste in una relazione tra la persona e detto luogo, essenzialmente ed anche soltanto giuridica, caratterizzata dalla volontà della persona di stabilire in quel luogo la sede generale delle sue relazioni e dei suoi interessi ; (Cass. civ., 15 ottobre 2011, n. 21370; Cass. civ., 5 maggio 1980, n. 2936; Cass. civ., 22 maggio 1963, n. 1342; Cass. civ., 6 ottobre 1962, n. 2845; Cass. civ., 29 dicembre 1960, n. 3322). La Suprema Corte, dunque, pone l'accento — e lo fa tuttora — sulla tradizionale ricostruzione secondo cui il domicilio

In evidenza

«Si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente» (Cass. civ.,civ., 1° dicembre 2011, n. 25726).

Il domicilio, in definitiva, pur presupponendo una situazione di fatto costituita dall'avere un soggetto fissato in un luogo determinato la sede principale dei propri affari ed interessi, rimane per la Suprema Corte principalmente in una situazione giuridica, caratterizzata dalla volontà della persona di stabilire in quel luogo la sede generale delle sue relazioni economiche, morali e sociali, sicché, a differenza della residenza che come si è detto è maggiormente caratterizzata dal versante oggettivo, il domicilio è connotato principalmente dall'elemento soggettivo e cioè dall'intenzione di costituire e mantenere in un determinato luogo il centro principale delle proprie relazioni familiari, morali e giuridiche (Cass. civ., 21 febbraio 1970, n. 408). Ne discende che «una più o meno prolungata assenza dal luogo fissato come dimora abituale non fa venir meno la residenza o il domicilio a tale dimora collegati, specie quando detta assenza sia occasionata da motivi contingenti, come villeggiatura o viaggi» (Cass. civ., 16 gennaio 1962, n. 70; analogamente Cass. civ., 15 ottobre 2011, n. 21370, chiarisce che il ricovero in casa di cura o di riposo non importa necessariamente trasferimento del domicilio).

L'elemento oggettivo del domicilio, tuttavia, assume anche per la Suprema Corte preminente rilievo quando si versi in ipotesi di molteplicità di collegamenti di un soggetto con luoghi diversi. In tal caso, infatti, si afferma che, ai fini dell'individuazione del domicilio generale, «non basta la mera intenzione di fissare in esso la sede principale dei propri affari, ma occorre che vi si aggiunga l'elemento materiale costituito dallo svolgimento dell'effettiva e prevalente attività» (Cass. civ., 21 febbraio 1970, n. 408).

Fattispecie

Mentre ciascuno dei coniugi ha un proprio domicilio, ai sensi dell'art. 45 c.c., nel luogo in cui ha fissato la sede principale dei propri affari o interessi, il minore ha il domicilio dei genitori, o, in caso di separazione, di quello con il quale convive. In proposito, però, si è chiarito che il domicilio del minore non è un semplice riflesso di quello dei genitori. Esso va inteso «non come il luogo dove il minore stesso permane ricevendovi cure materiali, bensì come il luogo di vero e proprio domicilio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 43, comma 1, c.c., vale a dire il luogo dove il minore custodisce e coltiva i suoi più radicati e rilevanti legami affettivi ed i suoi reali interessi» (Trib. minorenni Roma 16 novembre 1992, in Dir. fam. pers., 1993, 1143). Inoltre, in tema di sottrazione internazionale del minore da parte di uno dei genitori, la nozione di residenza abituale posta dalla Convenzione de L'Aja del 25 ottobre 1980, ratificata con la legge n. 64 del 1994, consiste nel luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza ha consolidato, consolida, ovvero, in caso di recente trasferimento, possa consolidare una rete di affetti e relazioni tali da assicurargli un armonico sviluppo psicofisico. Essa, pertanto, integra una situazione di fatto il cui accertamento è riservato all'apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente e logicamente motivato (Cass. civ., 14 dicembre 2017 n. 30123, che, confermando la pronuncia di merito, ha escluso che potesse ritenersi residenza abituale del minore il luogo (Londra) dove i genitori avevano programmato di vivere, senza, tuttavia, dare mai attuazione a tale intendimento, essendo sopravvenute circostanze che avevano portato il minore al trasferimento in Italia in forma stabile e senza soluzione di continuità). Il minore, ancora, può avere una residenza distinta dal domicilio dei genitori o del genitore con cui convive. Ciò si verifica quando egli dimori abitualmente in un luogo diverso da quello dei genitori, senza opposizione di questi (Cass. civ., 4 dicembre 1967, n. 2872). Il minore soggetto a tutela, infine, ha il domicilio del tutore, ex art. 45 c.c., come pure l'interdetto.

Tra i casi particolari che meritano di essere segnalati, per la frequenza con cui si presentano, occorre ricordare che lo straniero residente all'estero può avere domicilio in Italia, se vi ha la sede principale dei suoi affari ed interessi. In un caso, ad esempio – valorizzando gli elementi di giudizio nell'occasione disponibili –, si è ritenuto che un cittadino straniero residente all'estero avesse il domicilio italiano «nel comune in cui ha denunciato all'autorità di pubblica sicurezza il possesso di alcune armi, ha chiesto l'autorizzazione a soggiornare, ed ha scelto la banca a cui affidare i suoi risparmi. Ivi, alla sua morte, si apre la successione» (Cass. civ., 14 ottobre 1976, n. 3438).

Il detenuto non trasferisce il domicilio presso l'istituto di pena in cui è recluso, ma conserva quello che aveva prima dell'inizio della detenzione. Ciò per il rilievo — al quale si è poc'anzi accennato — che, nella fissazione del domicilio, assume l'elemento volitivo. Si è perciò escluso che la detenzione di una persona, per espiazione di pena in un luogo diverso da quello di domicilio rilevi agli effetti dell'individuazione del foro davanti al quale essa può essere convenuta a norma dell'art. 18 c.p.c. (App. Milano 11 maggio 1976, in Foro pad., 1976, I, 172). Anche la Suprema Corte ha affermato che la detenzione non vale di per sé a modificare il domicilio, ove non risulti che l'individuo abbia, nei fatti, manifestato l'intenzione di radicare in carcere la sede dei propri affari e interessi (Cass. civ., 14 gennaio 2008, n. 588; Cass. civ., 10 luglio 2014, n. 15776). Peraltro, in tema di apertura della tutela, è stato detto che il domicilio del condannato deve presumersi, ex art. 44 c.c., coincidente con la sua residenza anagrafica (Cass. civ., 12 novembre 2015, n. 23107).

Si presume che il militare di carriera, come ogni altro impiegato dello Stato, sia domiciliato presso il reparto o l'ufficio di appartenenza. Difatti, poiché la residenza dell'impiegato nel luogo dove è situato l'ufficio cui è addetto è obbligatoria, si può presumere, secondo l'id quod plerumque accidit, che egli trasferisca nello stesso luogo il centro principale dei propri affari ed interessi, anche quando conservi un rilevante patrimonio nel luogo della precedente residenza, specialmente se nella nuova sede debba permanere senza potersene allontanare, se la lontananza di questa dalla sede precedente sia rilevante e se un ritorno nella primitiva sede si preveda difficile o di remota eventualità (Cass. civ., 22 maggio 1963, n. 1342).

Le suore che abbiano fatto professione di voti solenni, infine, hanno il domicilio presso la sede della curia vescovile dalla cui giurisdizione dipendono (App. Ancona 23 maggio 1956, in Foro it., 1956, I, 1729).

Riferimenti
  • Costanza, Domicilio. Domicilio, residenza e dimora (dir. civ.), in Enc. giur., XII, Roma 1988, 1;
  • Forchielli, Domicilio, residenza e dimora (dir. priv.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 848.

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