Modifica delle condizioni di divorzio in base all’ accertamento di un sopravvenuto divario economico tra ex coniugi

Antonella Ratti
11 Ottobre 2019

Il giudizio di modifica delle condizioni di divorzio ha a oggetto l'accertamento dei fatti sopravvenuti incidenti sulle posizioni degli ex coniugi, senza tuttavia costituire una sorta di gravame avverso la sentenza di divorzio...
Massima

Il giudizio di modifica delle condizioni di divorzio ha a oggetto l'accertamento dei fatti sopravvenuti incidenti sulle posizioni degli ex coniugi, senza tuttavia costituire una sorta di gravame avverso la sentenza di divorzio, non essendo il giudizio di modifica la sede per effettuare un nuovo accertamento dei presupposti del diritto all'assegno divorzile. Incombe sul ricorrente l'onere di dimostrare che siano intervenute circostanze tali da incidere in maniera significativa sull'equilibrio economico delle parti, riducendone il divario.

Il caso

Tizio è onerato dell'obbligo di corrispondere a favore di Caia l'assegno divorzile nella misura di € 2.000,00 mensili.

Proponendo il ricorso per la modifica delle condizioni di divorzio, Tizio sostiene che Caia è piena proprietaria dell'immobile in cui risiede, è lavoratrice dipendente e ha fondato motivo di credere che le condizioni reddituali della sua ex moglie siano di gran lunga migliorate rispetto all'epoca del divorzio in quanto la stessa nel corso degli anni ha potuto disporre di molta liquidità che le avrebbe permesso di compiere operazioni di capitalizzazione tali da incrementare il proprio patrimonio. Per tali motivi chiede quindi la revoca dell'assegno divorzile o in subordine la sua riduzione ad € 200,00 mensili.

Nulla riferisce di specifico riguardo alle sue attuali condizioni economiche /patrimoniali rispetto all'epoca del divorzio.

Da parte sua la resistente, costituendosi in giudizio, afferma di essere stata collocata in solidarietà a far tempo dal 2014 con una riduzione delle ore lavorative, dal 2013 non ha beneficiato di alcuno scatto di anzianità, né adeguamento contrattuale, con conseguente riduzione dello stipendio percepito rispetto all'epoca del divorzio. Insiste quindi per il rigetto della modifica delle condizioni di divorzio.

La questione

Ogni volta che si viene ad accertare un divario fra le condizioni economiche degli ex coniugi, deve farsi luogo alla loro modifica? Quale prova bisogna fornire per vedere accolta la domanda?

In caso di accertamento di colpa grave nell'agire in giudizio, come si quantifica la sanzione da applicare ex art. 96 comma 3 c.p.c.?

Le soluzioni giuridiche

Perché possa farsi luogo alla revisione delle condizioni poste a governo del divorzio, ex art. 9 comma 1 l.n. 898/70, è necessario che siano intervenuti fatti nuovi sopravvenuti che incidendo sulla situazione preesistente giustifichino un loro mutamento tale da creare uno squilibrio economico fra le parti, riducendone il divario.

Ai sensi dell'art. 2697 comma 1 c.c. incombe alla parte ricorrente l'onere di dimostrare l'intervenuta sussistenza di modifiche tali da comportare un mutamento della situazione preesistente.

Gli elementi che il ricorrente deve fornire devono essere volti a dimostrare il sorgere di “fatti nuovi sopravvenuti”; non basta allegare elementi generici e ipotetici demandando all'organo giudicante “l'indagine con funzione esplorativa” atteso che tale operazione sarebbe strumentale alla ricerca di elementi utili alla posizione del ricorrente, sul quale invece incombe tale onere.

Secondo il Collegio bresciano, le allegazioni fornite dal ricorrente, che si è limitato ad indicare il reddito percepito dalla ex moglie all'epoca del divorzio e a supporre che il reddito attuale sia maggiore, come altresì ad indicare in maniera non temporalmente circostanziata l'acquisto di beni immobili da parte di questa ultima, sono tali da impedire di comprendere se trattasi di fatti sopravvenuti rispetto all'epoca del divorzio e conseguentemente idonei a supportare la domanda proposta. Il ricorrente, nel caso di specie, non ha ritenuto di indicare l'entità dei propri redditi all'epoca del divorzio ed al momento della presentazione del ricorso per la modifica. Siffatte omissioni sono tali da rendere impossibile per il Tribunale una valutazione sulla sussistenza di un'alterazione dell'equilibrio economico a favore del ricorrente, a fronte della dimostrazione, da parte della resistente, del peggioramento della propria condizione economica, stante la prova, da parte di questa ultima, di una riduzione reddituale.

Il richiamo fatto dal ricorrente alla sentenza n. 18287/2018, a ulteriore supporto della propria domanda, non è tale da giustificare una modifica delle condizioni atteso che il giudizio di revisione delle disposizioni di divorzio ha ad oggetto l'accertamento di fatti sopravvenuti incidenti sulle posizioni degli ex coniugi non costituendo alcuna sorta di gravame avverso la sentenza di divorzio.

Sulla base di tali presupposti i Giudici bresciani hanno quindi rigettato il ricorso ritenendo altresì che il ricorrente avesse agito con colpa grave condannandolo, ex art. 96 comma 3 c.p.c., al risarcimento del danno per lite temeraria.

La quantificazione fatta dal Collegio, seppure in presenza di più soluzioni percorribili, ha tenuto conto dei parametri previsti dall'art. 2 - bis l. n. 89/2001 ovvero dell'entità delle spese processuali liquidate, adeguando conseguentemente la condanna al valore del giudizio e nel contempo preservando la funzione sanzionatoria della norma. In tal modo viene riconosciuta una liquidazione del danno calibrata sull'importo delle spese processuali o su di un loro multiplo, nel rispetto del criterio del giudizio di ragionevolezza. Nel caso di specie si è fatto luogo a una liquidazione del danno pari alla metà delle spese processuali.

Osservazioni

Perché possa farsi luogo a una modifica delle condizioni di divorzio è necessario quindi che venga dimostrato il sopraggiungere di fatti nuovi, rispetto all'epoca della pronuncia del divorzio, tali da far si che incidendo in maniera rilevante e significativa sulle condizioni reddituali dei coniugi creino una riduzione di divario fra le stesse.

A tal proposito la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n.32529/18; Cass. civ., n. 789/2017; Cass. civ., n. 14143/2014; Cass. civ., n. 10133/2007; Cass. civ., n. 9056/1999) afferma che perché possa farsi luogo ad una revisione dell'assegno divorzile non è sufficiente unicamente «L'accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma è necessaria anche l'idoneità di tale modifica a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell'assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti. In particolare, in sede di revisione, il giudice non può procedere a una nuova e autonoma valutazione dei presupposti o dell'entità dell'assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell'attribuzione dell'emolumento, deve limitarsi a verificare se e in che misura le circostanze sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l'equilibrio così raggiunto e ad adeguare l'importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale - reddituale accertata».

Ai fini della valutazione che il Tribunale è chiamato ad effettuare la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4768/2018 ribadisce che: «Ai sensi dell'art. 9 l. 898/1970 le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all'affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimangono escluse in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile». Tale orientamento era già stato fatto proprio sempre dalla Cassazione con la sentenza n. 2953/2017.

Con riferimento al tema della modifica delle condizioni la Suprema Corte ha altresì precisato che non costituisce di per sé giustificato motivo di revoca o di riduzione dell'assegno a favore del coniuge economicamente più debole la nascita di un nuovo figlio dell'onerato, in quanto il diritto del coniuge beneficiario non è recessivo rispetto a tale evento. A tal riguardo il giudice deve quindi accertarne in concreto l'incidenza negativa sulla posizione economica dell'onerato medesimo,atteso che non si deve ricondurre automaticamente alla formazione di un nuovo nucleo famigliare tale effetto essendo questa situazione da considerarsi come circostanza sopravvenuta che “può” e non “deve” portare a tale decisione. Anche il mancato reperimento da parte del coniuge beneficiario di una sistemazione lavorativa può non incidere sulla modifica delle condizioni, atteso che l'attitudine lavorativa va riscontrata non alla stregua di valutazioni astratte ed ipotetiche, bensì in concreto, in termini di sopravvenuta possibilità di svolgimento di una attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni effettivo fattore individuale ed ambientalerilevando, di contro, ad esempio, l'acquisto, da parte del beneficiario, di professionalità diverse ed ulteriori rispetto a quelle possedute in precedenza, ovvero la circostanza che lo stesso abbia ricevuto, successivamente al divorzio, effettive offerte di lavoro, ovvero che avrebbe comunque potuto concretamente procurarsi una specifica occupazione.

Con la sentenza n. 15481/2017 la Suprema Corte, al fine di poter provvedere ad una revisione dell'assegno, ha individuato gli “indici” che devono essere provati per desumere la sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell'ex coniuge beneficiario e conseguentemente farsi luogo ad un provvedimento in tal senso:« possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, capacità e possibilità effettive di lavoro personale ( in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), stabile disponibilità di una casa di abitazione, nonché eventualmente altri – rilevanti nelle singole fattispecie – senza invece tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; il tutto sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dall'ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'ex coniuge beneficiario».

Il Tribunale di Milano, (Trib. Milano, sez. IX, n. 3972/2009), ha precisato che secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza in sede di ricorso per la modifica delle condizioni di divorzio, se dalla documentazione prodotta e dalle dichiarazioni fiscali depositate da parte ricorrente non risulta alcuna contrazione dei redditi dichiarati, la richiesta di revoca o riduzione dell'obbligo economico al mantenimento del coniuge non può essere accolta per mancanza di novità rilevanti in grado di giustificare una modifica delle condizioni.

L'onere della prova incombe quindi alla parte che intende chiedere la modifica, l'avvocato dovrà quindi provare, non in maniera generica, l'intervenuto miglioramento delle condizioni economiche della parte resistente e un peggioramento di quelle della ricorrente in maniera tale che siano idonee a modificare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il provvedimento attributivo dell'assegno in sede di giudizio divorzile.

Più recentemente la Cassazione con la sentenza n. 5088 del 2018, ai fini dell'onere della prova da fornire relativamente alla richiesta di revisione dell'assegno di mantenimento a favore del figlio, ha ritenuto che il genitore che intende procedere in tal senso può avvalersi di elementi presuntivi per dimostrare l'atteggiamento di inerzia di questi a raggiungere l'autosufficienza economico reddituale affermando che: «Il genitore, qualora domandi la modifica o la declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento, è tenuto a dimostrare tale circostanza, oppure che il mancato svolgimento di un'attività produttiva di reddito dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato» indicando fra gli elementi da tener presente quello «dell'età che avanza, giacché con il raggiungimento di una età nella quale il percorso formativo e di studi, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche costituisce un indicatore forte di inerzia colpevole».

È necessario quindi che vengano forniti elementi di prova adeguati tali da poter assolvere all'onere probatorio di dimostrare le mutate condizioni economico /patrimoniali del coniuge beneficiario dell'assegno piuttosto che “l'inerzia” del figlio a raggiungere l'autosufficienza economico/ reddituale.

A seguito della modifica codicistica apportata dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, che ha introdotto l'attuale comma 3 dell'art. 96 c.p.c., non è più necessaria la domanda di parte né la prova del danno subito perché ci sia la condanna del soggetto che agisce in giudizio con una condotta contrassegnata dalla colpa grave o dalla mala fede da intendersi come pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vigente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione. La Cassazione con la sentenza Cass. civ. n. 7726/2016 ha precisato che: «Ai fini dell'applicabilità dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati».

Tale condanna è volta a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall'art. 88 c.p.c. attuata attraverso un abuso della potestas agendi consistente nel potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte ( Cass. 22405/2018).

Tale norma non ha natura meramente risarcitoria, bensì sanzionatoria, avendo introdotto nell'ordinamento una forma di danno punitivo diretto a scoraggiare l'abuso del processo e degli strumenti forniti dalla legge alle parti. La somma che la parte è condannata a corrispondere a tale titolo va riconosciuta a favore della controparte che ha subito il giudizio.

Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n.152/16, è intervenuta sulla questione della natura risarcitoria piuttosto che sanzionatoria della norma in questione a seguito di rimessione da parte del Tribunale di Firenze della questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte in cui l'articolo dispone: «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il Giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata», anziché disporla a favore dell'Erario.

A tal riguardo, nel rigettare la questione di legittimità sollevata, la Corte Costituzionale, riconoscendo che la dottrina e la giurisprudenza di merito si sono soprattutto divise sul punto se la condanna della parte soccombente contemplata dal comma terzo dell'art. 96 c.p.c. sia riconducibile allo schema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. - e quindi abbia valenza anch'essa risarcitoria del danno cagionato alla controparte dalla proposizione di una lite temeraria - ovvero risponda a una funzione (esclusivamente o prevalentemente) sanzionatoria della condotta di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, concorda con la prospettazione del Tribunale rimettente sulla natura non risarcitoria della norma richiamata riconoscendone invece la natura sanzionatoria, con finalità deflattive volte a «presidiare il processo civile dal possibile abuso processuale [e] di soddisfare l'interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione».

Tale condanna si aggiunge al ristoro delle spese del giudizio che seguono la soccombenza.

La Cassazione con la sentenza n .27623/2017, ritiene che la condanna ex art.96 comma 3 c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configuri una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art.96 commi 1 e 2 c.p.c., il cui ristoro del danno ha natura risarcitoria, e conseguentemente cumulabile con queste. Con tale provvedimento la Cassazione ha altresì preso posizione sul criterio da adottare per la quantificazione della sanzione da comminare evidenziando che il Giudice deve osservare il criterio equitativo «potendo la sanzione essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, e non può - in nessun caso - superare il limite della "ragionevolezza» (in questo senso, Cass. civ., sez. VI-II, 30 novembre 2012, n. 21570 che, in applicazione di tale principio, ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, che aveva condannato il soccombente a pagare una somma non irragionevole in termini assoluti e pari al triplo di quanto liquidato per diritti e onorari)».

La determinazione della sanzione da applicare non ha visto un orientamento univoco ai fini della sua quantificazione.

I Tribunali di Salerno e il TM di Milano (Trib. Salerno 2 febbraio 2018 n. 337; Trib. Milano 25 marzo 2011) richiamano il contenuto letterale della norma relativo alla liquidazione del quantum in via equitativa. (Il TM di Milano, ad esempio, pur esternando la consapevolezza di essere sottoposto all'obbligo «di rendere comprensibile il procedimento logico-intuitivo seguito per determinare la regola equitativa», ha determinato la somma in cinquecento euro, come altresì anche quello di Salerno, senza tuttavia ritenere necessario esplicare l'iter di calcolo che lo ha portato ad una simile determinazione. Si può presumere, come desumibile dalla motivazione della sentenza, sul presupposto che «tale modalità di costruzione della norma assolva alla necessità di non vincolare il Giudice a fronte di situazioni che per la loro mutevolezza non possono essere previamente determinate ed alla necessità di adeguare quanto più compiutamente il fatto concreto alla norma astratta»).

Altra giurisprudenza di merito (Trib. Roma sez. VIII, 1 luglio 2017, n. 13383, Trib. Trieste 8 agosto 2018 n. 509, Trib. Arezzo 2 luglio 2018, n. 705) prevede la quantificazione in misura pari all'importo liquidato a titolo di onorari, il Trib. Verona 1 ottobre 2010, Trib. Verona 1 luglio 2010; Trib. Verona 20 settembre 2010 nel doppio piuttosto che in un quarto, mentre il Trib. Alessandria 10 gennaio 2019, n.6 nella misura di un terzo delle spese di lite liquidate, con ciò valorizzandosi i combinati profili dell'abuso del processo, del valore della causa, della sua durata, tenuto conto che, nella normalità dei casi e secondo l'id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali causano ex se anche danni di natura patrimoniale che per essere ragionevolmente quantificati vanno equitativamente liquidati sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (cfr. Cass. n. 24645/2007). In particolare, l'afflizione per essere temerariamente convenuto in giudizio può presumersi prima facie direttamente proporzionale al c.d. rischio di lite e al tempo necessario alla sua definizione, fattori compendiati in termini quantitativi nelle tariffe professionali (cfr. Trib. Torino, 17 settembre 2014). Anche i Trib. Napoli Nord., sent. 21 luglio 14; Trib. Savona, 24 marzo 2014; Trib. Tivoli n. 2428/2015, sull'onda di tale presupposto, hanno ritenuto che, ai fini della sua quantificazione, sia necessario far riferimento ai parametri previsti dall'art. 2-bis l. 89/2001 ovvero all'entità delle spese processuali liquidate. Tale ultimo orientamento, secondo i Giudici bresciani, consente di adeguare la condanna al valore del giudizio preservando la funzione sanzionatoria della norma.

Altro criterio applicato, secondo ulteriore giurisprudenza di merito, è quello di quantificare la sanzione come percentuale del capitale riconosciuto alla parte vittoriosa o richiesta alla parte soccombente.

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