I limiti del sequestro preventivo sui conti della società per reati tributari commessi dal legale rappresentante

26 Settembre 2019

La vicenda in esame trae origine dal sequestro preventivo ai fini della confisca diretta o per equivalente disposto dal GIP di Udine nei confronti sia dell'indagato - quale legale rappresentante e socio accomandatario – sia della società per il reato dell'art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000. A suo carico pendeva dunque un procedimento penale per...
Massima

In tema di omesso versamento delle ritenute su retribuzioni, è illegittimo il sequestro preventivo ai fini della confisca operato sui conti della società per un importo superiore al saldo attivo giacente al momento consumativo del reato.

Le eventuali rimesse successive a tale data non possono essere qualificate come profitto di reato, ma come unità di misura del profitto stesso.

Il caso

La vicenda in esame trae origine dal sequestro preventivo ai fini della confisca diretta o per equivalente disposto dal GIP di Udine nei confronti sia dell'indagato - quale legale rappresentante e socio accomandatario – sia della società per il reato dell'art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000.

A suo carico pendeva dunque un procedimento penale per il reato di omesso versamento di ritenute operate sulle retribuzioni e compensi erogati nell'anno di imposta 2015, per un ammontare complessivo di euro 150.995,67.

Avverso il decreto di sequestro veniva proposta istanza di riesame, che però veniva rigettata dal Tribunale del Riesame di Udine. Dopodiché l'indagato presentava ricorso per cassazione, portando all'attenzione dei Giudici di legittimità numerose questioni di natura sostanziale e procedurale.

La questione

Con il primo motivo, l'indagato deduceva che il reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. 74/2000 - introdotto con d.lgs. n. 158/2015 - poteva al più trovare applicazione per fatti commessi in epoca successiva alla sua entrata in vigore (22 ottobre 2015). Di conseguenza il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente poteva interessare le somme e i beni corrispondenti al valore delle ritenute operate (e non versate) dal 22 ottobre 2015 fino al 31 dicembre 2015.

Pertanto l'importo che ne derivava – corrispondente a euro 40.555,17 – non era idoneo ad integrare la fattispecie penale perché inferiore alla nuova soglia di punibilità di euro 150.000. In ogni caso, la confisca di valore non poteva essere estesa alla società, trattandosi di soggetto diverso dall'autore del reato e, comunque, estraneo alla sua consumazione.

Con il secondo motivo, lamentava la mancata valutazione della tempestiva adesione al piano rateale di estinzione del debito, concordato con l'Agenzia delle Entrate nel termine di 30 giorni dalla ricezione dell'avviso bonario di pagamento ed in esecuzione al momento del sequestro.

Siffatta circostanza, ad avviso del ricorrente, sarebbe risultata ostativa alla rigorosa applicazione della confisca ex art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, come pure del sequestro ad essa strumentale.

Con il terzo motivo, rilevava la manifesta illogicità della motivazione laddove si riconosceva l'applicabilità del sequestro preventivo anche delle somme di denaro confluite nei conti correnti del ricorrente e della società in epoca certamente successiva alla consumazione del reato.

Con il quarto motivo, si contestava ancora una volta la motivazione dell'ordinanza del Tribunale del Riesame in relazione però alla prova ancorché “indiziaria” del rilascio delle certificazioni ai contribuenti sostituiti nell'anno di imposta 2015.

Peraltro, con riferimento ai fatti commessi in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. n. 158/2015, si sottolineava che il reato in oggetto poteva essere integrato solo quando le ritenute non versate risultassero dalle “certificazioni” rilasciate ai sostituiti e non quindi in base alla semplice “dichiarazione” presentata dal sostituto d'imposta (come oggi è previsto).

Con il quinto motivo si contesta ancora una volta la logicità della motivazione sotto il profilo del periculum in mora.

Con il sesto motivo, infine, allegando il minimo superamento della soglia di punibilità, si deduce la mancata valutazione della causa di non punibilità dell'art. 131-bis c.p., tenuto conto che l'importo delle ritenute contestato superava di poco la soglia penalmente rilevante.

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente la Suprema Corte – nel rispondere alle plurime questioni sollevate dalla difesa del ricorrente – ha ritenuto opportuno evidenziare i limiti stabiliti dalla legge nel caso di impugnazione di un'ordinanza cautelare di tipo reale.

Trattandosi infatti di un mezzo di impugnazione espressamente riconosciuto dall'art. 325 c.p.p., ha precisato che, in sede di legittimità, sono consentite soltanto censure solo attinenti alla “violazione di legge”.

In essa rientrano quindi:

  • la mancanza assoluta di motivazione, motivazione meramente apparente, ma non invece l'illogicità manifesta (riconosciuta invece nel giudizio di legittimità scaturente dal ricorso per cassazione ordinario tramite il motivo di cui all'art. 606 lett. e) c.p.p.);
  • l'omesso esame di punti decisivi per l'accertamento del fatto, sui quali è stata fondata l'emissione del provvedimento di sequestro, si traduce in una violazione di legge per mancanza di motivazione, censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 325, comma 1, c.p.p.

Di conseguenza, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibili le censure attinenti al vizio di motivazione dedotte con il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo.

L'esame è stato quindi limitato ai soli casi che rientrano, in base all'art. 325 c.p.p., nella violazione di legge tra cui il vizio totale di motivazione.

Orbene, tornando al primo motivo, i Giudici di legittimità hanno rilevato che l'omesso versamento di ritenute ex art. 10-bisd.lgs. n. 74/2000 ha natura “unisussistente”. Di conseguenza esso si consuma alla scadenza del termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa all'anno precedente.

Non rileva pertanto ai fini penali che l'omesso versamento avvenga nei termini fissati dal diritto tributario per l'effettuazione dei versamenti periodici(entro il 16 del mese successivo a quello in cui la ritenuta viene operata). Ciò in quanto – lo si ribadisce – per la configurazione del reato in esame e per la valutazione quindi del superamento della soglia di euro 150.000 – si deve guardare al maggior termine stabilito per la presentazione annuale della dichiarazione relativa al periodo d'imposta dell'anno precedente.

Nel caso di specie, il reato si è “consumato” in data 15 settembre 2016 corrispondente alla data di scadenza prevista dal D.P.C.M. del 26.07.2016 per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta relativa alle ritenute operate nell'anno precedente. Di conseguenza, l'importo delle somme non versate risulta superiore alla soglia di punibilità di euro 150.000 prevista dall'art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000, non ravvisandosi quindi alcuna violazione di legge.

Per tali ragioni, avendo riguardo al momento “consumativo” del reato de quo (15.09.2016), è evidente – secondo la Corte di Cassazione – che ratione temporis sono state applicate le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 158/2015: in particolare, la circostanza che il reato risulti integrato anche quando il debito erariale emerga dalla sola dichiarazione del sostituto di imposta e non anche dai certificati rilasciati ai sostituiti (come avveniva secondo la disciplina previgente).

Quanto al secondo e al quinto motivo la Corte ha ritenuto le censure formulate dalla difesa infondate.

L'art. 12-bis, comma 2,d.lgs. n. 74 del 2000 dispone infatti che la«confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta».

Trattandosi di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca, occorre distinguere la previsione dell'art. 321, comma 2, c.p. da quella del comma 1, in quanto la prima non necessita del pericolo di dispersione del bene. Essa infatti va considerata come figura “specifica” e “autonoma” avente come presupposto la sola “oggettiva confiscabilità della cosa”, tanto nell'ipotesi facoltativa che in quella obbligatoria. Non è pertanto necessaria nemmeno una prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose medesime (c.d. periculum in mora).

Muovendo da queste premesse, la Corte ha subito dopo rilevato che l'attuale dettato normativo non esclude affatto la possibilità per il contribuente – che si sia impegnato nei confronti dell'erario al pagamento del debito – di pagare il dovuto anche in presenza del sequestro”.

L'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2001 prevede che la confisca (non il sequestro) “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro”; a ciò aggiungendo che “nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta.

Secondo la Corte, non è pertanto accoglibile la tesi difensiva secondo cui il pagamento rateale del debito tributario (e l'ammissione stessa a tale piano) sia ostativa al sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente.

In sintesi, si osserva che la previsione della natura “obbligatoria” (e sanzionatoria) della confisca comporta che, ai fini della adozione del sequestro preventivo, il giudice è tenuto esclusivamente ad accertare la astratta confiscabilità del bene, esulando dal suo orizzonte decisorio la volontà del contribuente di estinguere il debito (o il fatto stesso che a ciò stia già provvedendo) come pure i riflessi che il sequestro potrebbe avere sull'economia dell'impresa o l'assenza di pericolo che, nelle more, il bene possa disperdersi nonché la positiva prognosi di adempimenti, non essendo al giudice riconosciuta una tale discrezionalità.

Ciò non vuol dire che l'eventuale accordo tra contribuente e Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario non abbia alcun rilievo. In tal caso infatti il sequestro preventivo finalizzato alla confisca non può essere mantenuto sull'intero ammontare del profitto (derivante dal mancato pagamento dell'imposta evasa),ma deve coerentemente essere ridotto in misura corrispondente agli importi ratealmente versati.

È inoltre possibile per il contribuente presentare una successiva istanza di revoca parziale del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, previa dimostrazione del quantum corrisposto per i ratei di imposta al netto di interessi e sanzioni.

A ciò la Suprema Corte ha aggiunto che il sequestro preventivo non è di ostacolo al pagamento delle ulteriori rate previste dall'accordo con l'Amministrazione finanziaria. Ben può infatti il contribuente presentare al Pubblico Ministero richiesta di autorizzazione all'utilizzo delle somme oggetto di sequestro per il pagamento delle rate in scadenza, con la conseguente “riduzione” del sequestro stesso.

Per i Giudici di legittimità è invece fondato il terzo motivo del ricorso per cassazione per la parte che qui si rileva.

Nel caso di specie, il sequestro preventivo è stato disposto sui conti correnti accesi presso istituti di credito intestati sia all'indagato (per l'importo di euro 1.800) sia alla società dallo stesso rappresentata (per l'importo complessivo di euro 26.000).

Orbene, relativamente al sequestro dei conti della società, il Tribunale del Riesame di Udine ha qualificato come “diretta” la confisca in funzione della quale è stato adottato il sequestro preventivo. Si trattava, ad avviso del Giudicante, di somme di denaro che rappresentano il “profitto” legittimante l'applicazione della misura ablativa nei confronti della società.

Del resto, come da orientamento consolidato, nella nozione di “profitto” può rientrare il risparmio di spesa conseguente al mancato decremento di patrimonio da parte di chi ha omesso di adempiere all'obbligazione tributaria.

La Corte però, in accoglimento al motivo proposto dalla difesa, ha posto alcune importanti precisazioni:

Qualora alla scadenza del termine previsto per il pagamento dell'imposta, il conto corrente presenta un saldo negativo, il denaro successivamente versato non può ex se essere qualificato come “profitto” da reato.

È necessario infatti che la Pubblica accusa dimostri che tale importo costituisca risparmio di spesa ottenuto dal mancato versamento dell'imposta o di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente per tutto il tempo che va dalla scadenza del termine penalmente rilevante alla data di esecuzione del sequestro.

La somma di denaro prelevata, distratta o destinata ad altri fini dal contribuente prima della scadenza del termine non può essere qualificata come “profitto” del reato perché non può esservi “profitto” prima della consumazione stessa di un reato a natura omissiva unisussistente.

Per meglio comprendere la portata di tale principio, la Suprema Corte ha posto il seguente esempio: se alla data di scadenza del termine penalmente rilevante il conto corrente ha una disponibilità liquida di euro 100 e il debito tributario ammonta ad euro 1.000, la somma di denaro che può essere sequestrata ai fini della confisca “diretta” non potrà mai essere superiore ad euro 100. Ciò anche nell'ipotesi in cui alla successiva data del sequestro il suddetto importo dovesse essere aumentato fino a coprire l'intero debito tributario.

L'ammontare residuo potrebbe essere quindi concepito solo per la confisca “per equivalente”, ma quest'ultima non può operare nei confronti della persona giuridica, salvo che la stessa abbia rappresentato uno “schermo fittizio”.

Nel caso di specie, il Tribunale del Riesame aveva rilevato che, alla data del 30.09.2016, il saldo di uno dei conti correnti della società era pari ad euro 24.778,48. Nonostante questo, il decreto di sequestro era stato eseguito nei confronti della società per l'importo di euro 25.021,35. Ciò in quanto – come emergeva dal provvedimento impugnato – la polizia giudiziaria incaricata di dare esecuzione al decreto di sequestro preventivo aveva dato disposizioni all'istituto di credito di procedere al sequestro delle ulteriori somme che sarebbero confluite sul conto stesso.

Ebbene, secondo la Corte, non v'è dubbio che le rimesse successive alla data di consumazione del reato omissivo non possono essere qualificate come “profitto” del reato stesso, bensì comune unità di misura del profitto stesso. Per tale ragione, non può essere considerato come “profitto” ai fini che qui rilevano la somma di denaro superiore ad euro 24.778,48.

Alla luce di ciò, la Suprema Corte ha quindi disposto l'annullamento dell'ordinanza del Tribunale del Riesame di Udine nella parte in cui aveva confermato il sequestro preventivo ai fini della confisca diretta delle somme di denaro in disponibilità della società per un importo superiore a quello in giacenza alla data di consumazione del reato, corrispondente alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'imposta.

La Corte ha infine ritenuto in parte accoglibile l'ultimo motivo del ricorso.

Ha infatti ribadito che, in materia di reati tributari, laddove l'omissione concerna un ammontare di poco superiore alla soglia di punibilità prevista ex lege, è possibile riconoscere l'applicazione della causa di non punibilità dell'art. 131-bis c.p.

Nel caso in esame, il superamento della soglia di punibilità di soli euro 995,7 – in misura davvero prossima rispetto a quanto previsto dal novellato art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000 – consentiva una valutazione della causa di non punibilità, fermo restando però che il ricorrente non aveva mosso simili rilievi nell'istanza di riesame, sicché non sussiste un vizio di mancanza radicale di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del Riesame di Udine.

Osservazioni

La decisione della Terza Sezione Penale della Suprema Corte si pone nel solco dell'orientamento tracciato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità.

A questo riguardo, è utile infatti ricordare che quando si procede per reati tributari compiuti da organi della persona giuridica, è consentito il sequestro preventivo ai fini della confisca “diretta” nei confronti della società limitatamente ai beni che costituiscono il “profitto” da reato.

Il profitto, in questo caso, consiste in un vantaggio economico o nel risparmio derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito.

Inoltre, quando il “prezzo” o “profitto” sia costituito da “denaro”, il sequestro delle somme deve essere qualificato come “diretto”. Ciò in considerazione della natura del bene, che non richiede la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma oggetto del vincolo preventivo e il reato (Cass. Pen. Sez. Un., 26.06.2015, n. 31617, Lucci).

Tuttavia – ed è principio affermato dalla Corte nella pronuncia in commento – non tutte le somme costituenti saldo attivo del conto della società possono considerarsi “profitto” di reato suscettibile di sequestro ai fini della confisca “diretta”.

Occorre infatti tener conto del momento di consumazione del reato (che corrisponde alla scadenza del termine di presentazione annuale della dichiarazione relativa al periodo d'imposta dell'anno precedente) e del saldo attivo in giacenza in tale data sul conto.

Per i successivi incrementi del conto, è onere della Pubblica accusa dimostrare che costituiscano “profitto” del reato rimasto nella disponibilità del contribuente per tutto il tempo che va dalla scadenza del termine penalmente rilevante alla data di esecuzione del sequestro.

In ogni caso, quando è possibile il sequestro c.d. diretto del “profitto” di reato nei confronti della società, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca “per equivalente” nei confronti degli organi della persona giuridica. Ciò in quanto i reati tributari sono stati da costoro commessi a vantaggio della società che non può essere considerata “estranea al reato” (Cass. Pen. Sez. Un. 30.01.2014, n. 10561, Gubert).

Quando non è possibile il sequestro c.d. diretto del “profitto” di reato tributario nei confronti della società, non è consentito nemmeno il sequestro preventivo finalizzato alla confisca “per equivalente”, salvo che la persona giuridica costituisca uno “schermo fittizio”.Il che si verifica quando la società sia in concreto priva di autonomia e rappresenti uno schermo attraverso il quale l'amministratore agisca come effettivo titolare, avvalendosene come strumento-contenitore di ricchezze che fanno capo allo stesso (Cass. pen., Sez. Unite, 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert).

Tale limitazione deriva dal fatto che i reati tributari non sono ricompresi nel catalogo di quelli che consentono il sequestro “per equivalente” nei confronti della persona giuridica (artt. 19 e 24 ss. del d.lgs. 08.06.2001, n. 231). E non può neppure essere disposto in base all'art. 322-ter c.p., il cui ambito di operatività è stato esteso ai reati tributari limitatamente all' “autore del reato”,che non può corrispondere alla persona giuridica, la quale può solo assumere una responsabilità “amministrativa”.

Per tale ragione, la Suprema Corte – nel caso di specie – ha riconosciuto la legittimità del sequestro preventivo per confisca “diretta” delle somme di denaro presenti nel conto intestato alla società del valore corrispondente al saldo del momento di consumazione del reato, non potendo invece far rientrare nella confisca “per equivalente” le somme ulteriori che avrebbero contribuito a soddisfare il debito tributario.

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