La capacità processuale dell’amministratore di sostegno nel giudizio di revisione delle condizioni dell’assegno di divorzio

23 Settembre 2019

La rappresentanza sostanziale conferita all'amministratore di sostegno assume rilievo nel processo, nel senso che l'amministratore di sostegno ha anche, in virtù del disposto dell'art. 75 c.p.c., comma 2, il potere processuale, funzionale alla...
Massima

La rappresentanza sostanziale conferita all'amministratore di sostegno assume rilievo nel processo, nel senso che l'amministratore di sostegno ha anche, in virtù del disposto dell'art. 75 c.p.c., comma 2, il potere processuale, funzionale alla tutela delle situazioni sostanziali per le quali gli è stato conferito il potere rappresentativo. In relazione agli atti che l'amministratore di sostegno è autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario, quest'ultimo non può stare in giudizio se non rappresentato dall'amministratore. Nel caso in cui l'incarico di amministratore di sostegno sia stato conferito ad un avvocato, questi potrà essere autorizzato a stare in giudizio personalmente ai sensi dell'art. 86 c.p.c.

Il caso

La pronuncia in commento trae origine dal ricorso per cassazione, proposto dal Sig. S.A., avverso il decreto con cui la Corte d'appello di Milano respingeva la domanda di revisione dell'assegno divorzile corrisposto all'ex moglie soggetta ad amministrazione di sostegno. A sostegno della propria pretesa il Sig. S.A. adduceva il peggioramento della propria condizione economica a seguito di pensionamento ed il miglioramento di quella della ex moglie, beneficiaria dell'assegno.

Nel confermare il decreto del Tribunale, il giudice di seconde cure ha ritenuto, da un lato, indimostrato il peggioramento delle condizioni economiche del S.A., rispetto al momento in cui era stato determinato l'assegno divorzile, essendosi lo stesso limitato ad allegare, senza documentare, di avere consumato tutto il proprio patrimonio mobiliare, e, dall'altro lato, dimostrato che le condizioni di salute dell'ex coniuge beneficiaria dell'assegno erano peggiorate (stante l'invalidità ormai giunta al 100%), in difetto di prova di un miglioramento delle sue condizioni economiche e di istanze istruttorie (anche di ordine di esibizione) avanzate dal S.A. Quest'ultimo ha, quindi, impugnato la pronuncia con ricorso in cassazione dolendosi, sostanzialmente, del difetto di legittimazione processuale della controparte, rappresentata in giudizio dall'amministratore di sostegno.

La questione

La decisione che qui si commenta affronta la delicata questione della legittimazione processuale dell'amministratore di sostegno nel giudizio di revisione delle condizioni di divorzio.

Le soluzioni giuridiche

Ai sensi dell'art. 411 c.c., all'amministratore di sostegno si applica, in quanto compatibile, la disposizione di cui all'art. 374 c.c., n. 5, che prevede che il tutore non possa, senza autorizzazione del giudice tutelare, promuovere giudizi.

Tale previsione è, secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, intesa come non operante nelle ipotesi di difesa passiva all'altrui iniziativa giudiziaria, in vista della conservazione dell'interesse del rappresentato (Cass. 1417/1975; Cass. civ., sez. I, 24 marzo 1981, n. 1707; Cass. civ., 6 febbraio 1989, n. 722; Cass. civ., 24 marzo 2009, n. 7068; Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2015, 19499).

Osservazioni

Preliminarmente si rileva l'opportunità di una breve ricostruzione sistematica della misura dell'amministrazione di sostegno, poiché le difficoltà, che si incontrano nell'applicazione pratica, risiedono principalmentenell'essenza stessa dell'istituto, configurato volutamente dal legislatore in maniera molto duttile e flessibile.

Lo scopo della nuova figura giuridica, introdotta con la legge 9 gennaio 2004 n.6 anche a seguito delle diffuse critiche agli strumenti “tradizionali” dell'interdizione e dell'inabilitazione, ritenuti sovente non compatibili con la dignità della persona, risiede nella tutela, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, delle persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana. Si è affermato che con l'intervento legislativo è stata spostata l'attenzione dalla tutela del patrimonio alla tutela della persona

Invero, attraverso tale istituto è possibile, ritagliare una misura di protezione in base alle reali necessità del soggetto beneficiario ossia in grado di assicurare una piena tutela all'individuo salvaguardando la sua residua capacità di agire. Se tali caratteristiche di flessibilità e duttilità rappresentano la vera rivoluzione dell'istituto, le stesse hanno tuttavia comportato non poche difficoltà nella sua applicazione pratica.

Ed infatti, ad oltre dieci anni dall'entrata in vigore della normativa, appare utile tenere conto, in primo luogo, delle posizioni assunte dalla giurisprudenza nel risolvere i casi di amministrazione di sostegno sottoposti al vaglio giudiziale.

Innanzitutto, occorre rilevare che, secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai costante, l'istituto in esame si presenta come un'alternativa all'interdizione ed all'inabilitazione, il cui discrimen è rimesso alla valutazione del giudice che effettuerà la scelta di tale strumento di protezione della persona, quale misura caratterizzata dalla maggiore idoneità ad adeguarsi alle esigenze del beneficiario e non invece avuto riguardo né al grado di infermità /impossibilità fisico/psichica né all'entità del patrimonio del beneficiario (Cfr. Cass. n. 17962/2015; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 22332/2011; Cass. n. 4866/2010; Cass. n. 9628/2009).

Con riferimento alle applicazioni pratiche dell'istituto, la prima e rilevante incertezza da risolvere riguarda la individuazione di quali soggetti possano essere beneficiari dell'istituto essendovi sul punto tutt'altro che unanimità di pensiero.

L'articolo 404 c.c. individua il presupposto della norma nell'infermità o nella menomazione fisica o psichica che rendano impossibile, anche temporaneamente, provvedere ai propri interessi.

Secondo una prima chiave di lettura, per poter beneficiare dell'amministratore di sostegno, occorre che il soggetto non sia affetto da una mera menomazione fisica, ben potendo in questa ipotesi avvalersi degli ordinari mezzi di tutela offerti dall'ordinamento, quali il mandato, la procura generale o speciale ed il trust. Seguendo tale impostazione, la nomina presuppone pur sempre una minore capacità del soggetto beneficiato e, quindi, richiede necessariamente una infermità fisica che abbia, in qualche modo, compromesso le sue risorse intellettive.

Questa soluzione è stata accolta anche da una parte della giurisprudenza di merito che, in un recente provvedimento (Trib. Vercelli, 16 ottobre 2015, in CNN notizie del 4 dicembre 2015), ha stabilito l'inadeguatezza della nomina di un amministratore per l'ipotesi di un soggetto molto anziano ma privo di alcun deficit delle capacita cognitive. Si è ritenuto che, in presenza di un soggetto pienamente capace, la risoluzione di alcune problematiche della vita quotidiana può essere realizzata attraverso l'istituto del mandato, non rinvenendosi la necessità di privare il soggetto seppur in maniera minima della capacità di agire, soluzione che, secondo tale orientamento, non comporta peraltro alcun aggravio economico-sociale sul piano pubblicistico (atteso il pesante carico giudiziario dei tribunali italiani) risolvendosi nell'ambito puramente privatistico.

In sede di commento del provvedimento richiamato, si è posta la differenza tra la senilità comportante un vulnus patologico e che, quindi, può giustificare un provvedimento di nomina e la senilità fisiologica che, viceversa, può comportare solo un vulnus nel fisico del soggetto, senza alcuna ripercussione sulle funzioni intellettive ed in tal caso la figura in commento non troverebbe applicazione

L'orientamento appena riportato si fonda sulla convinzione secondo cui la misura di protezione dell'amministrazione di sostegno, comportando in ogni caso una limitazione, seppur lieve, della capacità di agire, deve essere comunque l'extrema ratio e deve essere quindi giustificata da un reale vulnus delle funzioni cognitive del soggetto beneficiario. Secondo tale ricostruzione interpretativa, in conclusione, un soggetto capace non può mai abdicare alla sua capacità e tale rinuncia non avrebbe ragion d'essere nel nostro ordinamento che prevede all'uopo soluzioni negoziali che gli consentirebbero di delegare il proprio operato ad un rappresentante (artt. 1387 c.c. e ss.).

Tuttavia, occorre dar conto di altre interpretazioni che, al contrario, hanno ritenuto applicabile l'istituto anche ad ipotesi nella quali non sia riscontrabile alcun deficit delle facoltà intellettive. Stando a quest'ultima ricostruzione interpretativa, l'applicazione dell'istituto in disamina si estenderebbe, anche, all'ipotesi della persona avanti con gli anni che abbia solo difficoltà deambulatorie che non consentano l'espletamento delle funzioni quotidiane e considerata debole e facilmente esposta a possibili azioni di raggiro o comunque al caso del soggetto affetto da infermità esclusivamente fisica che lo costringa a trasferirsi all'estero per un trattamento sanitario di lungo periodo, a permanere in una struttura sanitaria in situazioni di isolamento o a permanere nella propria casa di abitazione senza possibilità di accesso all'esterno. In quest'ottica sarebbe possibile nominare un amministratore di sostegno in una casistica molto ampia che va dal semplice disagio di una persona perfettamente lucida che, però, vive su una sedia a rotelle e non può essere pienamente autonoma nel provvedere ai propri bisogni ed interessi, fino al caso di una totale e definitiva infermità di mente (G. Lisella).

A fondamento di tale tesi si riporta il dato normativo testuale, in quanto l'art. 404 c.c. si esprime nei termini "menomazione fisica opsichica". Inoltre, secondo i fautori di tale linea interpretativa, non si può non tenere conto che per il soggetto impossibilitato non risulta del tutto indifferente la scelta tra il richiedere per sé la misura dell'amministrazione di sostegno e il rilasciare una procura generale o speciale, posto che nel primo caso lo stesso potrebbe considerarsi maggiormente tutelato dovendo l'amministratore di sostegno rispondere del proprio operato al giudice tutelare prevenendosi in tal modo eventuali future liti giudiziarie. In tali casi, sussistendo la piena capacità d'agire del soggetto, la nomina potrà scaturire solo su espressa richiesta dello stesso e comunque mai contro la sua volontà: il ricorso per la nomina può essere, infatti, presentato direttamente dall'interessato e la scelta dell'amministratore ricade in primis sulla persona designata dal beneficiario, salvo gravi motivi che dovranno risultare dal decreto (art. 408 c.c.). Tutto l'operato dell'amministratore di sostegno non sarà mai distaccato dalla volontà del beneficiario: il giudice tutelare, secondo la normativa de quo, deve essere informato circa la volontà dello stesso in merito all'operato negoziale da compiere, l'agire dell'amministratore di sostegno deve tener conto dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni e non vi deve essere contrasto con il beneficiario, essendo l'amministratore di sostegno obbligato a riferire al giudice tutelare circa l'attività svolta e le condizioni di vita personali e sociali dello stesso.

Quanto al rapporto tra l'istituto dell'amministrazione di sostegno e le distinte figure dell'interdizione e dell'inabilitazione, è necessario sottolineare che, alla stregua dell'attuale impianto normativo, si presentano quali strumenti di protezione marginali, sussistendo, secondo l'orientamento prevalente confortato anche dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 440/2005), un rapporto di sussidiarietà funzionale di tali forme tradizionali di protezione rispetto all'amministrazione di sostegno. Le misure dell'interdizione e dell'inabilitazione, meno flessibili e più vincolanti, sono ormai da considerarsi, secondo unanime interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, quali istitutida applicarsi solo qualora non si ritengano possibili diversi interventi di tutela idonei ad assicurare al soggetto debole un'adeguata protezione. Detto altrimenti, l'amministrazione di sostegno ha quale finalità principale quella di offrire a chi si trovi nell'impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l'interdizione e l'inabilitazione, non soppressi ma solo modificati dalla legge n. 6 del 2004 attraverso la novellazione degli articoli 414 e 417 c.c.

È utile sottolineare che, rispetto ai predetti istituti, l'ambito di applicazione va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità e alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa.

Appartiene all'apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerare anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell'impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie (Cass. n. 13584/2006).

Quanto appena detto è, peraltro, confermato dal fatto che l'istituto dell'interdizione trova nella prassi giurisprudenziale residuale applicazione mentre del tutto desueto risulta lo strumento dell'inabilitazione, ormai compresso tra le due figure.

Tutto ciò premesso, è possibile ora passare ad esaminare il caso specifico sottoposto all'attenzione della Corte ed oggetto della sentenza in commento.

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la nullità del decreto della Corte d'Appello (in un giudizio di modifica delle condizioni del divorzio) in quanto la ex moglie, sebbene sottoposta ad amministrazione di sostegno, sarebbe stata pienamente capace di stare in giudizio, sostenendo esservi necessità dell'autorizzazione del giudice tutelare solo per promuovere giudizi e che pertanto l'avvocato amministratore di sostegno non poteva sostituirsi alla parte, non avendo ricevuto un mandato dalla stessa.

Per la Corte il dedotto vizio di carenza di legittimazione passiva non sussiste.

L'amministratore di sostegno ha partecipato al giudizio di primo e secondo grado, in rappresentanza dell'amministrata, giusta specifica autorizzazione del giudice tutelare, avendo richiesto di essere autorizzato a costituirsi nel giudizio di revisione dell'assegno divorzile, per suo nome, conto ed interesse, nonché a svolgere altresì la funzione di difensore.

La Suprema Corte, inoltre, precisa che il procedimento disciplinato dagli artt. 404 c.c. e ss. è un procedimento in cui si tratta della capacità di agire della persona, sia pure non in maniera assoluta e generale come nel giudizio d'interdizione. Con il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno, il giudice tutelare decide, infatti, se vi siano atti, e quali essi siano, che l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art. 405, comma 4, n. 3, c.c.), attribuendo all'amministratore il potere rappresentativo degli interessi del beneficiario, in quanto persona che non è capace di gestirli autonomamente. Trattasi di un istituto duttile, che va calibrato sull'interesse dell'assistito. La rappresentanza sostanziale conferita all'amministratore di sostegno assume rilievo nel processo, nel senso che l'amministratore di sostegno ha anche, in virtù del disposto dell'art. 75, comma 2, c.p.c., il potere processuale, funzionale alla tutela delle situazioni sostanziali per le quali gli è stato conferito il potere rappresentativo. In relazione agli atti che l'amministratore di sostegno è autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario, quest'ultimo non può stare in giudizio se non rappresentato dall'amministratore. Nel caso in cui l'incarico di amministratore di sostegno sia stato conferito ad un avvocato, questi potrà essere autorizzato a stare in giudizio personalmente ai sensi dell'art. 86 c.p.c.

Peraltro, nella fattispecie in esame la Corte ritenuto che nel giudizio di revisione delle condizioni economiche di divorzio, l'ex coniuge invalido al 100% potesse essere validamente rappresentato dall'amministratore di sostegno, non essendo in discussione diritti personalissimi, essendo oggetto del contendere la revisione delle condizioni economiche della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Inoltre, in forza dell'art. 411 c.c., all'amministratore di sostegno si applica, in quanto compatibile, la disposizione di cui all'art. 374, n. 5, c.c., che prevede che il tutore non possa, senza autorizzazione del giudice tutelare, promuovere giudizi. Più in particolare, la norma da ultimo citata prevede l'autorizzazione solo per agire in giudizio, implicitamente escludendola per resistere in esso, nonché stabilisce alcune eccezioni, affermando che il tutore può agire senza autorizzazione, quando si tratti di denuncia di nuova opera o di danno temuto, azioni possessorie o di sfratto, azioni per riscuotere frutti e per ottenere provvedimenti conservativi.

La disciplina della difesa passiva è quindi diversa da quella della difesa attiva. Essa è, per definizione, tesa alla conservazione del patrimonio e costituisce attività di ordinaria amministrazione. Il tutore può compierla senza autorizzazione del giudice ed anzi è obbligato a farlo, quando l'omissione pregiudicherebbe l'interesse del soggetto rappresentato.

In altri termini, l'autorizzazione del giudice tutelare è richiesta nelle ipotesi in cui il rappresentante legale intenda rendersi attore, per far valere in giudizio una pretesa ricollegabile alla sfera patrimoniale dell'incapace, e non già per la diversa ipotesi in cui il rappresentante stesso debba resistere all'altrui iniziativa giudiziaria, in vista della conservazione degli interessi del rappresentato. In questa seconda ipotesi egli ben può, senza autorizzazione, proporre le eventuali impugnazioni, le quali costituiscono fasi di un unico ed unitario procedimento e non comportano il promuovimento di un autonomo giudizio bensì hanno lo scopo di conseguire la rimozione di provvedimenti sfavorevoli per l'incapace (Cass. n. 722/1989; Cass. n. 23647/2004).

Tale previsione è, con orientamento consolidato, intesa come non operante nelle ipotesi di difesa passiva all'altrui iniziativa giudiziaria, in vista della conservazione dell'interesse del rappresentato (Cass. 1417/1975; Cass. 1707/1981; Cass. 722/1989; Cass. 7068/2009; Cass. 19499/2015).

Ad ogni modo, preme sottolineare che, nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte, l'amministratore di sostegno si era comunque fatto rilasciare, prima di costituirsi in giudizio, per resistere all'altrui pretesa, l'autorizzazione dal giudice tutelare.

Guida all'approfondimento

Bonilini, Le norme applicabili all'amministrazione di sostegno”, in G. Bonilini, A. Chizzini, L'amministrazione di sostegno, Padova, 2007;

L. Milone, L'amministratore di sostegno nel sistema di protezione delle persone in difficoltà: prime perplessità, in Notariato, 2005, 3, 302;

G. Lisella, Questioni tendenzialmente definite e questioni ancora aperte in tema di amministrazione di sostegno, La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2013, 284;

Bonilini, L'anziano consapevole, e adeguatamente assistito, non abbisogna di amministratore di sostegno, in soccorso, può intervenire il mandato, in Famiglia e Diritto, 2016, 2, 177)

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