La decorrenza del termine di prescrizione dell'illecito amministrativo dipendente da reato dell'ente

Lucia Aielli
09 Ottobre 2019

La Sezione Quarta della Corte di cassazione, investita del ricorso, dopo un breve richiamo alla disciplina della prescrizione in tema di responsabilità degli enti: art. 22 d.lgs. 231/2001, ricorda che sul tema vi sono due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Massima

In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'ente, in quanto atto di contestazione dell'illecito, interrompe per il solo fatto della sua emissione, il decorso del termine di prescrizione previsto dall'art. 22 del d.lgs. n. 231/2001, senza che sia necessaria la notifica della richiesta stessa (Cass. pen., Sez. V, 22 settembre 2015, n. 50102; Cass. pen., Sez. III, 19 marzo 2015, n. 29081; Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012; Cass. pen., Sez. II, 15 dicembre 2011, n. 10822).

La richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica interrompe il corso della prescrizione, in quanto atto di contestazione dell'illecito, solo se, oltre che emessa, sia stata anche notificata entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, dovendo trovare applicazione, ai sensi dell'art. 11, primo comma, lett. r), l. 29 settembre 2000, n. 300, le norme del cod. civ. che regolano l'operatività dell'interruzione della prescrizione (Cass. pen., Sez. VI, 12 febbraio 2015, n.18257).

Il caso

Il Tribunale di Rimini ha dichiarato non doversi procedere nei confronti della Coperture Edil s.r.l., per estinzione dell'illecito di cui al d.lgs. 231/2001, art. 25-septies, comma 2 in relazione all'art. 590, commi 2 e 3, c.p. commesso da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente (art. 5 decreto cit.), per prescrizione, ritenendo maturato il termine quinquennale di cui all'art. 22 d.lgs. 231/2001, a decorrere dalla consumazione del reato, senza che fosse ritualmente notificato il decreto di citazione a giudizio.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini eccependo il vizio di violazione di legge in relazione alla data di prescrizione dell'illecito amministrativo che, contrariamente a quanto assunto dal Tribunale, decorre dalla emissione del decreto, non potendosi attribuire rilievo ai vizi concernenti la notifica dello stesso, posto che la domanda giudiziale, sia pure invalida, riveste carattere di atto di costituzione in mora avente efficacia interruttiva della prescrizione.

La questione

La Sezione Quarta della Corte di cassazione, investita del ricorso, dopo un breve richiamo alla disciplina della prescrizione in tema di responsabilità degli enti: art. 22 d.lgs. 231/2001 secondo cui «1. Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato. 2. Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59. 3. Per effetto della interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione. 4. Se l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio», ricorda che sul tema vi sono due diversi orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento, la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito, per il solo fatto della sua emissione, interrompe il decorso della prescrizione, fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio (Cass. pen., Sez. II, 15 dicembre 2011, n. 10822; Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012), mentre secondo altra pronuncia, rimasta per la verità isolata (Cass. pen., Sez. VI,12 febbraio 2015, n. 18257), la richiesta di rinvio a giudizio interrompe la prescrizione in quanto sia stata anche notificata entro cinque anni dalla consumazione dell'illecito, dovendo trovare applicazione ai sensi

l. 29 settembre 2000 n. 300 art. 11,

comma 1, lett. r), le norme del codice civile che regolano l'operatività della prescrizione.

Gli argomenti a sostegno del primo indirizzo interpretativo, riprodotti dalla Sezione IV, sono rappresentatati da due ordini di motivi: il primo, dato dal richiamo esplicito dell'art. 59 d.lgs. 231/2001, all'art. 405 c.p.p. che individua tra gli atti di contestazione dell'illecito, la richiesta di rinvio a giudizio, ovverosia un atto la cui efficacia prescinde dalla notifica alle parti; il secondo, correlato al valore oggettivo degli atti interruttivi della prescrizione che in quanto rappresentativi della persistenza dell'interesse punitivo dello Stato, hanno la capacità di raggiungere lo scopo anche se affetti da nullità (Cass. pen., Sez. IV, 9 dicembre 1998, n. 1387, detta la linea interpretativa da ultimo è stata confermata da Cass. pen.,Sez. III, 19 marzo 2015, n. 29081).

A supporto del secondo orientamento giurisprudenziale si valorizza, invece, il tenore letterale della legge delega 300/2000, art. 11, comma 1, ove alla lettera r) è stabilito di «prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lettere g), i), e l), si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati indicati alle lettere a), b), c), e d), e che l'interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile».

Le soluzioni giuridiche

La Sezione Quarta con la sentenza in commento, aderisce al primo indirizzo interpretativo evidenziando che anche nell'ipotesi di responsabilità da reato degli enti, l'interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l'interruzione della prescrizione nei confronti dell'imputato e coincidere con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, a prescindere dalla sua notificazione, mentre il richiamo alla disciplina civilistica, valorizzato dall'orientamento minoritario, non è considerato decisivo atteso che il riferimento all'art. 2945, comma 2, c.c. deve intendersi nel senso che una volta interrotta la prescrizione, essa non corre sino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. Il che, ad avviso della Corte di Cassazione, nulla ha a che fare con il momento della produzione degli effetti dell'atto interruttivo, quanto piuttosto con il contenuto di quegli effetti rispetto ai quali, diversamente da quanto previsto dall'art. 160 c.p. per la prescrizione del reato, l'interruzione impedisce la decorrenza del termine prescrizionale sino alla definizione del giudizio.

In sostanza il Collegio decidente giustifica la propria opzione interpretativa attraverso un percorso argomentativo che non trascura il richiamo alla disciplina civilistica, ma attribuisce a essa un significato circoscritto al contenuto degli effetti dell'atto, piuttosto che alla giuridica esistenza di quegli effetti connessi all'atto. Ad avviso del Collegio, il momento di produzione degli effetti dell'atto interruttivo, è cosa diversa dalla decorrenza degli effetti dell'atto interruttivo in quanto con l'atto interruttivo si manifesta l'interesse dello Stato alla pretesa punitiva a prescindere dalla intervenuta notificazione, mentre la durata della interruzione in ambito civilistico, è regolata diversamente rispetto al processo penale.

A tale riguardo la Suprema Corte sottolinea la peculiare natura della responsabilità amministrativa degli enti che trova la sua giustificazione nella necessità di sanzionare l'impresa che abbia violato norme che implicano limiti di compatibilità della libertà di iniziativa economica, con l'interesse generale come espresso dall'art. 41 della Costituzione.

Osservazioni

La soluzione adottata dalla Sezione Quarta, che ha annullato la sentenza impugnata, si colloca nel solco tracciato da quelle decisioni secondo cui gli atti attraverso i quali è espressa la volontà punitiva dello Stato, interrompono di per sé la prescrizione. Infatti, in tema di interruzione della prescrizione del reato, va riconosciuta anche agli atti processualmente nudi la capacità di conseguire lo scopo (Cass. pen., Sez. V, 9 dicembre 1998, n. 1387).

La scelta del Collegio, sebbene in linea con l'indirizzo giurisprudenziale maggioritario che ritiene risolutivo ai fini giustificativi del regime prescrizionale, il dato letterale del rinvio dell'art. 59 d.lgs. 231/2001, all'art. 405 c.p.p. (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012), si sofferma sull'esatto significato che occorre dare al rinvio contenuto nella legge delega n. 300/2000, art. 11 comma 1 lett. r), alla disciplina civilistica attribuendo ad esso il valore di richiamo all'art. 2945, comma 2, c.c. e cioè alla decorrenza dell'effetto interruttivo che, diversamente da quanto accade in ambito penale ex art. 160 c.p. (ove, dopo il verificarsi dell'atto interruttivo, la prescrizione comincia nuovamente a decorrere e se più sono gli atti interruttivi, decorre dall'ultimo di essi, sino ad un termine massimo), non matura sino a quando non passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. Il Collegio per giustificare tale rinvio, distingue il momento della produzione degli effetti dell'atto interruttivo, dal contenuto di quegli effetti che rimangono fermi, a differenza che per il reato attribuito alla persona fisica, per tutta la durata del processo sino alla sua definizione, ciò in ragione della particolare pretesa punitiva che muove lo Stato rispetto alla responsabilità d'impresa di fronte a priorità collettive come quelle tutelate dall'art. 41 della Costituzione. Siffatte priorità e cioè l'esigenza di garantire, nell'esercizio dell'attività imprenditoriale, l'utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana, determinano la necessità del ricorso ad una disciplina normativa, quella civilistica appunto, che renda inefficace il decorso del tempo per la durata del processo, al fine di non stravolgere valori collettivi costituzionalmente garantiti.

La sentenza in commento mostra, in definitiva, di voler comporre il contrasto giurisprudenziale tenendo conto del dato letterale contenuto nella legge delega (valorizzato dall'orientamento minoritario), individuando distintamente il momento di produzione dell'atto interruttivo, dal contenuto degli effetti dell'atto, con un rinvio alla disciplina civilistica che rende indifferente il tempo del processo ai fini della prescrizione. Tale ricostruzione appare condivisibile anche alla luce di quanto autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite (Cass. pen., 24 aprile 2014, n. 38343), secondo cui la responsabilità da reato degli enti, coniuga i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo e configura un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza. La pronunzia del Supremo Collegio assume che tale responsabilità ha natura ibrida, a metà strada fra quella amministrativa e quella penale e ricorda che il legislatore con il d.lgs. 231/2001, ha inteso introdurre uno specifico ed innovativo sistema di responsabilità degli enti collettivi, dotato di regole apposite quanto alla struttura dell'illecito, all'apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell'ente, al procedimento di cognizione ed esecuzione; il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale sicché non appare un fuor d'opera ipotizzare che l'istituto della prescrizione del reato degli enti, sia caratterizzato da elementi propri del diritto penale e del diritto civile. A ciò va aggiunto che in tema di prescrizione, la Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. VI, n. 28299/2015, Rv. 267047), ha stimato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del diverso regime di prescrizione per gli illeciti commessi dall'ente imputato, rispetto a quella stabilita per gli imputati persone fisiche, in quanto la diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente e l'impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001, allo schema dell'illecito penale, giustificano, appunto, il regime derogatorio della disciplina della prescrizione che da un lato prevede un termine oggettivamente breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito, nella dichiarata intenzione di contenere la durata della prescrizione e di non lasciare uno spazio temporale eccessivamente ampio per l'accertamento dell'illecito nel corso delle indagini, anche per favorire le esigenze di certezza di cui necessita l'attività delle imprese, dall'altro, un regime degli effetti interruttivi che replica la disciplina civilistica, stabilendo che, una volta contestato l'illecito amministrativo, «la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio» così realizzando un bilanciamento tra le esigenze di durata ragionevole del processo, soprattutto nel prevedere un termine breve di prescrizione, e le esigenze di garanzia, corrispondenti nella specie al valore della completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente. Infatti una volta contestato l'illecito nel termine di cinque anni risulta difficile che si verifichi la prescrizione nel corso del giudizio, a differenza di quanto accade per i reati, ma ciò avviene sulla base di una scelta del legislatore che vuole evitare che, in presenza dell'interesse dell'autorità procedente a far valere la potestà punitiva dello Stato, manifestata attraverso l'esercizio dell'azione penale, si corra il rischio di dover dichiarare l'estinzione dell'illecito per il sopraggiungere della prescrizione.

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